Pesaro: tra cinema popolare e autoriflessivo

Le tavole rotonde del Pesaro Film Festival continuano ad accentrare le riflessioni critiche della manifestazione

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Si sono tenute a Pesaro, nel corso della 52° Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, ulteriori due tavole rotonde dal grande spessore culturale. La prima, dal titolo Critofilm – Cinema che pensa il cinema e svoltasi il 7 luglio, ha avuto come moderatore, insieme a Bruno Torri, il curatore dell’omonima sezione Adriano Aprà, che ha dichiarato: “Consiglierei ai giovani che vogliono fare critica di abbandonare la carta stampata e di fare film, critofilm”.
Con l’espansione negli ultimi 20 anni dei mezzi di comunicazione e dei modi di fruizione il critofilm, ovvero film che riflettono sulla natura stessa del cinema e dei suoi autori, può essere considerato come vero e proprio genere.
Samuel Alarcòn, regista di La Ciudad de Los Signos, ha sottolineato come il cinema sonoro abbia cambiato le caratteristiche del cinema-saggio (altro nome con cui indicare il critofilm), affermando che “i materiali non hanno significato di per sé, ma solo in rapporto alla parola e alla colonna sonora”.
Pasquale Misuraca (Le ceneri di Pasolini) racconta invece come nel 1981, accortosi che la sua saggistica “non arrivava alle persone normali”, abbia optato per la televisione, e dunque per i critofilm, come mezzo di comunicazione: “Se il saggista riuscirà a diventare anche un artista, allora i critofilm si imporranno come un nuovo modo di comprendere e analizzare la realtà”.
A realizzare l’intervento più interessante è forse la studiosa Patrizia Pistagnesi, che ricordando i suoi anni trascorsi alla Rai, quando la critica cinematografica aveva molta più udienza rispetto a oggi, ha affermato: “Il critofilm nella sua riuscita realizza senz’altro quello che diceva Godard, ovvero che il cinema non è il riflesso della realtà, ma la realtà di quel riflesso”.
Di altra natura, ma altrettanto interessante, è stata la tavola rotonda dell’8 luglio 2016: Romanzo popolare. Incentrata sull’omonima sezione del Festival e sul volume Romanzo popolare. Narrazione, pubblico e storie del cinema italiano negli anni Duemila, nato da questa iniziativa, ha avuto come protagonisti i concetti di storytelling, serialità e popolare. Pedro Armocida, Direttore Artistico del Festival, ha aperto il dibattito sottolineando come il volume e la sezione intendano approfondire il cambiamento dello storytelling nel cinema italiano, a cui è legato anche il cambiamento della fruizione e della scrittura.
“Ritengo che oggi sia più opportuno parlare del rapporto tra cinema e racconto, piuttosto che di quello tra cinema e letteratura”, ha affermato Laura Buffoni, curatrice assieme ad Armocida della sezione e del volume, chiedendo agli ospiti di esprimersi circa il cinema di genere.
“Credo che non abbia più senso affrontare questo discorso, essendo ormai già vecchio. Siamo nell’epoca dei formati, ed è su questo piano che si devono concentrare le nostre attenzioni. Nessuno oggi può affermare che il Cinema si fa in un certo modo, perché in realtà si fa in tutti i modi possibili ed immaginabili”, le ha ribattuto il regista Daniele Vicari.
Antonietta De Lillo concorda con il collega, evidenziando come la vera rivoluzione sia la possibilità per una storia di essere declinata su piattaforme diverse e con esiti diversi. Sollecitato a descrivere la differenza tra la scrittura seriale e quella cinematografica, Nicola Lusuardi ha rilevato come il discorso sul seriale abbia generato una retorica che rischia di mutare in ideologia.
Francesco Di Pace ha fatto notare come la tv generalista stia scontando un forte ritardo, soprattutto per motivi politici, rispetto alla pay tv, mentre Giona A. Nazzaro ha riflettuto sulle diverse modalità con cui oggi si possono fruire i contenuti televisivi. “Io preferisco un bel film tradizionale che un brutto film innovativo o sperimentale”, ha dichiarato provocatoriamente Federico Pedroni, affermando come la sua personale scommessa sia quella di arrivare ad un forma di ibridazione tra popolare e autoriale. La conclusione è affidata a Boris Sollazzo, che in una dichiarazione tra il poetico e rivelatoria ha affermato: “I momenti di maggiore rivoluzione cinematografica sono avvenuti proprio quando il cinema viveva crisi di sistema. Questo è stato possibile perché in questi momenti gli addetti ai lavori sono posti una semplice domanda empirica: Stiamo morendo?”.

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Gianluca Badii

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