Pedagogia dell'umiltà

Lectio Divina di monsignor Francesco Follo per la XXII domenica del Tempo Ordinario

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Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi, offre oggi la seguente riflessione sulle letture liturgiche per la XXII.ma domenica del Tempo Ordinario – Anno C.

Il presule propone anche una lettura spirituale.

***

LECTIO DIVINA

Pedagogia dell’umiltà

Rito romano

XXII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 1° settembre 2013.

Sir 3, 19-21.30-31; Sal 67; Eb 12, 18-19.22-24; Lc 14, 1. 7-14

Rito ambrosiano

I Domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore

Is 30,8-15b; Sal 50; Rm 5,1-11; Mt 4,12-17

1) Norma religiosa e non di galateo.

La liturgia del rito romano ci propone nella prima lettura presa dal libro del Siracide una raccomandazione paterna: assumere un atteggiamento di attenzione e di docilità, un atteggiamento da discepoli, di fronte a colui che ci parla come un padre. Non solo riconoscerà in lui l’uomo ricco di esperienza, ma avrà fiducia nei suoi consigli dettati da paterna sollecitudine. La mitezza porta all’essere amato (v. 17), l’umiltà apre l’uomo ai doni di Dio (v. 18), lo colloca di fronte a Dio, di fronte alla grandezza della Sua potenza (v. 20) perché lo destina al posto che gli compete e ne fa un testimone di Dio e della Sua grazia.

Passando al Vangelo di Luca, osserviamo innanzitutto che è un fatto capitato a Gesù. Arrivato a casa di un capo dei farisei che l’aveva invitato, il Messia osserva che gli ospiti fanno ressa per assicurarsi i primi posti. Sono persone convinte di avere diritto al posto d’onore. Allora il Redentore racconta una parabola, con la quale non intende ricordare una semplice regola di galateo, ma vuole offrire una regola religiosa sul come comportarsi con Dio e, di conseguenza, con gli uomini.

Per dare questo suo insegnamento religioso, il Redentore afferma: “Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: ‘Cedigli il posto!’. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: ‘Amico, vieni più avanti!’. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 14,7-14).

Ci sono due brani nel Nuovo Testamento che possono illuminare questa parabola:

Il primo è la lettera di San Paolo ai Filippesi 2,3-11 in cui la frase centrale è l’invito ad “avere gli stessi sentimenti di Cristo Gesù… il quale… umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce… Per questo Dio lo esaltò…”. La verità della parola di Gesù sull’umiltà appare nel fatto che egli stesso ha vissuto questa parola nella sua stessa persona a convalida della sua missione e della sua predicazione: abbandonare il primo posto per prendere l’ultimo è appunto il senso della sua incarnazione.

Il secondo brano è il Magnificat (Lc. 1,46-55 ): “Dio ha guardato1 l’umiltà della sua serva…”; questi ultimi due termini (umiltà e serva) indicano chiaramente che la straordinaria e unica missione affidata da Dio a Maria ha avuto l’origine nella sua stessa umiltà vissuta con semplicità e gioia, aperta e disponibile alla volontà di Dio.

2) A scuola dell’umiltà.

Andiamo a scuola da Maria, per imparare da questa Madre umile a seguire suo Figlio, peridentificarcicon lo stesso Signore Gesù (che, dalla sua condizione di Figlio di Dio, si è abbassato e umiliato fino ad assumere la nostra condizione umana), per potere con Lui e in Lui giungere alla gloria dellaresurrezione.

Nella Madonna, ma ciò va detto di ogni cristiano, l’umiltà non riguarda la stima di se stessi, ma il rapporto con Dio, che guarda in giù. Verso la serva prediletta, il cui amore è umile perché si mette a servizio dell’Amore e accetta di appartenere all’amore, dandoGli carne.

Dunque l’umiltàinsegnata e pratica dalla Madre Dio è il punto focale dove Dio fissa il Suo sguardo, dove Egli può stabilire un rapporto profondo e chiamare l’umile2 con il nome di “amico”. E l’amico non è il conoscente, il complice, è l’umile fedele alla Parola del Padre. Dunque, seguiamo Maria, per identificarci in lei che, come umile serva, ha accettato di diventare dimora della Sua Parola, di custodirla nel suo cuore e nel suo corpo, e di offrirla a tutta l’umanità.

Se la Madonna non fosse stata umile, “piccola”, non avrebbe potuto accogliere la “grandezza” di Dio.Quel piccolo che portò nel grembo è la cosa grande che noi, oggi e sempre possiamo e dobbiamo accogliere come bene più grande da condividere gratuitamente.

Dunque accostiamoci ogni giorno (o almeno il più frequentemente possibile) all’Eucaristia, con un cuore puro e umile, quindi completamente libero e disponibile ad accogliere in noi il Dio vivente, a concepirlo e a darGli la vita tramite la nostra fragile carne redenta da Lui.

3) Gratuità senza frontiere.

Dopo la parola ai convitati, Gesù dice anche una parola per il padrone di casa: “Quando vai a un pranzo, non invitare gli amici o i ricchi vicini, ma i poveri”. Perché invitare sempre soltanto parenti ed amici? Siamo sempre all’interno di un amore interessato, all’interno di una concezione chiusa della vita: ci si invita fra amici, fra persone alla pari, oggi io invito te e domani tu inviti me. E i poveri restano sempre fuori, sempre esclusi. Il Vangelo vuole invece una fraternità con due caratteristiche ben precise: la gratuità e l’universalità. Devi dare anche a coloro dai quali non puoi sperare nulla in cambio. Gesù sta pensando alla sua futura comunità: la sogna come un luogo di ospitalità per tutti gli esclusi. Non si tratta certo di un insegnamento nuovo. Gesù l’ha già rivolto a tutti nel discorso della montagna (Lc 6.32-34): se amate soltanto coloro che vi amano, qual è il vostro merito? Anche i peccatori amano coloro che li amano. C’è la beatitudine per chi è povero (“beati voi poveri, perché vostro è il Regno di Dio”) e c’è anche la beatitudine per chi trasforma i propri beni in occasione di ospitalità, ma deve trattarsi di un’ospitalità anche verso gli esclusi (“sarai beato perché non hanno da ricambiarti”).

Ma questa ospitalità è possibile solamente se accogliamo l’altro, come la Madonna ha verginalmente accolto l’Altro con una fede e un amore così grandi, che i suoi occhi ed il suo cuore si sono aperti alla Carità di Dio e “il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua dimora in mezzo a noi”.

La vita cristiana, quindi, non è in primo luogo meditare e praticare le virtù, ma ospitare e vivere della presenza di Cristo, che ci ama di amore infinito.

Se viviamo la realtà di questo mistero di carità, viviamo già in Paradiso. Le persone consacrate vivono già in Paradiso. Infatti, la vita religiosa nella teologia cattolica è stata sempre ritenuta come una anticipazione della vita del cielo.

Si dice che le suore di vita contemplativa vivono in clausura. Non è vero, perché una monaca che vive totalmente per Iddio vive la libertà pura di un’anima che spazia nell’immensità divina.

Anche per le appartenenti all’Ordo Virginum il loro luogo è l’immensità di Dio. Non sono chiuse in casa o nei luoghi di lavoro. Sono chiusi quelli che sono nomadi, vagabondi nel mondo e non vivono altro che la loro piccola vita nel piccolo mondo, granello minuscolo dell’Universo. La loro anima respira l’Infinito. Vivono in
Dio e Dio è l’immenso, vivono nel Cristo e Cristo è l’Amore. “Dieu est le Dieu du coeur humain” [Dio è il Dio del cuore umano] (San Francesco di Sales3, Filotea o Trattato dell’Amore di Dio, I, XV).

*

LETTURA SPIRITUALE

FILOTEA o Trattato dell’Amore di Dio
di San Francesco di Sales
Vescovo e Dottore della Chiesa

Capitolo V

L’UMILTA’ INTERIORE

“Tu, Filotea, mi chiedi di condurti avanti nell’umiltà: quello che ho detto finora riguarda più il campo della saggezza che quello dell’umiltà; quindi andiamo avanti.

Molti non vogliono pensare alle grazie che Dio ha loro dato personalmente, non ne hanno il coraggio perché temono di cadere nella vanagloria e nel vuoto compiacimento. E qui si sbagliano: S. Tommaso d’Aquino dice che il mezzo per giungere all’amore di Dio è il pensiero dei suoi benefici; meglio li conosciamo e più amiamo Dio.

Direi proprio che niente può umiliarci di fronte alla misericordia di Dio quanto i suoi benefici, e niente può umiliarci di fronte alla sua giustizia quanto le nostre offese. Pensiamo a quello che Egli ha fatto per noi e a quello che noi abbiamo fatto contro di Lui; e, come dobbiamo pensare ai nostri peccati più piccoli, dobbiamo pensare alle sue grazie più piccole. Non dobbiamo temere che il conoscere i doni che ha posto in noi ci gonfi; è sufficiente che abbiamo sempre presente questa verità: ciò che di buono c’è in noi non viene da noi.

Rifletti: i muli, animali pesanti e maleodoranti, non cessano di essere tali solo perché sono carichi di mobili preziosi e profumati appartenenti al principe. Che cosa abbiamo di buono che non ci sia stato dato?

E se ci è stato dato, perché insuperbircene? E’ proprio il contrario: la seria riflessione sui doni ricevuti ci rende umili; la conoscenza genera la riconoscenza.

Ma se poi, vedendo i doni di Dio in noi, venisse a solleticarci in qualche modo la vanità, c’è sempre pronto un rimedio infallibile: pensiamo alla nostra ingratitudine, alla nostra imperfezione, alla nostra miseria: se pensiamo ai guai che abbiamo combinato quando Dio non era con noi, scopriremo subito che quanto di buono riusciamo ad imbastire con Lui, non è nel nostro stile e del nostro sacco. Ne proveremo gioia sincera perché il bene c’è, ma ne daremo il merito a Dio perché Lui solo ne è l’autore.

La Santa Vergine dice che Dio opera in lei meraviglie, e lo fa soltanto per umiliarsi e dare gloria a Dio; la mia anima magnifica il Signore, dice, perché ha fatto in me cose grandi.

Spesso diciamo che non siamo nulla, anzi che siamo la miseria in persona, la spazzatura del mondo; ma resteremmo molto male se ci prendessero alla lettera e se ci considerassero in pubblico secondo quanto diciamo. E’ proprio il contrario: fingiamo di fuggire e di nasconderci solo perché ci inseguano e ci cerchino; dimostriamo di voler essere gli ultimi, seduti proprio all’ultimo angolino della tavola, ma soltanto per passare con grande onore a capotavola.

L’umiltà vera non finge di essere umile, a fatica dice parole di umiltà; perché è suo intendimento non solo nascondere le altre virtù, ma soprattutto vorrebbe riuscire a nascondere se stessa; se le fosse lecito mentire, o addirittura scandalizzare il prossimo, prenderebbe atteggiamenti arroganti e superbi, per potercisi nascondere e vivere completamente ignorata e nascosta.

Eccoti il mio parere, Filotea: o evitiamo di dire parole di umiltà, oppure diciamole con profonda convinzione, profondamente rispondente alle parole. Non abbassiamo gli occhi senza umiliare il cuore; non giochiamo a fare gli ultimi se non intendiamo esserlo per davvero. Questa è la mia regola generale e non faccio alcuna eccezione; aggiungo soltanto questo: la buona educazione esige qualche volta che cediamo la precedenza a persone che certamente non l’accetteranno; questa non è doppiezza o falsa umiltà: in tal caso l’offerta della precedenza è un segno d’onore, e poiché non ci è concesso di tributarlo a chi di dovere secondo il merito, non è cosa fatta male darne almeno un piccolo segno. Questo vale anche per alcune espressioni di onore e di rispetto che, strettamente prese, non sembrano rispecchiare la verità: ma lo sono abbastanza se colui che le pronuncia ha seriamente l’intenzione di onorare e dimostrare rispetto a colui cui sono indirizzate. Anche se le parole hanno un significato che va oltre la nostra intenzione, non facciamo nulla di male a servircene quando l’uso è corrente. Personalmente preferirei che le parole fossero rispondenti, il più fedelmente possibile, ai nostri pensieri, e questo per poter seguire sempre e dappertutto la linea della semplicità e della spontaneità affettuosa.

L’uomo sinceramente umile sarebbe più contento se fosse un altro, anziché lui stesso, a dire di lui che è un miserabile, un nulla, un buono a nulla; o, perlomeno, se sa che si dice, non si oppone, ma approva di cuore. Perché, se è vero che ne è convinto, è naturale che ne sia contento di vedere condivisa la sua opinione.

Molti affermano che vogliono lasciare l’orazione mentale ai perfetti perché essi non ne sono degni; altri protestano che non hanno il coraggio di fare spesso la comunione, perché non si sentono sufficientemente purificati; altri ancora dicono di temere di essere causa di disonore per la devozione se ci si impegnano, a causa della loro enorme miseria e fragilità; altri rifuggono dal mettere i loro talenti al servizio di Dio e del prossimo perché, dicono, conoscono la loro debolezza e potrebbero inorgoglirsi vedendosi strumenti di qualche cosa di buono; temono di consumarsi facendo luce agli altri. Tutte queste preoccupazioni sono soltanto inganni, una sorta di umiltà non soltanto falsa, ma perversa, per mezzo della quale, con molta sottigliezza e senza dirlo, si critica l’operato di Dio, o almeno si tenta di coprire di umiltà l’orgoglio della propria opinione, della propria indole, della propria pigrizia.

Domanda a Dio un segno dall’alto, dal cielo o dal basso, dal profondo del mare, dice il Profeta all’infelice Acaz, che risponde: No, non lo domanderò e non tenterò il Signore! E’ veramente perverso. Ostenta un grande sentimento di rispetto verso Dio e, colorando d’umiltà la sua presunzione, rifiuta la grazia di cui Dio vuole dargli un segno. Non pensa che rifiutare i doni che Dio vuole darci è orgoglio! Dobbiamo ricevere i doni che Dio ci manda; l’umiltà è obbedire e seguire da vicino i suoi disegni. Dio vuole che noi siamo perfetti e unendoci a Lui esige che lo seguiamo da vicino il più possibile. Il superbo, che confida solo in se stesso, ha infinite ragioni per non porre mano ad alcuna iniziativa; ma l’umile trova tutto il coraggio nella sua incapacità: più si sente debole e più diventa intraprendente, perché tutta la sua fiducia è riposta in Dio, che si compiace di manifestare la sua potenza nella nostra debolezza e far trionfare la sua misericordia basandola sulla nostra miseria.

Molto umilmente e santamente dobbiamo tentare tutto quello che è giudicato opportuno per il nostro progresso spirituale da coloro che hanno la responsabilità della nostra anima.

Pensare di sapere ciò che non si sa, è stupidità manifesta; voler fare il sapiente in un campo in cui sappiamo benissimo di essere ignoranti, è una vanità insopportabile; per conto mio non vorrei fare il sapiente nemmeno in quello che so, ma nemmeno atteggiarmi a ignorante.

Quando lo richiede la carità, bisogna dare al prossimo, con franchezza e dolcezza allo stesso tempo, non soltanto quanto gli è utile all’istruzione, ma anche ciò che gli fa piacere. L’umiltà nasconde e copre le virtù per conservarle, le lascia vedere quando lo esige la carità, per accrescerle, svilupparle e perfezionarle.

L’umiltà richiama alla mente quell’albero delle isole di Tilo che di notte chiude e protegge i suoi bei fiori di colore incarnato e li dischiude soltanto quan
do si alza il sole, sicché la gente del paese dice che questo fiore di notte dorme. Così fa l’umiltà che copre e nasconde tutte le virtù e le perfezioni umane e le lascia apparire solo per il servizio della carità, perché è una virtù del cielo, non della terra, divina, non umana: è il vero sole delle virtù sulle quali deve sempre brillare. Si può concludere che le forme di umiltà che portano pregiudizio alla carità, sono certamente false.

Non vorrei atteggiarmi a matto, ma nemmeno a saggio: perché se l’umiltà mi impedisce di fare il saggio, la semplicità e la franchezza mi impediscono di fare il matto; se è vero che la vanità è contraria all’umiltà, è anche vero che l’artificio, l’affettazione e la finzione sono contrarie alla franchezza ed alla semplicità.

E anche se qualche celebre servitore di Dio ha fatto il matto per essere schernito dal mondo, ammiriamolo pure, ma non imitiamolo. Per lasciarsi andare a quegli eccessi quei Servi di Dio hanno avuto motivi personali fuori dall’ordinario che non ci autorizzano a trarre conclusioni per noi.

Davide, saltando e danzando più di quanto sembrasse opportuno, davanti all’Arca dell’alleanza, non voleva fare il matto; ma, molto semplicemente e senza artifici, con quelle danze voleva dimostrare la gioia straordinaria di cui traboccava il suo cuore.

Quando sua moglie Micol glielo rimproverò cime una follia, non fece caso all’umiliazione, ma continuò a manifestare con naturale schiettezza la sua gioia e diede prova di saper accettare un po’ di disprezzo per il suo Dio.

Per questo io ti dico che, se a seguito di atti di una vera e schietta devozione, sarai stimata persona di poco conto, degna di disprezzo o pazza, l’umiltà ti farà gioire per quel fortunato attacco che non ha le sue ragioni in te, ma in coloro che ti attaccano.”

*

NOTE

1 Il verbo greco utilizzato dal Vangelo di Luca andrebbe tradotto letteralmente: “ha guardato in giù”, verso la bassezza dell’umile sua schiava.

2 da humus parola latina che vuol dire terra. Essere umili è riconoscere che noi siamo polvere di terra amata da Dio.

3 Dieu est le Dieu du coeur humain” [Dio è il Dio del cuore umano] (Trattato dell’Amore di Dio, I, XV): in queste parole apparentemente semplici cogliamo l’impronta della spiritualità di un grande maestro di san Francesco di Sales, Vescovo e Dottore della Chiesa. Nato nel 1567 e morto nel 1622, in una regione francese di frontiera,visse a cavallo tra due secoli, il Cinquecento e il Seicento, raccolse in sé il meglio degli insegnamenti e delle conquiste culturali del secolo che finiva, riconciliando l’eredità dell’umanesimo con la spinta verso l’assoluto propria delle correnti mistiche. Fra i vari suoi scritti segnalo anche uno dei libri più letti nell’età moderna, l’Introduzione alla vita devota.

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Archbishop Francesco Follo

Monsignor Francesco Follo è osservatore permanente della Santa Sede presso l'UNESCO a Parigi.

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