Per una pastorale della Chiesa più biblica non solo a parole

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di Ernesto Borghi*

LUGANO, domenica, 26 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Il sinodo dei Vescovi cattolici si è concluso e giustamente si tentano dei bilanci complessivi, quantunque occorra attendere che cosa il Papa recepirà delle indicazioni e delle suggestioni provenienti dai padri sinodali, quando egli redigerà e farà pubblicare l’esortazione post-sinodale relativa a quest’assemblea dell’ottobre 2008.

L’impressione globale che “a caldo” si può esprimere è quella di un esercizio teologico, antropologico e culturale di rilievo notevole, frutto di sensibilità molto diverse e di evidenti scarti di livello, anche a partire dai gradi di preparazione biblica in senso tecnico effettivamente diseguali anzitutto tra i padri sinodali. Se soltanto si considera, per esempio, la rappresentanza inviata dalla Conferenza Episcopale Italiana, il solo vescovo di Brescia ha le competenze scientifico-culturali acclarate per affrontare la totalità dei temi che sono stati dibattuti in queste intense settimane.

D’altronde se l’età media di molti membri dell’episcopato cattolico è molto più vicina ai settanta che ai cinquant’anni, la formazione che gran parte di essi ha avuto nei seminari e nelle Facoltà non era certamente centrata sulla Bibbia – posto che oggi la situazione sia molto migliorata in tal senso – né li può aver dotati di motivazioni e criteri di discernimento tali da orientarli facilmente a rendere biblica tutta la loro azione pastorale.

Comunque non pochi interventi dei padri sinodali hanno auspicato, sia pure con accenti molto eterogenei, la necessità di rendere proprio biblica l’azione della Chiesa dentro i propri ambiti e verso le società contemporanee nel loro complesso. Ma come è possibile perseguire tale obiettivo con realistica efficacia? Occorre, in primo luogo, potenziare largamente, in termini qualitativi e quantitativi, le occasioni di formazione ricorrente e/o permanente in campo biblico per tutte le componenti ecclesiali, religiose e laicali che siano.

Nessuna istituzione accademica in campo teologico deve vedere, per esempio, discipline come il diritto canonico o la teologia dogmatica accrescere il loro spazio a detrimento delle discipline bibliche, magari a partire dalla convinzione che le prime rafforzano l’obbedienza all’autorità ecclesiastica e dunque sono tranquillizzanti per gli equilibri gerarchici della Chiesa, mentre le seconde possono conferire “eccessi di libertà” a chi le approfondisca effettivamente. Nessun presbitero deve pensare che la propria preparazione biblica non debba costantemente crescere. E nessun altro, nella Chiesa, deve ritenere che sviluppare le conoscenze bibliche, nozionistiche ed esistenziali, sia questione per “addetti ai lavori” o per “super-credenti”.

La razionalizzazione e l’irrobustimento delle istituzioni accademiche dedite alla formazione teologica e, in particolare, biblica dei non-presbiteri può andare nella direzione giusta (si sta già facendo qualcosa d’importante, come anche Mons. Bruguès ricordava – cfr. ZENIT, 21 ottobre 2008 ). Dipende quasi tutto dalla creatività organizzativa delle istituzioni curiali e dei preti che in larghissima misura le dirigono, e dalla consapevolezza cultural-religiosa di tante donne e di tanti uomini a cui, nel mondo contemporaneo, così ricco di stimoli multiformi, non può né deve più bastare quanto, magari, ascoltano la domenica in chiesa.

Per mettere in atto queste scelte è indispensabile dare modo alle bibliste e ai biblisti motivati e preparati oggi presenti nelle varie realtà territoriali, al di là della componente presbiterale – e non sono pochi, anzitutto nell’Europa occidentale – di collaborare stabilmente all’ideazione, conduzione e attuazione di piste e itinerari formativi adatti alle necessità e possibilità di tante persone che, dall’interno all’esterno degli ambienti ecclesiali, vi partecipano, se tali opportunità sono culturalmente serie.

Se i vescovi non sono ammalati di “presbiterocentrismo” e di “laicofobia”, se i biblisti preti non nutrono immotivate e arroganti persuasioni preconcette sulla loro superiorità scientifica, se bibliste e biblisti non presbiteri non vogliono essere annoverati anzitutto tra le “torri d’avorio”, allora sarà possibile realizzare dei progetti atti ad elevare il livello di conoscenza biblica diffusa. A quale scopo “nuovo”? Quello di favorire sempre più un’osmosi effettiva tra le scienze bibliche e le istanze della vita individuale e collettiva della stragrande maggioranza della popolazione, la quale – ricordiamocelo sempre – è fatta di laiche e laici.

A questo scopo non è più possibile trascurare o marginalizzare nei fatti il robusto apporto di teologhe e teologi, bibliste e biblisti, che conoscono la vita familiare e le esigenze relative non soltanto come figlio o come congiunto o come educatore “esterno”, ma come coniuge e genitore.

Se la formazione biblica sarà affidata seriamente anche a laiche e laici, allora avverrà sempre meno quello che, per esempio, succede in Italia ancora oggi. Mi riferisco a bibliste e biblisti che devono sfiancarsi in un lavoro estremamente frammentato, nei luoghi più diversi, ricevendo spesso compensi da fame oppure devono lasciare i loro incarichi di insegnamento per ragioni indipendenti dalla loro competenza scientifica e didattica. Tra esse hanno un ruolo decisivo la pochezza scandalosa delle retribuzioni e l’eccessiva lontananza da casa (avevano accettato questi incarichi anche perché nelle loro diocesi, dotate di istituti di scienze religiose o di altre istituzioni analoghe, l’unica attività offerta loro, licenziati o dottori in Sacra Scrittura, era quella di insegnanti di religione alle elementari o alle medie…).

Ad alcuni accade anche di essere esclusi dall’attribuzione di incarichi d’insegnamento, ancorché dotati di titoli accademici congrui, di serie di autorevoli pubblicazioni scientifiche e di conclamata sapienza didattica, magari perché il gruppo dirigente di talune istituzioni universitarie ecclesiastiche riteneva indispensabile mantenere l’autoreferenzialità delle istituzioni stesse e/o valorizzare anzitutto i presbiteri di turno… Tutto ciò non può continuare per ragioni formative specifiche ed umane generali. Ne va dell’effettiva evangelicità della Chiesa.

Essa, sia a livello universale che a quello delle singole diocesi, deve mettere a disposizione risorse finanziarie molto più consistenti di quanto avvenga oggi per retribuire seriamente il lavoro di chi è impegnato nella formazione biblica e, più in generale, teologica, dalle curie e dalle istituzioni accademiche al territorio.

Se in varie diocesi del Terzo Mondo si afferma che non vi sono in loco possibilità finanziarie a tale scopo, ciò è piuttosto credibile, ma se tali asserzioni vengono dal Nord del mondo, è legittimo non credervi e pensare che vi siano altre priorità nel cuore e nella mente di chi coordina l’attività pastorale in esse.

Per ristrutturazioni “faraoniche” di edifici e strutture, spesso, destinate a rimanere tristemente vuote e inutilizzate, o per operazioni culturali di scarsissimo impatto formativo i fondi ci sono spessissimo, anzi quasi sempre, mentre per assumere, in un quadro economico e normativo degno, donne e uomini scientificamente, didatticamente e umanamente rilevanti, il denaro manca quasi sempre… E proprio in ambienti dove si pontifica ad ogni pie’ sospinto sulla difesa e la promozione della famiglia, si lasciano poi la famiglie di biblisti e, in genere, teologi in costante incertezza circa il loro futuro professionale, dunque materiale e morale.

D’altra parte è assurdo, ma spesso vero che in molti palazzi vescovili lavorano regolarmente parecchi laici nei comparti amministrativi e pochi o nessuno in quelli in cui si decide della pastorale formativa ed educativa verso tutti, anzi
tutto in campo biblico e, in genere, religioso. E il mio discorso potrebbe continuare…

I prossimi mesi e i prossimi anni diranno se il sinodo conclusosi oggi avrà come esito effettivo una pastorale ordinaria della Chiesa cattolica sempre più biblica e se le tante parole si tradurranno in progetti e attenzioni capaci di incidere, in libertà e responsabilità, nella quotidianità di tutti.

Non credo ci sia alcun bisogno di nuovi documenti pontifici che stabiliscano come si devono leggere i testi biblici, quasi che si volesse tornare ad un’univocità esegetico-ermeneutica e ad una pratica del magistero auspicabilmente confinate in un passato senza ritorno. La costituzione conciliare “Dei Verbum” e i documenti “L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa” e “Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana” paiono più che sufficienti ed illuminanti anche a questo proposito.

Occorre – come dice il Paolo di Atti 20,32 – affidarsi alla Parola divina e liberarsi da ogni paura rispetto al fatto che tale Parola di vita e di verità non dia opportunità di bontà e di bellezza all’esistenza delle donne e degli uomini che ne sono intercettati.

Il sinodo avrà avuto senso, anzitutto se ne scaturirà una collaborazione fiduciosa e credibile, secondo pari dignità e responsabilità, tra tutte le componenti ecclesiali proprio nello studiare, annunciare e presentare, con incisività e libertà, le Scritture ebraiche e cristiane in un mondo che è in costante e tumultuoso cambiamento.

La Chiesa e la società non verrebbero certamente umanizzate da proposte formative precarie, abborracciate e generiche, organizzate in modo monocorde e condotte con intenti apologetici, affidate in termini di assoluta provvisorietà a persone di cui si vuole comunque limitare la libertà d’azione, magari anche strumentalizzando testi e valori per fini estrinseci all’ascolto esistenziale della Parola che salva.

Chi se ne fa interprete per altri – in particolare se non è prete, ma anche se lo è – deve essere in condizione di muoversi in serenità rispetto al proprio avvenire materiale, alla possibilità di dispiegare le proprie competenze con tutta la sapienza di cui è capace e alle relazioni con le autorità ecclesiastiche. «Così risplenda la vostra luce davanti agli esseri umani, perché vedano le vostre opere belle e buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli» (Mt 5,16). Realizzare opere belle e buone che facciano guardare credenti e non credenti con gioia e riconoscenza al Padre di tutti: mi permetto di sperare che i vescovi nel mondo e, in particolare, il Papa siano sempre più consapevoli, senza paura, di quest’esigenza del tutto prioritaria per la fedeltà reale, ossia intelligente ed appassionata al Vangelo di Gesù.

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* Il prof. Ernesto Borghi è docente di esegesi biblica al Corso Superiore di Scienze Religiose di Trento e all’Istituto di Scienze Religiose a Bolzano, nonché presidente dell’Associazione Biblica della Svizzera Italiana e coordinatore della formazione biblica nella Diocesi di Lugano. Di recente ha curato insieme a Renzo Petraglio il volume “La scrittura che libera. Introduzione alla lettura dell’Antico Testamento” (Borla Edizioni, Roma 2008, 512 pagine, 38 Euro) ed ha pubblicato “Il Tesoro della Parola. Cenni storici e metodologici per leggere la Bibbia nella cultura di tutti” (Borla Edizioni, Roma 2008, 144 pagine, 16 Euro).

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ZENIT Staff

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