Piccola catechesi sui dieci comandamenti

BOLOGNA, sabato, 9 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la conferenza dal titolo “Le dieci parole dell’alleanza” tenuta il 7 ottobre dal Cardinale Carlo Caffarra, Arcivescovo di Bologna, presso la “Sala della Comunità” della Parrocchia S. Maria della Misericordia a Bologna.

 

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1. «Lascia partire il mio popolo, perché possa servirmi nel deserto» [Es 7,16]. È con queste parole che Mosè inizia il suo “combattimento” contro il Faraone. Egli chiede in nome di Dio la libertà per poter rendere culto al Signore. Esiste dunque una correlazione fra la liberazione dal giogo faraonico e il culto dovuto al Signore. L’una, per così dire, è condizione dell’altro.

C’è un aspetto o un particolare in questo inizio dello scontro Faraone-Mosè. Il Faraone cerca un compromesso, dopo il flagello delle piaghe. Concede, ma solo agli uomini; in seguito concede di partire anche alle donne e ai bambini, ma non di portare il proprio bestiame. Mosè però rifiuta ogni compromesso, perché è consapevole che il culto dovuto a Dio non è regolato dall’uomo, ma da Dio stesso. L’uomo non rende culto a Dio secondo le proprie regole e secondo le sue misure: è Dio che stabilisce come deve essere onorato. L’atto liturgico non è un atto di cui l’uomo possa disporre a piacimento.
Alla fine, sappiamo, il Faraone cede e, dopo tre mesi di peregrinazione nel deserto il popolo di Israele arriva al deserto del Sinai [Es 19,1], e Dio scende sulla vetta del monte e pronuncia le Dieci Parole [i dieci comandamenti] nel contesto della stipulazione di un patto, di un’alleanza fra Dio e il popolo, che stabilisce anche minuziose regole liturgiche.
Se riflettiamo attentamente noi vediamo in questo evento del Sinai la compresenza di tre grandezze o realtà: il culto, la regola fondamentale della vita espressa in dieci formulazioni, un ordinamento giuridico [cfr. per es. tutto il cap. 21]. Usando un vocabolario più vicino al nostro diremmo: nell’evento del Sinai sono compresenti liturgia, etica e diritto.
Questa compresenza è ricca di significato. Cerchiamo di capirla nelle sue linee essenziali.
Dio chiede di essere onorato non solo con e nell’atto liturgico, ma con e nella nostra vita. Egli pertanto proprio nel contesto liturgico istruisce l’uomo circa il modo giusto, retto di vivere una vita buona: l’uomo onora Dio con una vita santa. I profeti di Israele hanno con forza insuperabile condannato e combattuto l’idea che si possa onorare Dio coi soli sacrifici, permettendosi poi nella vita di ogni giorno di opprimere l’orfano e la vedova, di non rendere giustizia al povero. Anzi, nella coscienza di Israele, soprattutto dopo la distruzione del Tempio che aveva reso impossibile il culto, ed anche a causa del confronto che avviene soprattutto ad Alessandria, della comunità giudaica colla critica greca al culto, si fa strada la convinzione di un “culto razionale”. Esso consiste in una vita vissuta secondo ragione. Non possiamo per ora approfondire questo tema, molto suggestivo.
Dunque nello stesso atto liturgico con cui il popolo rende a Dio il culto dovuto. Questi istruisce l’uomo su come vivere perché tutta la sua vita sia un culto gradito. Le Dieci Parole sono questa istruzione.
Prima di procedere oltre, devo ora fare una riflessione. Nella prospettiva dell’Alleanza, nella prospettiva biblica l’agire moralmente retto non è pensato e vissuto come una semplice esigenza della natura umana, così come l’azione ingiusta non è pensata e vissuta semplicemente come un tradimento della propria umanità. Il male morale è fare “ciò che non piace agli occhi del Signore”; è “abbandonare la via, i comandi del Signore”. Il contesto liturgico in cui Dio dice all’uomo le Dieci Parole, significa che nelle scelte dell’uomo entra in gioco il suo rapporto con Dio. L’idea di un’etica autonoma in questo senso è del tutto sconosciuta alla tradizione ebraico-cristiana. Il che è come dire: il fondamento ultimo della distinzione fra bene e male è Dio stesso e la sua santità.
Quanto ho detto finora è espresso mirabilmente in un testo assai noto di S. Ireneo: «La gloria di Dio è l’uomo vivente, ma la vita dell’uomo è vedere Dio» [Adv Haereses IV, 20,7]. “La vita stessa dell’uomo, l’uomo che vive rettamente, è la vera adorazione di Dio, ma la vita diventa vita vera solo se riceve la sua forma dallo sguardo rivolto a Dio. Il culto serve a questo: a consentire tale sguardo e a donare così quella vita, che diventa gloria per Dio” [J. Ratzinger, Opera Omnia 11, Teologia della liturgia, LEV 2010, 31].
Se, alla fine, può non essere difficile cogliere, nel contesto dell’Alleanza, la correlazione liturgia – Dieci Parole [ethos], risulta a noi ben più difficile cogliere la ragione profonda della presenza in questo contesto anche dell’ordinamento giuridico.
Nel discorso che il Santo Padre ha tenuto il 17 settembre alla Westminster Hall, ha detto: «Se i principi morali che sostengono il processo democratico non si fondano, a loro volta, su nient’altro di più solido che sul consenso sociale, allora la fragilità del processo si mostra in tutta la sua evidenza. Qui si trova la reale sfida per la democrazia». E poco oltre: «La questione centrale in gioco, dunque, è la seguente: dove può essere trovato il fondamento etico per le scelte politiche».
In queste parole del S. Padre noi scopriamo la ragione ed il significato permanente di ciò che è accaduto al Sinai. Certamente, e la proposta cristiana ha lavorato in questo senso, l’intreccio liturgia-ethos da una parte e diritto dall’altra deve essere sciolto. E la distinzione netta fra reato e peccato è un dato definitivamente guadagnato nella coscienza occidentale. Ma le parole del S. Padre che ho sopra citato, ci invitano a riflettere che un ordinamento giuridico che si sradichi completamente dall’ordinamento etico non può non divenire mero esercizio di potere [quod principi placuit legis vigorem habet] ed offrire il fianco all’ingiustizia mascherata di legalità. Ed ugualmente, l’esclusione di ogni riferimento a Dio pone l’uomo nella condizione … di chi soffre il mal di mare anche in terra ferma. L’adorazione di Dio è il principale scudo della dignità dell’uomo; la liturgia è il luogo in cui l’uomo prende coscienza della sua dignità.
Concludo questo primo punto della mia riflessione. Che cosa, in sostanza, ho cercato di dirvi? Il dono delle Dieci Parole, fatto nel contesto liturgico della statuizione dell’Alleanza, dice che è il rapporto con Dio la chiave di volta di tutto l’arco dell’esistenza; e che quando questo rapporto viene negato o comunque ignorato, è l’intera esistenza umana a disgregarsi.

2. La fede cristiana ha portato il senso delle Dieci Parole alla sua pienezza.
Nel discorso del monte Gesù riprende tre delle Dieci Parole: la quinta «non uccidere» [Mt 5,21-26]; la sesta «non commettere adulterio» [ibid. 5,27-28]; l’ottava «non giurare il falso» [ibid, 5,31-32]. Sono cioè richiamate le Parole che difendono i beni umani fondamentali: la vita, il matrimonio, la fiducia sociale. Ovviamente questa di Gesù non era una scelta escludente ma esemplificativa.
Ma la ripresa viene fatta per semplificare una grande affermazione di Gesù: «Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli» [ibid. 20]. Gesù precedentemente aveva parlato di un “compimento” della Legge, delle Dieci Parole in primo luogo.
“Dare compimento” significa attuare le divine Parole secondo l’intenzione, la misura di Dio. È questa modalità di osservare le Dieci Parole – secondo l’intenzione e la misura divina – che costituisce quella giustizia voluta nell’uomo dal divino Legislatore. Che cosa ciò significhi, viene esemplificato dalla interpretazione che Gesù dà delle tre Parole circa l’omicidio, l’adulterio, la falsa testimonianza.
Le Dieci Parole diventano interiori all’uomo e raggiungono il suo cuore, il suo desiderio ed il movente del fondo del suo agire. Si tratta di rigorizzazione? Si tratta di alleggerimento? L’alternativa ci porta fuori strada. È “portare a termine” un “movimento di significato” già presente nella prima Alleanza del Sinai. Il nuovo ethos ci fa contemporaneamente entrare nella profondità delle Dieci Parole e scendere nell’interno, nel cuore dell’uomo chiamato alla “giustizia superiore”.
Questo si realizza storicamente nel contesto
della stipulazione della nuova ed eterna Alleanza, che accade sulla Croce, di cui l’Eucarestia è il memoriale perpetuo.
Partiamo ancora dalla prima Alleanza, quella del Sinai nel contesto della quale Dio dice al popolo le Dieci Parole. La stipulazione dell’Alleanza sinaitica non si limita al fatto che Dio parla al popolo, e questi ascolta: non è semplicemente un dialogo. Essa istituisce una misteriosa “consanguineità” fra il popolo e Dio: è questa il nucleo essenziale dell’Alleanza. È una reciproca appartenenza. La formula sintetica dell’Alleanza è: «io sono il vostro Dio – voi siete il mio popolo».
Quando Gesù istituisce l’Eucarestia parla del suo Sangue come del «Sangue dell’Alleanza nuova» [cfr. Lc 22,20]. S. Paolo riferisce le parole di Gesù [è la testimonianza più antica] nel modo seguente: «questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue» [1Cor 11,25].
È nel contesto della stipulazione della nuova Alleanza, anticipata nell’istituzione dell’Eucarestia, che Dio in Gesù dona la nuova Legge: la nuova Legge della carità.
La promulgazione della nuova Legge avviene secondo l’evangelo di Giovanni attraverso un gesto che ha dell’incredibile: Gesù lava i piedi agli apostoli [cfr. Gv 13,3-17].
I Padri della Chiesa commentando questo racconto, dicono che essa ha il carattere di un sacramento e di un esempio.
Parlando di “sacramento” non intendono ciò che noi oggi intendiamo quando diciamo “i sette sacramenti”. Con quella parola intendono denotare l’intero mistero di Cristo nel suo insieme, dall’incarnazione nel grembo di Maria alla risurrezione. La lavanda dei piedi – pensano i Padri – è una metafora sintetica e perfetta di tutto il mistero di Cristo. In che senso? Nel senso che nella sua incarnazione, morte e risurrezione la persona umana è lavata: è risanata, trasformata e santificata così che può “avere parte con Cristo” [ibid. 8].
Ma quel gesto è anche un esempio. Trasformati e santificati senza nessun nostro merito, diventiamo capaci e quindi responsabili di un nuovo modo di vivere e di agire. Quale? lo stesso che la lavanda dei piedi voleva mostrare. Al termine del racconto della lavanda dei piedi Gesù pertanto dice agli apostoli e a tutti noi: «vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così anche voi gli uni gli altri» [Gv 13,34].
La nuova Alleanza nel sangue di Cristo e la nuova Legge si muove tutta su questo «come io – così voi». Ciò che lega i due poli è l’atto redentivo di Cristo che trasforma radicalmente l’uomo mediante il dono dello Spirito. Nuova Alleanza, nuova persona umana, nuova legge. Tutto questo accade ogni volta che celebriamo l’Eucarestia.
Ritorniamo ora al discorso del monte. Nella luce della verità eucaristica ne abbiamo finalmente la vera e più profonda comprensione.
L’interpretazione che Gesù dà delle Dieci Parole non si muove secondo una dialettica di rigorizzazione. Ma indica la via della nostra piena assimilazione a Lui; ci istruisce circa il modo di vivere una vita coerente coll’Alleanza Nuova eucaristicamente partecipata.
L’apostolo Paolo esprime tutto questo in modo sintetico: «chi ama il suo simile ha adempiuto la legge … l’amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l’amore» [Rom 13,8-10]. L’apostolo usa la stessa parola, al sostantivo, che Gesù nel discorso del monte aveva usato come verbo [cfr. Mt 5,17]: pleroma, peróo. L’amore realizza la misura intera delle Dieci Parole.
Ma non si tratta della enunciazione di una verità etica astratta. Un esegeta contemporaneo scrive: «Se il Cristo è il fine della legge, l’obiettivo verso il quale puntava la storia della salvezza, allora l’amore, che lo ha mosso nella sua intera esistenza e attività salvifica (8,35), può essere definito il compimento della legge stessa. Essa diventa, in tal modo, la norma della condotta cristiana, e se praticato adeguatamente – consegue tutto ciò che la legge propugnava e perseguiva»[J. Fitzmeyer, Lettera ai Romani, Piemme 1999, 805].
Lo stesso pensiero lo ritroviamo nella lettera ai Galati: «tutta la legge … trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso» [5,14]. Siamo stati inseriti e siamo [eucaristicamente] inseriti nell’amore, nella capacità di amare di Cristo. Egli è la pienezza della Legge. Noi, in Lui, siamo capaci di realizzare pienamente le Dieci Parole perché siamo resi capaci di amare.
Concludo questo secondo punto. Attraverso la celebrazione dell’Eucarestia entriamo nella Nuova ed Eterna Alleanza stipulata nel sangue di Cristo. Dentro ad essa ci è donata la Nuova Legge: la partecipazione alla stessa carità di Cristo. Ed è in forza di questa partecipazione che realizzo in maniera compiuta le Dieci Parole.

3. Faccio due riflessioni conclusive. Il tempo ormai non mi consente di svilupparle come meriterebbero.
La prima. Al Sinai nasce un popolo: il popolo di Israele. Esso, mediante le Dieci Parole, comprende che la libertà di cui il Signore gli aveva fatto dono, doveva essere una libertà condivisa. Le Dieci Parole erano le esigenze di una libertà veramente condivisa.
Il testo paolino della lettera ai Galati sopra citato si pone nel contesto di una profonda concezione della libertà. «La libertà del cristiano … non si vede attuata là ove egli è padrone di se stesso e del suo mondo, ma, ove, dimentico di sé e abbandonando se stesso, egli è a disposizione di Dio e degli altri uomini. Sono prigioniero e schiavo se sono vincolato a me stesso» [H. Schlier, Lettera ai Galati, Paideia, Brescia 1966, 252]. Nella Nuova ed Eterna Alleanza le Dieci Parole diventano pienamente ciò che fin dal principio intendevano essere: il codice della libertà condivisa.
La seconda. La riflessione che la teologia cristiana dai Padri in poi ha compiuto sulle Dieci Parole, ha compreso sempre più profondamente che esse esprimevano una verità circa il bene della persona, che anche la ragione poteva conoscere. Esprimevano esigenze inscritte nella natura della persona umana.
Da questa comprensione, la modernità concluse alla fine che queste esigenze non avevano bisogno per giustificarsi di nessun riferimento e fondamento trascendente. Esse valgono “anche se Dio non ci fosse”.
Questa espulsione della giustificazione teologica ha avuto come oggetto una vera e propria devastazione nella comprensione etica dell’uomo. Si è spezzata la connessione fra l’originaria rivelazione che Dio fa di se stesso e l’inclinazione naturale a fare il bene ed evitare il male.
È oggi uno dei compiti essenziali della Chiesa rieducare l’uomo a scoprire Dio nella profondità della sua coscienza. È stato questo il grande carisma del b. J.H. Newman: farci riscoprire il legame originario fra l’io e la verità, passando fra la Scilli di un io senza verità [relativismo] e la Cariddi di una verità senza io [scientismo.] Ma questo tema esigerebbe una riflessione assai prolungata.

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ZENIT Staff

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