Per ricordare fratel Ettore, “gigante della carità”

Una singolare iniziativa teatrale a Milano

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di Renzo Allegri

ROMA, venerdì, 26 novembre 2010 (ZENIT.org).- Domenica 28 novembre, alle 20.30, nel teatro di Casa Betania, in Corso Isonzo, a Seveso, comune alla periferia di Milano, gli attori Glauco Mauri e Roberto Sturno leggeranno “Le Parabole dei Vangeli”. La “lettura” sarà preceduta da una video-introduzione dell’arcivescovo Bruno Forte e sarà accompagnata da commenti dal vivo di don Tommaso Castiglioni.

Gli intrattenimenti della domenica sera nella metropoli lombarda sono innumerevoli. E i più vari che si possano immaginare. Questo è certamente particolare e insolito. Non solo perché vede uno dei più grandi attori di prosa degli ultimi cinquant’anni impegnato nell’interpretazione di un testo speciale, la lettura di brani evangelici, ma soprattutto perché l’intrattenimento si tiene in un luogo, Casa Betania, che ricorda un personaggio, anche lui molto speciale: fratel Ettore, il religioso camilliano, scomparso nel 2004, che ha dedicato la sua vita agli emarginati di ogni genere, senzatetto, tossicodipendenti, alcolizzati, disperati, vagabondi, malati terminali senza nessuno al mondo. Il cardinale Martini lo aveva definito “un gigante della carità”; Giovanni Paolo II gli voleva bene; madre Teresa di Calcutta fece un viaggio a Milano per poterlo conoscere, e il cardinale Dionigi Tettamanzi volle celebrare i suoi funerali.

L’iniziativa della lettura della parabole evangeliche da parte dei due celebri attori è stata voluta dall’attuale direttrice dell’opera di Fratel Ettore, suor Teresa Martino, ex attrice, che per dieci anni fu stretta collaboratrice del religioso. In una civiltà come la nostra, dominata dalla vanità, dal culto dell’apparenza, si tende a mitizzare il nulla e a dimenticare i veri grandi eroi. Per questo, la serata che Glauco Mauri e Roberto Sturno dedicano a fratel Ettore ha un grande valore umano, sociale e religioso.

Nato a Roverbella, in provincia di Mantova il 25 marzo 1928, fratel Ettore apparteneva a una famiglia di contadini. Fino all’età di ventiquattro anni aveva lavorato in famiglia dedicandosi ai campi e alla stalla, poi entrò nell’ordine di San Camillo, come “fratello laico”, cioè non sacerdote. La sua prima attività la svolse alla Casa Camilliana degli Alberoni al Lido di Venezia, assistendo i bambini con handicap. Nel 1970 fu trasferito a Milano, alla clinica “Pio X”, dove prese il diploma di infermiere e cominciò la sua missione tra gli emarginati più poveri, quelli che a Milano venivano chiamati “barboni” e che egli invece chiamava “i figli più amati da Dio”. In poco tempo la sua attività crebbe, aiutata dalla generosità dei milanesi, e fratel Ettore divenne il simbolo della carità della città lombarda. Nacquero le sue opere: rifugi, dormitori, mense, ricoveri.

Fratel Ettore viveva nella povertà più assoluta, come i suoi protetti. Ma tutti a Milano gli volevano bene e gli davano una mano. Alla sua morte, la città gli rese grande omaggio. Ai funerali, celebrati nella chiesa di Sant’Ambrogio, c’era una folla immensa, costituita prevalentemente dai suoi amici poveri, ma anche dai suoi innumerevoli ammiratori e tra essi le più alte autorità civili e religiose. “Attualmente le nostre case sono sette più una grande in Colombia”, dice suor Teresa Martino. “La sede principale è qui, nella ‘Casa Betania’ di Seveso, dove lui è sepolto. Gli ospiti sono una cinquantina, ma il numero varia continuamente. Sono persone che altrimenti non avrebbero un posto dove andare. Hanno handicap mentali o fisici più o meno grandi ma qui sono a casa loro. Sono inseriti in un ritmo quotidiano fatto di orari, occupazione e anche di preghiera. Quattro volte al giorno ci troviamo in chiesa a pregare insieme. Come i monaci. Siamo un ‘monastero di poveri’ ma non obblighiamo nessuno a partecipare alle funzioni religiose. Lasciamo che venga alla luce, dentro di loro, il bisogno insito nell’animo umano di parlare con Dio”.

Nata in una famiglia della ricca borghesia, suor Teresa è cresciuta senza alcuna educazione religiosa, ma con una grande passione per il teatro. Dopo essersi diplomata all’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico” di Roma debuttò nella compagnia di Paolo Stoppa e Rina Morelli, cominciando una splendida carriera teatrale e recitando con i migliori attori e lavorando anche in televisione.

“Ad un certo punto, però, ho sentito un grande vuoto dentro di me”, confida. “Essere attrice non colmava più il mio cuore. Entrai in una sorta di crisi e cominciai ad essere affascinata dalla figura di Gesù. Lasciai il teatro per seguire le nuove aspirazioni. Nel 1994 incontrai fratel Ettore e mi accorsi che il servizio totale ai più poveri tra i poveri era la strada che Dio mi stava indicando”.

Come avvenne quell’incontro?

Suor Teresa: Una sera, fratel Ettore arrivò nella parrocchia del mio paese, in Abruzzo. Viaggiava su una vecchia auto con una grande statua della Madonna di Fatima sul tetto. Sembrava un muratore appena uscito dal cantiere. Sporco di calcina e fuliggine, coi capelli grigi arruffati. Con lui c’era un gruppo di persone dall’aspetto strano, chi con i calzoni troppo corti e chi con la giacca di tre misure più grande. Non sapevo chi fossero e pensavo si trattasse di una compagnia teatrale di guitti. “Chi è quell’uomo?” chiesi. “E’ fratel Ettore, quello dei poveri di Milano”, mi risposero. Poi si mise a parlare e io andai in crisi. Le sue parole erano semplici, elementari ma avevano la forza del fuoco. Indicando i suoi amici disse “Questi sono i poveri!”. Io rimasi di sasso. Mi accorsi di non conoscere veramente i poveri, di non averli mai visti. Li guardai attentamente. Quella era gente che aveva bisogno sul serio, quelli che non possedevano nulla. Averli di fronte, a me che mi crogiolavo in una fede borghese e rassicurante, fu un colpo. Decisi di andare a trovare fratel Ettore a Milano. E là, la sua missione conquistò il mio cuore.

Cosa vide a Milano?

Suor Teresa: Fratel Ettore mi portò con lui in giro per la città. Faceva freddo, io avevo sciarpa, cappello e guanti ma lui mi fece regalare tutto a chi non aveva niente. “Cosa ne fai di quella sciarpa? Dalla a lui che, come vedi, ne ha tanto bisogno, sta morendo di freddo!”, mi diceva. Ed era vero! Impossibile resistere. Arrivammo al Rifugio dove fratel Ettore accoglieva i senza dimora. Entrare là, fu come attraversare un muro. Gente dal volto cupo, incattivita dalle privazioni, scolpita dalla sofferenza e dal bere. Ebbi paura. Il giorno dopo, scappai a casa. Ma un seme era stato posto nel mio cuore. Non facevo che pensare ai poveri di fratel Ettore. Tra quella gente disperata e bisognosa avevo visto il sorriso di Dio. Tornai a Milano e sono ancora qui.

Da sei anni, cioè dalla scomparsa di fratel Ettore, lei dirige l’opera che lui ha fondato. In che cosa consiste quest’opera?

Suor Teresa: Fratel Ettore raccoglieva dalla strada chi non aveva più speranza, e donava dignità dando loro un luogo dove sentirsi ancora persone. Li accoglieva nella sua “famiglia”. Noi continuiamo a fare questo.

Qual è, secondo lei, la caratteristica principale della spiritualità di fratel Ettore?

Suor Teresa: E’ stato un santo che viveva in epoche diverse contemporaneamente. Era un guerriero disarmato come i santi del passato che si faceva strada tra i disperati, anche i più pericolosi, col sorriso e la forza della fede. Ma era anche un uomo tecnologico che usava il computer e il cellulare. E’ stato uno dei primi ad usare quegli enormi telefoni satellitari da campo. Se lo portava in giro a tracolla per poter comunicare ad ogni istante con i suoi aiutanti e garantire aiuto immediato a chi ne aveva bisogno. Gli ultimi della società erano sempre il suo pensiero principale.

Lei è stata un’attrice e non ha dimenticato la sua professione. So che ha voluto introdurre nell’opera di fratel Ettore, anche il te
atro: perché?

Suor Teresa: Una volta dissi a fratel Ettore che mi sarebbe piaciuto realizzare un teatro con i suoi poveri. Mi rispose: “Tanto, qui è già tutto una commedia”. Ma l’idea gli piacque. Il teatro è, secondo me, un posto dove le persone sul tipo di quelle che vivono qui, possono sperimentarsi, imparare, magari avere soddisfazioni. Fratel Ettore diceva che tra i poveri si trovano tutti i generi teatrali: dal grottesco al tragico, dalla commedia al dramma.

L’idea iniziale, a poco a poco ha trovato una concretizzazione. Nei sotterranei della nostra sede vi è un salone grandissimo, e lo abbiamo fatto diventare un teatro e lo abbiamo chiamato “Teatro della Misericordia”. La compagnia di Gluaco Mauri e Roberto Sturno ci ha donato gran parte del materiale tecnico di cui avevamo bisogno. Cerchiamo di coinvolgere attori professionisti che ci sono vicini e fanno volontariato con i poveri. E i nostri assistiti, cioè i più poveri dei poveri, si impegnano ad esprimere il loro talento comunicativo e in questo modo, possono sentirsi anche loro importanti.

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ZENIT Staff

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