The first Advent homily for 2015 was preached by Fr Raniero Cantalamessa

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Prima predica di Quaresima di Padre Cantalamessa (Testo Integrale)

Il testo integrale del predicatore della Casa Pontificia pronunciato venerdì 19 febbraio 2016

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  1. Il Concilio Vaticano II: un affluente, non il fiume

In queste meditazioni quaresimali vorrei continuare la riflessione su altri grandi documenti del Vaticano II, dopo aver meditato, in Avvento, sulla Lumen gentium. Credo però che sia utile fare una premessa. Il Vaticano II è un affluente, non è il fiume. Nella sua famosa opera su “Lo sviluppo della dottrina cristiana”, il beato cardinal Newman ha affermato con forza che fermare la tradizione a un punto del suo corso, fosse pure un concilio ecumenico, sarebbe farne una morta tradizione e non una “tradizione vivente”. La tradizione è come una musica. Che sarebbe di una melodia che si arrestasse su una nota, ripetendola all’infinito? Succede con un disco che si guasta e sappiamo l’effetto che produce.
San Giovanni XXIII voleva che il concilio fosse per la Chiesa “come una novella Pentecoste”. In un punto almeno questa preghiera è stata esaudita. Dopo il concilio si è avuto un risveglio dello Spirito Santo. Questi non è più “lo sconosciuto” nella Trinità. La Chiesa ha preso una più chiara coscienza della sua presenza e della sua azione. Nell’Omelia della Messa crismale del Giovedì Santo 2012, Benedetto XVI affermava:
“Chi guarda alla storia dell’epoca post-conciliare può riconoscere la dinamica del vero rinnovamento, che ha spesso assunto forme inattese in movimenti pieni di vita e che rende quasi tangibili l’inesauribile vivacità della santa Chiesa, la presenza e l’azione efficace dello Spirito Santo”.
Questo non significa che possiamo fare a meno  dei testi del concilio o andare oltre di essi; significa rileggere il Concilio alla luce dei suoi stessi frutti. Che i concili ecumenici possono  avere degli effetti non intesi sul momento da coloro stessi che vi presero parte, è una verità messa in luce dallo stesso cardinal Newman a proposito del Vaticano II[1] , ma testimoniata più volte nella storia. Il concilio ecumenico di Efeso del 431, con la definizione di Maria come Theotokos, Madre di  Dio,  si proponeva  di affermare l’unità di persona di Cristo, non di incrementare il culto della Vergine, ma di fatto il suo frutto più evidente fu proprio quest’ultimo.
Se c’è un campo in cui la teologia e la vita della Chiesa cattolica si è arricchita in questi 50 anni del post-concilio, esso è senza dubbio quello relativo allo Spirito Santo. In tutte le principali denominazioni cristiane si è affermata in questi ultimi tempi quella che, con un’espressione coniata da Karl Barth, viene definita “la Teologia del Terzo articolo”. La teologia del terzo articolo è quella che non finisce con l’articolo sullo Spirito Santo, ma comincia con esso; che tiene conto dell’ordine secondo cui si formò la fede cristiana e il suo credo, e non solo del suo prodotto finale. Fu infatti alla luce dello Spirito Santo che gli apostoli scoprirono chi è era veramente Gesú e la sua rivelazione sul Padre. Il credo attuale della Chiesa è perfetto e nessuno si sogna di cambiarlo, ma esso riflette il prodotto finale, lo stadio ultimo raggiunto dalla fede, non il cammino attraverso cui si giunse ad esso, mentre, in vista di una rinnovata evangelizzazione, è vitale per noi conoscere anche il cammino attraverso cui si arriva alla fede, non solo la sua codificazione definitiva che proclamiamo a memoria nel credo.
In questa luce appaiono chiaramente le implicazioni di certe affermazioni del concilio, ma appaiono anche dei vuoti e delle lacune da riempire, in particolare proprio a proposito del ruolo dello Spirito Santo. Prendeva atto di questa necessità già san Giovanni Paolo II, quando, in occasione del XVI centenario del concilio ecumenico di Costantinopoli, nel 1981, scriveva nella sua Lettera apostolica la seguente affermazione:
“Tutta l’opera di rinnovamento della Chiesa, che il Concilio Vaticano II ha così provvidenzialmente proposto e iniziato […] non può realizzarsi se non nello Spirito Santo, cioè con l’aiuto della sua luce e della sua potenza”[2].

  1. Il posto dello Spirito Santo nella liturgia

Questa premessa generale si rivela particolarmente utile nell’affrontare il tema della liturgia, la Sacrosanctun concilium. Il testo  nacque dal bisogno, avvertito da tempo e da più parti, di un rinnovamento delle forme e dei riti della liturgia cattolica. Da questo punto di vista, i suoi frutti sono stati tanti e, nell’insieme, quanto mai benefici per la Chiesa. Meno avvertito era, in quel momento, il bisogno di soffermarsi su quello che, dietro Romano Guardini, si suole chiamare “lo spirito della liturgia”[3], e che – nel senso che spiegherò – io chiamerei piuttosto “la liturgia dello Spirito” (Spirito con la lettera maiuscola!).
Fedeli all’intento dichiarato di queste nostre meditazioni di valorizzare alcuni aspetti più spirituali e interiori dei testi conciliari, è proprio su questo punto che vorrei riflettere. La SC dedica ad esso solo un breve testo iniziale, frutto del dibattito che precedette la redazione finale della costituzione[4]:
“Per il compimento di quest’opera così grande, con la quale viene resa a Dio una gloria perfetta e gli uomini vengono santificati, Cristo associa sempre a sé la Chiesa, sua sposa amatissima, la quale l’invoca come suo Signore e per mezzo di lui rende il culto all’eterno Padre. Giustamente perciò la liturgia è considerata come l’esercizio della funzione sacerdotale di Gesù Cristo. In essa, la santificazione dell’uomo è significata per mezzo di segni sensibili e realizzata in modo proprio a ciascuno di essi; in essa il culto pubblico integrale è esercitato dal corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal capo e dalle sue membra. Perciò ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun’altra azione della Chiesa ne uguaglia l’efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado[5].
È nei soggetti, o negli “attori”, della liturgia che oggi siamo in grado di notare una lacuna in questa descrizione. I protagonisti qui messi in luce sono due: Cristo e la Chiesa. Manca ogni accenno al posto dello Spirito Santo. Anche nel resto della costituzione, lo Spirito Santo non è mai oggetto di un discorso diretto, solo nominato qua e là, e sempre “in obliquo”.
L’Apocalisse ci indica l’ordine e il numero completo degli attori liturgici quando riassume il culto cristiano nella frase: “Lo Spirito e la Sposa dicono (a Cristo Signore), Vieni!” (Ap 22, 17). Ma già Gesú aveva espresso in modo perfetto la natura e la novità del culto della Nuova Alleanza nel dialogo con la Samaritana: “Viene l’ora –ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e Verità” (Gv 4, 23).
L’espressione “Spirito e Verità”, alla luce del vocabolario giovanneo, può significare solo due cose: o “lo Spirito di verità”, cioè lo Spirito Santo (Gv 14,17; 16,13), o lo Spirito di Cristo che è la verità (Gv 14,6). Una cosa è certa: essa non ha niente a che vedere con la spiegazione  soggettiva, cara agli idealisti e ai romantici, secondo cui “spirito e verità”, indicherebbe l’interiorità nascosta dell’uomo, in opposizione a ogni culto esterno e visibile. Non si tratta solo del passaggio dall’esterno all’interno, ma del passaggio dall’umano al divino.
Se la liturgia cristiana è “l’esercizio della funzione sacerdotale di Gesù Cristo”, la via migliore per scoprire la sua natura, è vedere come Gesú esercitò la sua funzione sacerdotale nella sua vita e nella sua morte.  Il compito del sacerdote è offrire “preghiere e sacrifici” a   Dio (cf. Ebr 5,1; 8,3). Ora sappiamo che era lo Spirito Santo che metteva nel cuore del Verbo fatto carne il grido “Abba”! che racchiude ogni sua preghiera. Luca lo nota esplicitamente quando scrive: “In quella stessa ora Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo e disse: Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra…” (cf. Lc 10, 21). La stessa offerta del suo corpo in sacrificio sulla croce  avvenne, secondo la Lettera agli Ebrei, “in un Spirito eterno” (Ebr 9,14), cioè per un impulso dello Spirito Santo.
San Basilio ha un testo illuminante.
“Il cammino della conoscenza di Dio procede dall’unico Spirito, attraverso l’unico Figlio, fino all’unico Padre; inversamente, la bontà naturale, la santificazione secondo natura, la dignità regale, si diffondono dal Padre, per mezzo dell’Unigenito, fino allo Spirito” [6].
In altre parole, l’ordine della creazione, o dell’uscita delle creature da  Dio, parte dal Padre, passa attraverso il Figlio e giunge a noi nello Spirito Santo. L’ordine della conoscenza o del nostro ritorno a  Dio, di cui la liturgia è l’espressione più alta, segue il cammino inverso: parte dallo Spirito, passa attraverso il Figlio e termina al Padre. Questa visione discendente e ascendente della missione dello Spirito Santo è presente anche nel mondo latino. Il Beato Isacco della Stella (sec. XII), la esprime in termini assai vicini a quelli di Basilio:
“Come le cose divine discendono a noi dal Padre, per mezzo del Figlio e dello Spirito Santo, o nello Spirito Santo, così le cose umane ascendono al Padre attraverso il Figlio e [nello] Spirito Santo”[7].
Non si tratta, come si vede, di fare, per così dire, il tifo per l’una o l’altra delle tre persone della Trinità, ma di salvaguardare il dinamismo trinitario della liturgia. Il silenzio sullo Spirito Santo attenua inevitabilmente il carattere trinitario della liturgia. Per questo mi sembra quanto mai opportuna il richiamo che san Giovanni Paolo II faceva nella Novo millennio ineunte:
“Realizzata in noi dallo Spirito Santo, la preghiera ci apre, attraverso Cristo ed in Cristo, alla contemplazione del volto del Padre. Imparare questa logica trinitaria della preghiera cristiana, vivendola pienamente innanzitutto nella liturgia, culmine e fonte della vita ecclesiale, ma anche nell’esperienza personale, è il segreto di un cristianesimo veramente vitale, che non ha motivo di temere il futuro, perché continuamente torna alle sorgenti e in esse si rigenera”[8].

  1. L’adorazione “nello Spirito”

Vediamo di trarre, da queste premesse, qualche indicazione pratica per il nostro modo di vivere la liturgia e fare si che essa assolva uno dei suoi compiti primari che è  la santificazione delle anime. Lo Spirito Santo non autorizza a inventare nuove e arbitrarie forme di liturgia o a modificare di propria iniziativa quelle esistenti (compito questo che spetta alla gerarchia). Egli è l’unico però che rinnova e da la vita a tutte le espressioni della liturgia. In altre parole, lo Spirito Santo non fa cose nuove, ma fa nuove le cose! Il detto di Gesú ripetuto da Paolo: “È lo Spirito che da la vita” (Gv 6, 63; 2 Cor 3, 6) si applica in primo luogo alla liturgia.
L’Apostolo esortava i suoi fedeli a pregare “nello Spirito” ( Ef  6,18; cf. anche Giuda 20). Che significa  pregare nello Spirito? Significa permettere a Gesú di continuare a esercitare il proprio ufficio sacerdotale nel suo corpo che è la Chiesa. La preghiera cristiana diventa il prolungamento nel corpo della preghiera del capo. E’ nota l’affermazione di sant’Agostino:
“Il Signore nostro Gesù Cristo, Figlio di  Dio è colui che prega per noi, che prega in noi e che è pregato da noi. Prega per noi come nostro sacerdote, prega in noi come nostro capo, è pregato da noi come nostro Dio. Riconosciamo dunque in lui la nostra voce, e in noi la sua voce”[9].
In questa luce, la liturgia ci appare come l’“opus Dei”, l’opera di  Dio”, non solo perché ha Dio per oggetto, ma anche perché ha  Dio come soggetto;  Dio non è solo pregato da noi, ma prega in noi. Il grido stesso Abbà! che lo Spirito, venendo in noi, rivolge al Padre (Gal 4, 6; Rom 8, 15) dimostra che chi prega in noi, attraverso lo Spirito, è Gesù, il Figlio unico di Dio. Per se stesso, infatti, lo Spirito Santo non potrebbe rivolgersi a Dio, chiamandolo Abbà, Padre, perché egli non è “generato”, ma soltanto “procede” dal Padre. Se lo può fare, è perché è lo Spirito di Cristo che continua  in noi la sua preghiera filiale.
E soprattutto quando la preghiera diventa fatica e lotta che si scopre tutta l’importanza dello Spirito Santo per la nostra vita di preghiera. Lo Spirito diviene, allora, la forza della nostra preghiera “debole”, la luce della nostra preghiera spenta; in una parola, l’anima della nostra preghiera. Davvero, egli “irriga ciò che è arido”, come diciamo nella sequenza in suo onore.
Tutto questo avviene per fede. Basta che io dica o pensi: “Padre, tu mi hai donato lo Spirito di Gesù; formando, perciò, “un solo Spirito” con Gesù, io recito questo salmo, celebro questa santa messa, o sto semplicemente in silenzio, qui alla tua presenza. Voglio darti quella gloria e quella gioia che ti darebbe Gesù, se fosse lui a pregarti ancora dalla terra”.
Lo Spirito Santo vivifica in modo particolare la preghiera di adorazione che è il cuore di ogni preghiera liturgica. La sua peculiarità deriva dal fatto che è l’unico sentimento che possiamo nutrire solo ed esclusivamente verso le persone divine. È ciò che distingue il culto di latria, da quello di dulia riservato ai santi e di iperdulia riservato alla Santa Vergine. Noi veneriamo la Madonna, non la adoriamo, contrariamente a quanto alcuni pensano dei cattolici.
L’adorazione cristiana è anch’essa trinitaria. Lo è nel suo svolgersi, perché è adorazione resa “al Padre, per mezzo del Figlio, nello Spirito Santo”, e lo è nel suo termine, perché è adorazione resa, insieme,”al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo”.
Nella spiritualità occidentale, chi ha sviluppato più fondo il tema dell’adorazione è stato il cardinale Pierre de Bérulle (1575-1629). Per lui, Cristo è il perfetto adoratore del Padre, al quale bisogna unirsi per adorare  Dio con una adorazione di valore infinito[10]. Scrive:
“Da tutta l’eternità, c’era bensì un  Dio infinitamente adorabile, ma non c’era ancora un adoratore infinito; […] Tu sei adesso, o Gesú, questo adoratore, quest’uomo, questo servitore infinito per potenza, qualità e dignità, per soddisfare pienamente questo dovere e rendere questo divino omaggio” [11].
Se c’è una lacuna in questa visione che pure ha dato alla Chiesa frutti bellissimi e ha plasmato la spiritualità francese per diversi secoli, essa è la stessa che abbiamo messo in luce nella costituzione del Vaticano II: l’insufficiente attenzione accordata al ruolo dello Spirito Santo. Dal Verbo incarnato, il discorso di Bérulle passa alla “corte regale” che lo segue e lo accompagna: la Santa Vergine, Giovanni Battista, gli apostoli, i santi; manca il riconoscimento del ruolo essenziale dello Spirito Santo.
In ogni movimento di ritorno a  Dio, ci ha ricordato san Basilio, tutto parte dallo Spirito, passa attraverso il Figlio e termina al Padre. Non basta perciò ricordare ogni tanto che c’è anche lo Spirito Santo; bisogna riconoscergli il ruolo di anello essenziale, sia nel cammino di uscita delle creature da  Dio che in quello di ritorno delle creature a Dio. Il fossato esistente tra noi e il Gesù della storia è colmato dallo Spirito Santo. Senza di lui, tutto nella liturgia è soltanto memoria; con lui, tutto è anche presenza.
Nel libro dell’Esodo, si legge che, sul Sinai, Dio indicò a Mosè una cavità nella rupe, nascosto dentro la quale egli avrebbe potuto contemplare la sua gloria senza morire (cf Es 33,21). Commentando questo passo, lo stesso san Basilio scrive:
“Qual è oggi, per noi cristiani, quella cavità, quel luogo, dove possiamo rifugiarci per contemplare e adorare Dio? E’ lo Spirito Santo! Da chi lo sappiamo?  Dallo stesso Gesù che ha detto: I veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e verità!” [12].
Quali prospettive, quale bellezza, quale potenza, quale attrazione tutto ciò conferisce all’ideale dell’adorazione cristiana! Chi non sente il bisogno di nascondersi ogni tanto, nel vortice turbinoso del mondo, in quella cavità spirituale per contemplare Dio e adorarlo come Mosè?

  1. Preghiera di intercessione

Accanto all’adorazione, una componente essenziale della preghiera liturgica è l’intercessione. In tutta la sua preghiera, la Chiesa non fa che intercedere: per se stessa e per il mondo, per i giusti e per i peccatori, per i vivi e per i morti. Anche questa è una preghiera che lo Spirito Santo vuole animare e avvalorare. Di lui san Paolo scrive:
“Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di  Dio” (Rom 8, 26-27).
Lo Spirito Santo intercede per noi e ci insegna a intercedere, a nostra volta, per gli altri. Fare preghiera di intercessione significa unirsi, nella fede, a Cristo risorto che vive in perenne stato di intercessione per il mondo (cf Rm 8, 34; Eb 7, 25; 1 Gv 2, 1). Nella grande preghiera con cui concluse la sua vita terrena, Gesú ci offre il più sublime esempio di intercessione.
“Prego per loro, per coloro che mi hai dato. […] Custodiscili nel tuo nome. Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno. Consacrali nella verità. […] Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me…” (cf Gv 17, 9 ss).
Del Servo sofferente si dice, in Isaia, che Dio gli da in premio le moltitudini “perché portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori” (Is 53,12): Questa profezia ha trovato il suo perfetto compimento in Gesù che, sulla croce, intercede per i suoi crocifissori (cf Lc 23, 34).
L’efficacia della preghiera di intercessione non dipende dal “moltiplicare le parole” (cf Mt 6, 7), ma dal grado di unione che si riesce a realizzare con le disposizioni filiali di Cristo. Più che le parole di intercessione, giova, semmai, moltiplicare gli intercessori, cioè invocare l’aiuto di Maria e dei Santi. Nella festa di Tutti i Santi, la Chiesa chiede a Dio di essere esaudita “per l’abbondanza degli intercessori” (“multiplicatis intercessoribus”).
Si moltiplicano gli intercessori anche quando si prega gli uni per gli altri. Dice sant’Ambrogio:
“Se tu preghi per te, solamente tu pregherai per te, e se ciascuno prega soltanto per sé, la grazia che ottiene chi prega sarà minore rispetto a quella di chi intercede per gli altri. Ora poiché i singoli pregano per tutti, avviene anche che tutti pregano per i singoli. Quindi per concludere, se tu preghi soltanto per te, sei solo a pregare per te. Se invece tu preghi per tutti, tutti pregheranno per te, essendo tu compreso tra quei tutti”[13].
La preghiera di intercessione è così accetta a Dio, perché è la più libera da egoismo, riflette più da vicino la gratuità divina e si accorda con la volontà di Dio, la quale vuole “che tutti gli uomini siano salvi” (cf 1 Tm 2, 4). Dio è come un padre pietoso che ha il dovere di punire, ma che cerca tutte le possibili attenuanti per non doverlo fare ed è felice, in cuor suo, quando i fratelli del colpevole lo trattengono dal farlo.
Se mancano queste braccia fraterne levate verso di lui, egli se ne lamenta nella Scrittura: “Egli ha visto che non c’era alcuno, si è meravigliato perché nessuno intercedeva” (Is 59, 16). Ezechiele ci trasmette questo lamento di Dio: “Io ho cercato fra loro un uomo che costruisse un muro e si ergesse sulla breccia di fronte a me, per difendere il paese perché io non lo devastassi, ma non l’ho trovato” (Ez 22, 30).
La parola di Dio mette in rilievo lo straordinario potere che ha presso Dio, per sua stessa disposizione, la preghiera di coloro che ha messo a capo del suo popolo. Si dice in un salmo che Dio aveva deciso di sterminare il suo popolo a causa del vitello d’oro, “se Mosè non fosse stato sulla breccia di fronte a lui per stornare la sua collera” (cf Sal 106, 23).
Ai pastori, e alle guide spirituali io oso dire: quando, nella preghiera, sentite che Dio è adirato con il popolo che a voi affidato, non schieratevi subito con Dio, ma con il popolo! Così fece Mosè, fino a protestare di voler essere radiato lui stesso, con loro, dal libro della vita (cf Es 32, 32), e la Bibbia fa capire che questo era proprio ciò che Dio desiderava, perché egli “abbandonò il proposito di nuocere al suo popolo”. Quando si  è davanti al popolo, allora dobbiamo dare ragione, con tutta la forza, a Dio. Allorché Mosè, poco dopo, si trovò di fronte al popolo, allora si accese la sua ira: frantumò il vitello d’oro, ne disperse la polvere nell’acqua e fece trangugiare l’acqua alla gente (cf Es 32, 19 ss). Solo chi ha difeso il popolo davanti a Dio e ha portato il peso del suo peccato, ha il diritto – e avrà il coraggio –, dopo, di gridare contro di esso, in difesa di Dio, come fece Mosè.
Terminiamo proclamando insieme il testo che meglio riflette il posto dello Spirito Santo e l’orientamento trinitario della liturgia, e cioè la dossologia finale del canone romano: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te,  Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli. Amen”.
[1] Cf. I. Ker, Newman, the Councils, and Vatican II, in “Communio”. International Catholic Review, 2001, pp. 708-728.
[2] Giovanni Paolo II, Lettera apostolica A Concilio Constantinopolitano I, 25 marzo 1981, in AAS 73 (1981) 515-527.
[3] R.Guardini, Vom Geist del Liturgie,  23 ed., Grünewald 2013; J. Ratzinger, Der Geist del Liturgie, Herder, Freiburg, i.b., 2000.
[4] Alberigo, op. cit., III, p 245 s.
[5] SC, 7.
[6] S. Basilio di Cesarea, De  Spiritu Sancto XVIII, 47 (PG 32 , 153).
[7]  B. Isacco della Stella, De anima (PL 194,  1888).
[8] NMI, 32.
[9] Agostino, Enarrationes in Psalmos 85, 1: CCL 39, p. 1176.
[10] M. Dupuy, Bérulle, une spiritualité de l’adoration, Paris 1964. .
[11] P. de Bérulle,  Discours de l’Etat et des grandeurs de Jésus (1623), ed. Paris 1986, Discours II, 12.
[12] S. Basilio, De Spiritu Sancto, XXVI,62 (PG 32, 181 s.).
[13] S. Ambrogio, De Cain et Abel, I, 39 (CSEL 32, p. 372).

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ZENIT Staff

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