Poesia e scienza: un binomio (im)possibile?

Il preludio di una nuova poetica nell’opera di Corrado Calabrò

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Esistono molti modi di fare poesia. Poesia giocosa, evocativa, intimistica, didascalica… per dare voce a particolari stati d’animo o per esprimere sottili suggestioni. Ed esistono diversi tipi di “materiali poetici”. Per lo più riconducibili agli archetipi dell’astrazione e dell’utopia che hanno orientato la ricerca poetica d’ogni tempo.

Sembrava esservi un solo regno irriducibile all’esperienza poetica: la scienza. Assoggettata a regole codificate, persino un po’ arida nella sua ferrea logica deterministica, la scienza aveva a fondamento la riproducibilità dei fenomeni. Mentre la poesia, per la sua natura d’opera d’arte, tendeva ad essere un atto unico.

Questa tradizionale dicotomia può dirsi oggi superata. Così come papa Wojtyla ha proclamato la sostanziale convergenza tra fede e ragione, assistiamo oggi ad un progressivo avvicinamento tra poesia e scienza. Nel senso che i rispettivi centri d’indagine non appaiono più così distanti, ma si collocano su un versante conoscitivo che sembra preludere a un nuovo umanesimo.

Oggi anche le conquiste della scienza sembrano alimentare la ricerca poetica. E d’altra parte, quale fonte d’ispirazione potrebbe essere più seducente dello spazio infinito o dell’origine del tempo, quali ci vengono proposti dalle concezioni einsteiniane e dalle nuove frontiere della fisica? Scriveva il poeta Allen Ginsberg: “solo lo scienziato è vero poeta: ci dà la luna, ci promette le stelle, ci farà un nuovo universo, se sarà il caso…”.

Siamo in presenza di un processo in corso, ancora incompiuto, ma al quale bisogna guardare con attenzione per comprendere l’evoluzione intellettuale ed artistica del nostro tempo.

Un autore che può definirsi un precursore in tal senso è senza dubbio Corrado Calabrò, al quale dedichiamo l’odierna monografia. Calabrò è stato tra i primi ad intuire le potenzialità creative insite in questa nuova poetica, anche per via del suo accentuato interesse per la scienza della fisica. E infatti più di vent’anni fa (vale a dire nel 1992) scriveva il componimento intitolato Gli occhi di Circe, che utilizziamo come base per la nostra riflessione.

CORRADO CALABRÒ

Gli occhi di Circe

Navi come aquiloni,

transumanti ad agosto

per cinerei pianori mare-cielo

sotto gli occhi di roccia della maga.

Albeggia

sul macigno del Circeo.

Dopo la notte insonne

fiotta a singhiozzo, nel pendio pietroso,

la fonte prigioniera di Lucullo.

Il cielo è tutto una lavagna vuota,

attonita dell’acqua che la specchia.

Come un sasso s’apparta il mio cuore.

Pure

nel bacino del porto intiepidito

piano piano si colma

di celesti sopori fumiganti

l’insonnia notturna.

Le barche finalmente appisolate

dondolano fianco a fianco, nel pontile.

Lenta, a perdita d’occhio,

monta l’albedine

soffocando in se stessa mare e cielo.

Esala il giorno la sua ora salsa.

La privazione di te

ora si stinge – diacronicamente –

in questa vastità senza orizzonte

del mare che nel cielo trascolora.

Come un sasso appartato è il mio cuore.

Oh, l’azzurro cancella le galassie!

E più di ogni altra debole

è la forza attrattiva che le lega;

ma nessuna le sfugge, alla distanza.

Sasso tra i sassi è per gli altri il mio cuore.

Un sasso inanimato sulla roccia:

ma – gemello di quelli che stanotte

piovevano da spazi siderali

con scie incandescenti –

questo sasso conserva per sé solo

la memoria impietrita

d’aver sfiorato il volto di una stella.

Il componimento, che può considerarsi un punto di fusione tra poesia e scienza, si apre con una visione del mare. Il mare come orizzonte fisico e metafisico, dove le nostre ansie esistenziali possono veleggiare o naufragare. Il mare che, al pari della vita, ha bisogno di una bussola per indicare la rotta ma, al tempo stesso, non può prescindere dal sesto senso marino…

Il cielo è tutto una lavagna vuota, / attonita dell’acqua che la specchia. / Come un sasso s’apparta il mio cuore.

In questa solitudine, in questa contemplazione della natura, ecco irrompere l’intuizione dell’amore… l’amore inappagato, irraggiungibile come la poesia, per l’impossibilità del desiderio di riconoscersi compiutamente nell’esperienza vissuta:

La privazione di te / ora si stinge – diacronicamente – / in questa vastità senza orizzonte / del mare che nel cielo trascolora. / Come un sasso appartato è il mio cuore.

Ma ecco che dalla fusione di queste dimensioni fisiche e metafisiche (la solitudine, il mare, l’amore…) nasce l’intuizione nuova, introducendo uno scarto deciso rispetto ai versi in precedenza citati: un nuovo e potente impulso verso l’assoluto, che proietta l’immaginazione verso spazi siderali realizzando una nuova e imprevista simbiosi tra l’infinitezza del cosmo e il microcosmo individuale:

Un sasso inanimato sulla roccia: / ma – gemello di quelli che stanotte / piovevano da spazi siderali / con scie incandescenti – / questo sasso conserva per sé solo / la memoria impietrita / d’aver sfiorato il volto di una stella.

Ed è qui che l’angoscia della solitudine si stempera in una percezione salvifica, in un senso di appartenenza a un ordine nuovo, simboleggiato dalla realtà materiale di un sasso: materia inorganica originata da un ancestrale big bang ed espressione di un principio vitale che pervade l’intero universo.

Al di là della statura letteraria di Calabrò, sancita dai più autorevoli esponenti della critica (da Luzi a Bo, da Cimatti a Rea, da Piromalli a Maffia), quel che c’interessa, ai fini della presente riflessione, è la sua originale propensione a contaminare il linguaggio della poesia con terminologie e concetti che derivano dal mondo scientifico.

“Da Lucrezio in poi – osserva Dante Maffia – nessuno aveva provato a intessere l’ordito della poesia con la trama della scienza, a ibridare la veggenza poetica con la visione scientifica”.

Calabrò si muove in questa direzione, forte anche di una variegata e profonda preparazione culturale, perché intravede nei moderni sviluppi della scienza – ed in particolare della fisica, forse la più astratta tra le discipline scientifiche (benché fondata su esiti sperimentalmente riproducibili) – una modalità di conoscenza che rivela un “accostamento profondo all’arte”.

“Per chi ama e sente la scienza, una scoperta scientifica, un’equazione parlano come un capolavoro d’arte”, gli fa eco lo scienziato Antonino Zichichi. “Un giorno, queste due grandi conquiste dell’umano intelletto saranno entrambe sorgenti di pari fascino ed emozione”.

Nato a Reggio Calabria, Corrado Calabrò vive a Roma. Magistrato, ha ricoperto importanti cariche istituzionali. I suoi libri di poesia sono stati tradotti in molte lingue. Principali raccolte di versi: Prima attesa (1960); Agavi in fiore (1976); La memoria dell’acqua (1991); Rosso d’Alicudi (1992, finalista al Premio Viareggio); Una vita per il suo verso (2002). Per la sua opera poetica l’Università Mechnikov di Odessa gli ha conferito, nel 1997, la laurea “honoris causa”. Nel 1999 si è classificato terzo al Premio Strega con il romanzo Ricorda di dimenticarla.

***

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Massimo Nardi

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