Perché e quali penitenze nella confessione?

La penitenza segno di conversione

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di padre Edward McNamara

ROMA, venerdì, 28 settembre 2012 (ZENIT.org).- Un sacerdote statunitense ha inviato la seguente domanda a padre Edward McNamara:

Potrebbe commentare quali potrebbero essere le penitenze appropriate e/o adeguate nel sacramento della riconciliazione. Io tendo a mantenermi sui tradizionali “Padre Nostro” e “Ave Maria”, ma sento che a volte sono inadeguati. Un mio collega dà penitenze molto più “difficili” come la via crucis, la recitazione di due o tre rosari, la lettura di certi salmi o altri testi della scrittura. Molti dei suoi penitenti ritornano in genere senza essere riusciti a completare la loro penitenza e rimangono turbati. Da giovane prete mi era stato consigliato di dare penitenze che le persone potessero completare prima di uscire dalla chiesa. — H.J., Peabody, Massachusetts

Padre McNamara ha risposto:

Innanzi tutto bisogna sottolineare che qualunque penitenza è intrinsecamente inadeguata, per espiare completamente i nostri peccati. La gravità che porta in sè ogni peccato è di gran lunga superiore alla nostra possibilità di riparare la mancanza di amore verso di Dio. La cosa meravigliosa della confessione è la generosità di Dio nell’offrirci la riconciliazione e nel ristabilire con noi un’amicizia.

La Chiesa si limita ad istruire i preti a proporre penitenze adeguate, che corrispondano alla natura di ciascun caso. L’abitudine di imporre la preghiera come segno di penitenza non è una semplice formula; piuttosto, proprio per il fatto che si tratta di preghiera, è un segno del rinnovamento della grazia in quelle anime che rendono la preghiera autentica possibile e meritevole.

Nell’imporre una penitenza adeguata ci sono vari fattori da prendere in considerazione.

Prima di tutto bisogna considerare la natura del peccato, dato che le penitenze vogliono essere dei tentativi per rimediare. I peccati più gravi necessitano quindi di penitenze più severe, in modo da risvegliare la coscienza e sensibilizzarla rispetto alla loro gravità, sopratutto quando questi vengono ripetuti più volte. Peccati di ingiustizia come il furto o la calunnia devono anche essere riparati mediante una qualche forma di restituzione di beni o del buon nome della persona.

È importante considerare anche la natura del penitente dato che non esiste una “tariffa automatica” corrispondente a certi peccati.

Fin quanto possibile, un prete deve giudicare lo spessore spirituale della persona che si confessa da lui prima di assegnare la penitenza appropriata. In genere si palesa attraverso il modo in cui avviene la confessione stessa. Una persona che ha una grossa risonanza spirituale e che proviene da una formazione cristiana solida, trarrà con più facilità giovamento da penitenze come leggere la scrittura, recitare i salmi o il compiere atti di devozione.

Quando una persona invece ha una conoscenza meno approfondita della fede, e non è abituata a certe pratiche come il rosario, la Via Crucis o il digiuno, probabilmente sarà meglio non imporre tali penitenze, perché potrebbero generare solo frustrazioni.

La regola secondo cui la penitenza bisognerebbe riuscire a finirla prima dell’uscita di chiesa, si applica in particolare a questa classe di penitenti. Se il prete pensa che i soliti “Ave Maria” e “Padre Nostro” sono inadeguati in certi casi particolari, allora potrebbe imporre una penitenza fattibile ma meno formale. Per esempio potrebbe dire al penitente di visitare il santissimo sacramento o un altare dedicato alla Vergine Maria per un certo periodo di tempo, e in questo clima di intimità, ringraziare per il perdono ottenuto e chiedere aiuto nel superare una particolare colpa.

Questa ultima forma di penitenza è particolarmente utile a quelle anime che magari sono state lontane dalla confessione a lungo e che sono state mosse da una grazia particolare a ricercare nuovamente il sacramento.

A volte la penitenza può essere in sè una forma di conversione. C’è un aneddoto che racconta di un prete che ascoltò un gruppo di giovani spensierati mentre facevano una scommessa in cui il perdente doveva confessarsi. Sapendo questo, quando venne uno dei giovani a confessarsi, il prete si sedette al suo posto nel confessionale, e gli impose come penitenza di andare davanti al grande crocifisso della Chiesa e ripetere 20 volte: “tu hai fatto questo per me, e a me non me ne importa niente”. All’inizio il giovane ripetè questa frase in maniera disinvolta, poi cominciò a ripeterla più lentamente, e finalmente fini in lacrime. Per questo giovane ragazzo la confessione fu l’inizio di un cammino di conversione che lo portò a diventare l’arcivesovo di Parigi.

[Traduzione dall’inglese svolta da Pietro Gennarini]

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ZENIT Staff

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