Orissa: non si ferma la persecuzione dei cristiani

Nessuna giustizia per le vittime della violenza anticristiana del 2007 e del 2008

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di Paul De Maeyer

ROMA, mercoledì, 18 maggio 2011 (ZENIT.org).-L’hanno stuprata e brutalmente assassinata. Stiamo parlando della diciassettenne studentessa Banita o Nirupama Pradhan, il cui corpo senza vita è stato ritrovato nei giorni scorsi da alcuni contadini nei pressi del lago di Dhangadarna Hill, nel tristemente noto distretto di Kandhamal, nello Stato indiano dell’Orissa, da anni teatro di gravi episodi di violenza anticristiana da parte di estremisti indù.

Secondo quanto riportato dalle agenzie AsiaNews e Fides (16 maggio), il corpo in fase di decomposizione della studentessa, che frequentava la classe finale del corso Plus II dell’istituto Kalinga Mahavidyalaya a Phulbhani, riportava evidenti segni di violenza ed aveva il volto sfigurato. Secondo il padre della giovane, Sitrian Pradhan, i responsabili dell’assassinio vanno cercati nell’ambito del nazionalismo indù. L’uomo sospetta un’attivista in particolare, Dinesh Naik.

Profondamente scosso dall’ennesimo gravissimo episodio, il Global Council of Indian Christians (GCIC) ha lanciato un appello al “Chief minister” (primo ministro) dell’Orissa, Naveen Patnaik, del partito regionale Biju Janata Dal (BJD), chiedendogli di prendere di petto la situazione della minoranza cristiana, che secondo il rapporto 2011 della U.S. Commission on International Religious Freedom (USCIRF) rappresenta un quinto circa della popolazione dello Stato (con un picco del 25-27% nel distretto di Kandhamal).

“C’è grande paura fra la popolazione. Il massacro dei cristiani continua come uno stillicidio. Il terrore è che si possano ripetere violenza di massa”, ha raccontato a Fides il delegato regionale del GCIC, Asit Mohanty. “Oggi preghiamo e invochiamo la protezione di Dio. Chiediamo una seria indagine della polizia, che ha promesso verbalmente un impegno, ma per ora non ha dato nessun risultato”, ha continuato Mohanty, il quale non ha nascosto di nutrire poca fiducia nelle autorità. “Se la polizia e le autorità civili non si impegneranno – per ben noti motivi di collusione con gli estremisti – anche questo omicidio resterà impunito”, teme.

La chiesa locale non esclude che la giovane sia diventata vittima del traffico di essere umani, cresciuto in modo allarmante in seguito all’ondata di violenze anticristiane nello Stato dell’India nordorientale. Già nel settembre scorso, l’arcivescovo di Cuttack-Bhubaneswar, monsignor Raphael Cheenath, aveva espresso viva preoccupazione per il fenomeno delle ragazze rapite. “Vi sono allarmanti notizie della tratta di giovani donne su larga scala in Orissa. Le vittime sono soprattutto ragazze cristiane”, aveva detto il presule a Fides (22 settembre 2010). “Le violenze del 2008 contro i cristiani hanno dato l’opportunità a gruppi criminali di trovare facili prede fra i profughi e fra i poveri. Se il governo dello stato non prenderà adeguati provvedimenti, l’Orissa rischia di diventare un regno per i trafficanti di esseri umani”.

Un altro cristiano rimasto vittima del fondamentalismo e nazionalismo indù nel distretto di Kandhamal è stato nel marzo scorso un cattolico di Mondasoro, Angad Digal. Secondo quanto riferito dall’agenzia AsiaNews (23 marzo), l’uomo è scomparso ed è stato ucciso il 10 marzo nel villaggio di Tilakapanga, dove si era recato insieme con alcuni conoscenti indù. Più di dieci giorni dopo i fatti, il corpo dell’uomo non era ancora stato ritrovato ed era stato arrestato solo uno dei due sospettati dell’omicidio. A criticare l’inazione delle autorità è stato il sacerdote padre Laxmikant Pradhan, che ha parlato di una “inerzia”, la quale “non fa che peggiorare la situazione della famiglia e di tutti i cristiani di Kandhamal”.

Il clima di impunità che circonda la violenza anticristiana nell’Orissa è sconvolgente. Come ha denunciato nei giorni scorsi AsiaNews (12 maggio), delude soprattutto la giustizia indiana. Per la più violenta ondata persecutoria nell’Orissa, cioè quella scoppiata la sera di sabato 23 di agosto 2008, quando un commando della guerriglia maoistaha ucciso nel distretto di Kandhamalun capo del movimento induista Vishwa Hindu Parishad (VHP), Swami Laxanananda Saraspati, c’è una sola condanna per omicidio ogni 20 casi registrati. Mentre le autorità dello Stato parlano di 52 morti a Kandhamal per le violenze del 2007 e del 2008, di cui 38 cristiani, il numero delle vittime è secondo fonti cristiane molto più alto, quasi il doppio: 91 (esclusi i casi di suicidio, anche per sindrome post-traumatica).

Inoltre, come riferito sempre da AsiaNews, che si basa sui dati raccolti dalle varie associazioni ed organismi, fra cui la All India Catholic Union (AICU), delle 3.232 denunce presentate solo circa un quarto (828) è stato convertito in cosiddette “First Information Reports”, cioè deposizioni vere e proprie. Di questi casi, meno della metà (cioè 327) è finita davanti al giudice, che poi in 169 cause si è pronunciato sull’assoluzione piena. Solo in 86 casi le toghe hanno emesso una condanna, ma soltanto per le imputazioni di minore gravità.

Dato che poi altri 90 casi sono ancora in attesa di essere esaminati in tribunale, il bilancio è dunque davvero magro per la comunità cristiana e le altre vittime dell’estremismo indù, che aspettano e chiedono giustizia. Già nel gennaio scorso, l’attivista per i diritti umani Adikanda Singh – un “dalit” o “intoccabile” – aveva puntato un dito accusatorio contro le autorità. “Il sistema di giustizia ha fallito e non è riuscito a punire gli autori dei crimini. Ciò dimostra che lo Stato non è in grado di giudicare in modo uguale i suoi cittadini”, aveva detto (AsiaNews, 25 gennaio).

La letargia della giustizia indiana ha spinto nel 2009 la U.S. Commission on International Religious Freedom ad inserire il colosso asiatico nella sua cosiddetta “watch list”, la lista dei Paesi da sorvegliare, dal quale ancora non è stato tolto. Secondo la commissione, neppure la creazione di cosiddette “Fast Track Courts” (tribunali speciali per il rito abbreviato) e di “Special Investigative Teams” (SIT’s o squadre investigative speciali) è riuscita ad affrontare l’emergenza e a combattere ciò che nel rapporto 2011 viene definito come “cultura dell’impunità”. Ad alimentare la violenza e l’intolleranza sono secondo la USCIRF anche le famigerate leggi anti-conversioni introdotte da vari Stati dell’Unione Indiana, fra cui per l’appunto l’Orissa.

Un caso emblematico – “ad alto profilo”, così si legge nel rapporto dell’USCIRF – è quello di suor Meena Barwa. La religiosa della congregazione delle Servitrici, che lavorava presso il Centro pastorale Divyajyoti, a K Nuagaon, nel distretto di Kandhamal, è stata picchiata, denudata e violentata il 25 agosto 2008, il tutto sotto gli occhi della polizia, che non ha voluto intervenire, nonostante le sue disperate richieste di aiuto.

Adesso suor Meena Barwa, che nell’ottobre 2008 aveva dichiarato di non voler “essere vittima anche della polizia dell’Orissa” (AsiaNews, 25 ottobre 2008) e aveva chiesto un’indagine sul comportamento e la connivenza delle forze di sicurezza, rischia di trasformarsi in vittima della giustizia. Il 9 maggio scorso, il giudice Chittaranjan Das, dell’Alta Corte dell’Orissa, ha concesso infatti la libertà provvisoria agli istigatori dell’ondata di violenza e dello stupro della religiosa, Pandit Bishimajhi e Jatia Sahu.

La decisione è stata accolta con incredulità. “Siamo sballorditi”, ha detto Bipra Charan Nayak, della Kandhamal Survivors Association (UCA News, 12 maggio). “E’ una macchia sulla dignità delle donne e la giustizia”, ha dichiarato a sua volta la vice presidente dell’ufficio per le donne dell’arcidiocesi di Cuttack-Bhubaneswar, Shibani Singh.

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ZENIT Staff

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