Privatizzazione dell'acqua, i pro e i contro

E il vero problema dell’inerzia dei Governi

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di Mariaelena Finessi

ROMA, mercoledì, 21 luglio 2010, (ZENIT.org).- Tra gli “Obiettivi di sviluppo del Millennio” che i leader mondiali si sono impegnati a realizzare entro il 2015, quello di dimezzare il numero delle persone che non hanno accesso all’acqua potabile e ai servizi igienici sembra essere più che mai un miraggio. Ragioni molteplici si frappongono al suo raggiungimento, non ultimo l’incapacità degli amministratori di garantire la distribuzione delle risorse idriche fin nelle periferie e negli slum, quartieri in cui si accalcano i più poveri dei grandi centri urbani.

Un obiettivo che Benedetto XVI invita tuttavia a non tradire, «attesa la centralità che l’acqua riveste – scrive – in qualsiasi processo volto a favorire la promozione di uno sviluppo umano integrale». Nel messaggio a firma del cardinale Tarcisio Bertone al direttore generale della FAO, Jacques Diouf, in occasione della celebrazione della Giornata mondiale dell’acqua (2007), il Santo Padre spiega pure come «opportuni investimenti nel settore dell’acqua e dei servizi igienici rappresentano un significativo meccanismo propulsore per accelerare la crescita economica e lo sviluppo sostenibile, per migliorare la salute e l’igiene umana, per sradicare la povertà e combattere il degrado dell’ambiente».

D’altronde è nota la stretta correlazione tra la diffusione di certe malattie infettive e parassitarie, specie tra i bambini, e la carenza di acqua pulita. Sull’argomento, una certa coscienza civica si è destata solo a partire dal 2000, cioè dalla cosiddetta «guerra dell’acqua», la rivolta popolare che in quell’anno costrinse il governo boliviano – con lo scotto di molti feriti e troppi morti – a dichiarare la legge marziale e revocare la cessione della rete idrica di Cochabamba, comunità che si era vista sottrarre anche il controllo dell’acqua piovana con conseguenze devastanti. Iniziava l’epoca delle mobilitazioni sociali.

Molte Chiese locali dell’America Latina si sono confrontate allora con progetti estrattivi (di minerali, petrolio, legname, ecc.) e infrastrutturali (costruzione di dighe, di strade, ecc.) dall’ingente impatto ambientale. Non di rado hanno accompagnato, e a volte guidato, le proteste delle popolazioni, sviluppando competenze su terreni mai toccati fino ad allora dall’azione pastorale e subendo, per queste battaglie, attentati contro i propri esponenti, vescovi compresi. Dunque, accanto alle pressioni delle multinazionali per accaparrarsi la gestione dei servizi idrici urbani, sono aumentate le proteste degli ambientalisti, dei gruppi religiosi, dei sindacalisti, partiti politici e organizzazioni per la difesa dei diritti umani.

Già, perché di questo si tratta: di un diritto elementare d’ogni essere vivente che – ed è qui il pomo della discordia – non può essere mercificato dalle imprese, mosse – questo è ovvio – dalla ragione del profitto più che da un reale interesse per il bene dell’umanità. Imprese cresciute a dismisura negli anni ’90, potendo contare sul sostegno della Banca Mondiale e di altre istituzioni internazionali come parte di un insieme di politiche volte a trasformare i Paesi in via di sviluppo in economie più orientate verso il libero mercato.

I risultati, come dimostra l’esperienza, non sempre hanno onorato le aspettative tanto che il termine stesso, “privatizzazione”, si porta dietro una cattiva nomea. Le imprese, ad esempio, hanno investito meno di quanto si sperava e le tariffe sono aumentate per garantire loro la redditività economica agognata. Quando non si sono raggiunti gli obiettivi segnalati nei contratti di servizio, questi sono stati rivisti a favore delle aziende piuttosto che farli attuare.

Le amministrazioni non hanno avuto così l’autorità né la competenza per controllare il comportamento delle multinazionali. Ecco spiegato anche perché si tenta di abbandonare la parola “privatizzazione” per ricorrere ad una terminologia alternativa – come “partenariato pubblico-private” (PPP in inglese) e “partecipazione del settore privato” (PSP) – sebbene resti di fatto la sostanza: il trasferimento del controllo e della gestione delle operazioni ad imprese private, che le trasformano di fatto in monopolisti dell’acqua.

Ma come è stato possibile cedere ai privati un bene considerato “inalienabile”? Durante gli anni ’80, in pratica, le strutture pubbliche non sono riuscite ad estendere i servizi idrici: fallimenti che sono stati utilizzati per giustificare le politiche privatizzatici nel decennio successivo. Di più, in questo periodo molti Paesi in via di sviluppo sono stati sottomessi a dittature che hanno accumulato profitti dai prestiti destinati al risanamento del sistema idrico. Le prime privatizzazioni hanno dunque prosperato in regimi antidemocratici. Viene dunque da lì una nuova visione basata sulla democrazia e su un livello di partecipazione collettiva con l’inevitabile corollario di dibattiti e posizioni di scontro: pubblico o privato?

La Chiesa, dal suo canto, sottolinea nel Compendio della Dottrina sociale (al n. 485) che «l’acqua, per la sua stessa natura, non può essere trattata come una mera merce tra le altre e il suo uso deve essere razionale e solidale. La sua distribuzione rientra, tradizionalmente, fra le responsabilità di enti pubblici, perché l’acqua è stata sempre considerata come un bene pubblico, caratteristica che va mantenuta qualora la gestione venga affidata al settore privato. Il diritto all’acqua, come tutti i diritti dell’uomo, si basa sulla dignità umana, e non su valutazioni di tipo meramente quantitativo, che considerano l’acqua solo come un bene economico. Senza acqua la vita è minacciata. Dunque, il diritto all’acqua è un diritto universale e inalienabile».

Al tema dell’«Acqua, fonte di vita» la Conferenza dei vescovi del Brasile ha dedicato nel 2004 la Campagna di fraternità, caratterizzata da un gran numero di iniziative concrete e giudicata dall’allora presidente del Pontificio consiglio Giustizia e Pace, cardinale Renato Martino, un modello per tutti gli episcopati del mondo, affinché incoraggino i propri governi a «dichiarare l’acqua un diritto umano». In Canada, negli ultimi anni la Commissione “Sviluppo e pace” della Conferenza episcopale (Cecc) – nell’ambito dell’annuale campagna ecumenica contro la privatizzazione delle risorse idriche – ha consegnato una petizione al Ministero degli Esteri  per chiedere alle autorità canadesi che l’accesso all’acqua potabile sia riconosciuto come un diritto umano fondamentale e che il valore di questo bene comune venga considerato prioritario rispetto a qualsiasi considerazione commerciale. Di pochi giorni fa è la notizia che la Chiesa in Ghana ha donato dei pozzi alle comunità locali perché, spiega, non si può parlare di Dio a chi ha sete.

Dal forte impatto mediatico è invece l’iniziativa di monsignor Luis Infanti de la Mora, servita italiano nonché vescovo del vicariato apostolico di Aysen, nella Patagonia cilena, che nel 2008 ha pubblicato una lettera pastorale (la sua prima, in otto anni di episcopato) dal titolo “Dacci oggi l’acqua quotidiana“. Il testo affronta nelle 90 pagine il tema dal punto di vista ambientale, sociale ed economico, inquadrando la situazione locale nel contesto della crisi ecologica globale, tentando di offrire alcune proposte operative, secondo il metodo «vedere-giudicare-agire». Il presule, che l’ha consegnata al governo, al Parlamento e alla Corte suprema di giustizia del Cile, ne ha dato copia anche ai dirigenti italiani dell’Enel suscitando un movimento per la ripubblicizzazione dell’acqua.

Resta la domanda: qual è la cosa migliore da fare? Gestione pubblica o privata? Michael Klein, vicepresidente per lo sviluppo del settore privato alla Banca Mondiale di Washington in una intervista alla BBC ha dichiarato che qualcuno – sia esso il consumatore con il canone o il Governo attraverso le sovvenzioni alle imprese – deve pur pagare per le migliorie sui sistemi di distri
buzione idrica e di depurazione e che non si può pensare di andare lontano in termini di investimenti con il livello dei prezzi attuali. Dunque, gli aumenti tariffari sarebbero inevitabili.

Ai fautori della privatizzazione, come Klein, si potrebbe però ribattere che a quel punto coloro che – stando ai famosi “Obiettivi di sviluppo del Millennio” – dovrebbero beneficiare dell’accesso all’acqua (ossia i poveri) sono quelli che, in mancanza di un reddito, paradossalmente ne resterebbero fuori.

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ZENIT Staff

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