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Parigi, il giorno dopo: tra rabbia, sgomento, voglia di ricominciare e tanti perché

Le considerazioni di una turista italiana all’indomani degli attentati

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Parigi, 14 novembre 2015. La città che ho visto oggi è diversa da quella che ho visto ieri: oggi l’ho vista dalle finestre di un appartamento dal quale ci hanno detto è meglio non uscire se non strettamente necessario, almeno fino alla fine delle prossime 48 ore.

Tuttavia l’ho vista, per una ventina di minuti, anche fuori dalle quattro mura, dopo aver sentito il bisogno di uscire da quello che era divenuto un rifugio quasi obbligato dalla prudenza. E così, dopo essermi svegliata dal riposo pomeridiano per via delle note tristi – finanche loro – del pianoforte del vicino, sono uscita dalla casa di mio fratello ed ho passeggiato per non più di un quarto d’ora nei suoi paraggi.

Fuori, nelle strade che vedevo, a distanza di 100 metri il confine con Parigi le persone occupavano i tavolini all’aperto di un bistrot, come sempre; uscivano ed entravano dalla metropolitana, come sempre; avevano l’aria schietta, quella di sempre, propria del cittadino francese: quello che non usa particolari maschere di scudo, che non si fa mai problemi a mostrarsi per com’è, nell’assenza di quei filtri dell’espressione verbale e non verbale che tanto ne costruiscono il motivo di antipatia agli occhi di altri popoli.

Chi invece è amareggiato, chi ha preferito non uscire seguendo i consigli dei vari media o semplicemente la prudenza e, magari, il buon senso, è rimasto nel nido domestico, spesso dando un’occhiata ai social e continuando a scambiarsi informazioni e pareri che, anche quando sbagliati o inappropriati, comunque pieni del diritto di esprimersi ed i quali hanno tessuto la rete di comunità virtuale necessaria a farsi sentire vicini e reattivi.

I post che ho letto con più interesse sono stati quelli di chi ha proposto o i passati pareri di Oriana Fallaci o quelli della lettera di Tiziano Terzani in sua risposta. La prima sosteneva che alla base del problema della violenza islamica vi fosse quella che per lei era di fatto una tara nel Corano; il secondo affermava che alla base vi fosse invece le responsabilità di tutti quei paesi cosiddetti democratici che in passato hanno dichiarato guerre e invasioni ai paesi islamici.

Ebbene, se alla prima vorrei domandare come ci si dovrebbe allora comportare con quella parte di islamici amanti e praticanti la pace, al secondo vorrei invece chiedere come superare il problema – una volta risolto, immaginiamo, quello della violenza che produce violenza – della parte psicologica assassina e malefica indispensabile ad ogni uomo che scelga di uccidere.

Ad oggi, i pareri che ho avuto modo di sentire a riguardo di quanto accaduto derivano da due persone trapiantate da tempo in Francia. Una auspica che si eviti una guerra civile, la quale evidentemente i francesi respirano nell’aria; l’altra spera che lo stato dia alla città di Parigi linee guida specifiche in caso di nuovi attacchi e che tutta quella parte di mussulmani indisposti all’integrazione vengano tenuti lontani da chi vuol vivere bene, da chi vuol vivere il bene.

Ad ogni modo, ad essere sincera, oggi sono indignata e triste per via di motivi più semplici, più quotidiani e forse banali di quelli derivanti dalle cause-effetti geopolitici o delle menti umane: da quasi 24 ore moltissime persone sono state costrette a cambiare i loro programmi, vedendosi fondamentalmente mutilare la libertà di eseguirli: chiunque abbia iniziato questa gelida guerra, là fuori, oggi ha portato persone qualunque a non poter incontrare i propri parenti, amici, fidanzati, a non poter fare un viaggio, a rimandare una decisione. E quando è il quotidiano, a venir minato, è l’intimità stessa di ciascuno ad esserlo. Forse è per questo che non riesco a vedere molta banalità nella mia tristezza.

E nonostante io veda la Parigi di stasera da punti di vista più limitati e furtivi delle altre volte, credo la città sia quella di sempre; la stessa di quando dormiva sonni più tranquilli, nel frattempo che sapeva, non li stava invece dormendo la Siria, dove i corpi morti di Parigi di quest’oggi si ammucchiano ogni giorno. Ogni giorno. È solo che stavolta è capitato a Parigi e se anche è da ipocriti rimanerne più scioccati, sta di fatto che è solo quando una capitale nella quale la democrazia e la civiltà sono la norma, a venire trucidata, che gli echi nelle sorde coscienze di noi umani diventano più sensibili. In questi casi, il messaggio che viene lanciato risuona in tutti i paesi altrettanto civili. Civili perlomeno in casa loro.

“Perché la Francia, perché ancora la Francia?”. Me lo sono domandata e mi sono data le mie risposte, da perfetta ignorante in certe materie geopolitiche ma un po’ meno in quanto a cultura francese. Al di là delle antiche colonizzazioni francesi in nome dello sfruttamento delle terre arabe, passando alle più attuali azioni di divieto del velo all’interno del territorio di Francia fino alle recenti scelte di politica estera, credo che la scelta di questo paese come palco dal quale dare l’esempio di cosa accade a chi pesta i piedi a chi non dovrebbe, derivi anche da altro.

Lasciando da parte le liete commedie, dinnanzi alla tragedia, la Francia non mostra l’imperturbabile psicologia tedesca, né quella causticamente ironica inglese, né quella ruvida russa e nemmeno quella scrupolosamente mascherata italiana. I francesi non sono quel tipo di popolazione disposto alla mediazione o a filtrare le emozioni; sono critici, sprezzanti, superbi,  schietti, ma lo sono da sempre, in prima istanza, verso se stessi, in modo franco, ed ecco che se una “storiaccia” del genere succede alla Francia, succede di nuovo a lei, è perché chi gliel’ha recapitata sapeva che questo colpo avrebbe destabilizzato ancor più la speranza di quel paese troppo democratico e troppo severo con se stesso, per rispondere ad armi pari.

Tutto, in Francia, è quasi perfetto. Il ‘quasi’ è d’obbligo, ma poche città europee arrivano a quel ‘quasi’. A partire dall’organizzazione dei piani urbanistici, a finire con quella della rete sociale e culturale che moltissime fasce della cittadinanza e dello stato va a toccare, questo Paese è la dimostrazione di quanto il suo popolo non si accontenti mai di sé, poiché la storia toglie e la storia dà e spesso lascia una gloria insanguinata, per un pezzetto di liberté, egalité e fraternité.

Questo è per i francesi il momento di vedere che le risorse morali per non arrendersi al panico sono con loro. Se saranno pronti ad avanzare politiche diverse, di non distribuzione della violenza, di controllo di frontiera, di ammissione al suo interno di quella parte di umanità che è disposta a rispettare i suoi tre antichi principi rivoluzionari, assieme a quello della laicità, allora forse sarà l’occasione per dire ai paesi cosiddetti ‘democratici’ che un’ammissione di colpa e non colpa è d’obbligo per andare avanti.

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ZENIT Staff

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