Per quelli che il Creatore non esiste (Ottava parte)

Heidegger, il padre del relativismo odierno

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Gadamer, come è stato detto prima[1], condivide pienamente l’antropologia filosofica heideggeriana e i suoi concetti di Verstehen (comprensione) e quello conseguente di Auslegung (interpretazione) hanno lo stesso significato che ha loro attribuito il suo maestro.

Gadamer, in continuità con Heidegger, considera il Verstehen-Auslegung (comprensione-interpretazione) come un “esistenziale” e, conseguentemente, afferma l’essenziale ermeneuticità dell’essere umano.

Heidegger, tramite la sua indagine fenomenologica condotta in Essere e tempo, ha sostenuto, come è stato evidenziato prima[2], che l’essere umano è essenzialmente ermeneutico e ha quindi  affermato implicitamente l’essenziale storicità e relatività della conoscenza umana.

Il Verstehen (comprensione), come abbiamo visto[3], è caratterizzato dalla storicità e dai linguaggi veicolati dai diversi contesti storici; conseguentemente ogni interpretazione è determinata dal particolare vissuto socio-culturale di colui che interpreta la realtà. Il processo interpretativo-conoscitivo è quindi relativo ai singoli soggetti-interpreti e si svolge all’infinito, non esistendo un criterio oggettivo per stabilire se un’interpretazione è vera o falsa[4].

Heidegger nega il concetto di verità presente nella metafisica e nel senso comune. Infatti, secondo il filosofo, la “verità non è assolutamente la caratteristica della proposizione conforme enunciata da un ‘soggetto’ umano a proposito di un ‘oggetto’ e che ‘vale’ non si sa a quale proposito o in quale ambito, ma è lo svelamento dell’ente […]”[5].

Secondo la metafisica la verità (logica) consiste nella conformità del pensiero alla cosa: adaequatio intellectus ad rem.

Questo modo di intendere la verità è proprio anche del senso comune: anche l’uomo della strada quando formula il giudizio “oggi piove” sa, con assoluta certezza, che quel giudizio è vero solo se corrisponde all’oggetto a cui si riferisce, cioè alla pioggia, e sa anche che esso sarebbe falso se non ci fosse tale corrispondenza.

Secondo Heidegger “la verità del giudizio ha le sue radici in una verità più originaria (non-esser-nascosto)”[6]. Infatti, secondo il filosofo, la verità è da intendersi secondo l’etimologia greca del termine come a-letheia, cioè non-nascondimento, quindi come svelatezza o ri-velazione, nel senso di toglimento di un velo che la tiene nascosta.

La verità come svelatezza o ri-velazione presuppone quindi un nascondimento originario da cui essa proviene, la verità è quindi connessa essenzialmente alla non-verità.

Il filosofo sostiene che “la rivelazione dell’ente a cui diamo il nome di verità ontica”[7] è l’esperienza che abbiamo delle cose e quindi la loro comprensione esistenziale, la quale è sempre relativa al soggetto che comprende e interpreta e al contesto storico-culturale di appartenenza.

La verità è relativa al soggetto che la interpreta, per cui esistono molteplici interpretazioni della realtà,  nessuna delle quali può dire di essere conforme al reale perché viene negato il carattere assertorio del linguaggio; carattere che è conseguente all’attività del giudizio, che è il “luogo” nel quale si determina ciò che è vero e ciò che è falso[8].

Il linguaggio e il pensiero giudicativo (apofantico) è fondamentalmente assente nella filosofia di Heidegger e dei suoi discepoli. Conseguentemente l’ermeneutica di Heidegger, così come quella di Gadamer, non può stabilire se un’interpretazione è vera o è falsa.

Vattimo e Rorty rappresentanti dell’ermeneutica odierna, di cui abbiamo parlato precedentemente[9], traggono le estreme conseguenze dai presupposti impliciti nell’ermeneutica di Heidegger e di Gadamer.

Vattimo e Rorty, come scrive Grondin, “si appoggiano sulla celebre formula di Gadamer: ‘L’essere che può essere compreso è linguaggio’, ma per trarne la conclusione che è illusorio pretendere che la nostra comprensione si riferisca a una realtà oggettiva che potrebbe essere raggiunta dal nostro linguaggio”[10].  Secondo questi filosofi “il linguaggio dovrebbe rinunciare all’idea di un’adeguazione del pensiero al reale”[11].

Dal linguaggio non si esce: esso non detiene una referenza a una dimensione extra-linguistica. Il linguaggio è intrascendibile, quindi è inconoscibile la realtà extra-linguistica.

A queste conclusioni è pervenuto Derrida  (di cui parleremo nel prossimo articolo), il quale “era partito dal programma ‘ermeneutico’ di Heidegger in Essere e Tempo[12].

La settima puntata è stata pubblicata sabato 21 febbraio

*

NOTE

[1] Vedi articolo: Per quelli che il Creatore non esiste. Gadamer, il padre dell’ermeneutica contemporanea.

[2] Ibidem.

[3] Ibidem.

[4] Vedi articolo: Per quelli che il Creatore non esiste. Nell’ermeneutica è assente un criterio di verità.

[5] M. Heidegger, Sull’essenza della verità, a cura di U. Galimberti, La Scuola, Brescia 1973, pp. 27-28. Il corsivo è mio.

[6] Idem, L’essenza del fondamento, a cura di P. Chiodi, Unione Tipografica – Editrice Torinese, Torino 1969, pp. 632-633.

[7] Ibidem.

[8] Aristotele distingue i discorsi di carattere giudicativo-apofantico che esprimono proposizioni che sono necessariamente vere o false e i discorsi di carattere semantico che di per sé non sono né veri né falsi, come la preghiera, la domanda, il comando, i quali fanno parte della Retorica e della Poetica (cfr. Aristotele, De interpretatione, IV, 17a).

[9] Vedi articolo: Per quelli che il Creatore non esiste. L’ermeneutica odierna: la realtà non esiste.

[10] J. Grondin, L’herméneutique, cit., p. 109.

[11] Ibidem.

[12] Ibidem, p. 93.

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Maurizio Moscone

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