Oriente e Occidente di fronte al mistero della salvezza

Nella quinta predica di Quaresima, padre Cantalamessa spiega la diversa concezione in Oriente e Occidente dell’opera di Cristo, ma come i punti di convergenza siano più di quanto si creda

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È “il problema della salvezza” l’ultima tappa del giro di ricognizione che padre Raniero Cantalamessa ha realizzato in questa Quaresima per riscoprire la comune fede di Oriente e Occidente. Nella riflessione di oggi, l’ultima del ciclo quaresimale, il predicatore della Casa Pontificia volge lo sguardo ad oriente per analizzare come l’Ortodossia e il mondo latino abbiano compreso il contenuto della salvezza cristiana. Perché, questo, può “arricchire” noi latini e, in parte, “correggere il nostro modo diffuso di concepire la redenzione operata da Cristo”.

L’excursus del cappuccino parte quindi dalle profezie dell’Antico Testamento che annunciano “la nuova ed eterna alleanza”, nelle quali si nota la presenza di un elemento negativo, “l’eliminazione del peccato e del male in genere”, e di uno positivo, “il dono di un cuore nuovo e di uno spirito nuovo”.

Due componenti evidenti nel Nuovo Testamento. Ad esempio, quando Giovanni Battista presenta Gesú come “l’Agnello che toglie il peccato del mondo”, o quando, Giovanni nel Vangelo parla “dell’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo”. In san Paolo questi due elementi sono poi “in perfetto equilibrio”, concentrandosi “nel cuore stesso del Kerygma”. Ovvero dell’annuncio di Cristo “messo a morte per i nostri peccati” e “risorto per la nostra giustificazione”.

Entrambi gli elementi – osserva Cantalamessa – sono stati recepiti in maniera diversa: l’Oriente ha colto l’elemento positivo della salvezza, “la deificazione dell’uomo e il ripristino dell’immagine di Dio”. L’Occidente invece quello negativo della “liberazione dal peccato”. Ne sono conseguite generalizzazioni “che fanno sembrare le due visioni della salvezza più distanti tra loro di quello che sono in realtà”.  

Il predicatore ricorda infatti le diverse diatribe tra latini e greci sui concetti di figliolanza divina, deificazione, inabitazione della Trinità. Teorie che, tuttavia, non sono così nettamente ripartite, afferma. “L’idea di sacrificio per il peccato, di riscatto, di pagamento di un debito (perfino, in alcuni casi, di un riscatto pagato al diavolo!)” è presente infatti in sant’Atanasio, san Basilio, san Gregorio Nisseno e nel Crisostomo, non meno che nei loro contemporanei latini.

Se, però, sulla questione della salvezza, Oriente e Occidente sono più vicine di quanto si creda, la differenza è invece “netta e costante” nel modo di intendere il peccato originale e quindi l’effetto primario del battesimo. “Gli orientali non hanno mai inteso il peccato originale nel senso di una vera ‘colpa’ ereditaria”, spiega padre Raniero, bensì come “la trasmissione di una natura ferita e incline al peccato”, una “perdita progressiva dell’immagine di Dio nell’uomo”.

Con il simbolo Niceno-Costantinopolitano tutti, greci e latini, professano “un solo battesimo per la remissione dei peccati”, ma per gli Orientali “il battesimo non ha principalmente lo scopo di togliere il peccato originale”. Nei bambini, ad esempio, “non lo ha affatto”. Lo scopo è piuttosto “di liberare l’uomo dalla potenza del peccato in genere, ripristinare l’immagine di Dio perduta”.

Una diversa prospettiva, dunque, che si riflette per esempio nell’immagine della Vergine Maria: “Immacolata”, cioè concepita senza il peccato originale, secondo la visione occidentale; “Panhagia”, ovvero “Tutta santa” in quella orientale.

Cantalamessa ricorda quindi in proposito il pensiero di sant’Agostino, il quale – spinto anche dalle polemiche con i pelagiani – pose in luce soprattutto l’“aspetto di preservazione e di guarigione dal peccato, la cosiddetta grazia preveniente, adiuvante, sanante”. “La sua dottrina del peccato originale, come vera colpa ereditaria, trasmessa nell’atto della generazione sessuale, ha fatto sì che il battesimo fosse visto prevalentemente come liberazione dal peccato originale”.

“Né Agostino né altri dopo di lui hanno mai taciuto degli altri beni del battesimo: figliolanza divina, inserimento nel corpo di Cristo, dono dello Spirito e tanti altri magnifici doni”, soggiunge il predicatore. Sta di fatto però che, nell’opinione generale, “l’aspetto negativo di liberazione dal peccato originale ha sempre prevalso su quello positivo del dono dello Spirito Santo”. Lo vediamo oggi, quando “un cristiano medio” ancora si domanda cosa significhi essere “in grazia di Dio” o vivere “in grazia”. La risposta è “quasi certa” – afferma padre Raniero – cioè “vivere senza peccati mortali sulla coscienza”.

Dopo il vescovo di Ippona, ci fu poi Giovanni Duns Scoto a ribadire che “fine primario dell’incarnazione non è la redenzione dal peccato, ma la ricapitolazione di tutto in Cristo”. Secondo la dottrina scotista,“l’incarnazione ci sarebbe stata anche se Adamo non avesse peccato”; il peccato del primo uomo ne “ha solo determinato la modalità”, rendendola una “ricapitolazione redentrice”.

Ma la voce di Scoto rimase isolata, rammenta Cantalamessa, perché adombrata da un’altra voce “esasperante” che era quella di Lutero. A lui va riconosciuto “il merito, per tutta la cristianità, di rimettere la parola di Dio, la Scrittura, al centro e al di sopra di tutto, anche delle parole dei Padri, che sono pur sempre parole di uomini”, dice il cappuccino. Tuttavia, con lui la diversità concezione della salvezza rispetto all’Oriente diventò davvero “radicale”. Alla teoria della divinizzazione dell’uomo, si contrappone infatti la tesi di un Dio che lascia il battezzato “peccatore in se stesso, giusto agli occhi di Dio”.

Per sant’Agostino, sant’Anselmo, Lutero, l’insistenza sulla gravità del peccato era “un modo diverso per far risaltare la grandezza del rimedio procurato da Cristo”, spiega Cantalamessa. Si accentuava, cioè, “l’abbondanza del peccato”, per esaltare “la sovrabbondanza della grazia”. In entrambi i casi, “la chiave di tutto è l’opera di Gesú”, vista “da destra” dagli orientali e “da sinistra” dagli occidentali.

Allora dov’è “la lacuna segnalata della nostra soteriologia, per cui abbiamo bisogno di guardare verso oriente?”, domanda il predicatore nella Casa Pontificia. “È nel fatto che, in questo modo la grazia, per quanto esaltata, ha finito, in pratica, per essere ridotta alla sua sola dimensione negativa di rimedio al peccato”. Una prospettiva che emerge anche nel “grido ardito” dell’Exultet pasquale: “O felice colpa che ci ha meritato un tale e così grande Redentore!”.

Eppure proprio su questo punto assistiamo da tempo a un cambiamento “epocale”, afferma il cappuccino: quella “corrente di grazia”, cioè, che è il movimento pentecostale che attraversa tutte le Chiese d’occidente. Una realtà a cui lo stesso Cantalamessa si è “arreso” da circa 38 anni.

Parla quindi per esperienza vissuta in prima persona e spiega che essa “non è un movimento” nel senso lato; non ha un fondatore, una regola, una spiritualità propria, tantomeno strutture di governo, ma solo “di coordinamento e di servizio”. È, appunto, “una corrente di grazia” che il predicatore della Casa Pontificia auspica si possa diffondere “in tutta la Chiesa” e “disperdersi in essa come una scarica elettrica nella massa”.

Pertanto, “non è possibile ignorare più a lungo, o considerare marginale”, questo fenomeno che, “in modi più o meno profondi, ha raggiunto centinaia di milioni di credenti in Cristo in tutte le confessioni cristiane e decine di milioni nella sola Chiesa cattolica”. Paolo VI, incontrando per la prima volta, nel 1975, i responsabili del Rinnovamento carismatico cattolico a San Pietro, parlò addirittura di “una chance per la Chiesa e per il mondo”. Perché, di fatto,  “permette di rimontare la china e restituire alla salvezza cristiana il ricco ed esaltan
te contenuto positivo, riassunto nel dono dello Spirito Santo”.  

Sicuramente non tutti gli appartenenti a tale “corrente di grazia” vivono queste caratteristiche – ammette padre Cantalamessa -, tuttavia anche i più semplici “aspirano a realizzarle nella loro vita”. Quello pentecostale è infatti “un cristianesimo gioioso, contagioso, vissuto nella potenza e nell’unzione dello Spirito Santo, che non ha nulla del tetro pessimismo che Nietzsche rimproverava ad esso”.

Il focus di padre Raniero non è tuttavia una propaganda ad aderire a questo o quel movimento, bensì un modo per esortare ad “aprirsi all’azione dello Spirito, in qualsiasi stato di vita uno si trovi”. Perché lo Spirito Santo “non è monopolio di nessuno, tanto meno del movimento pentecostale e carismatico”. “L’importante – raccomanda – è non rimanere fuori dalla corrente di grazia che attraversa, sotto diverse forme, la cristianità intera”, in modo vedere in essa “una iniziativa di Dio” e “non una minaccia o una infiltrazione estranea al cattolicesimo”.

Allora “lasciamo ai fratelli ortodossi di discernere se questa corrente di grazia è destinata soltanto a noi, Chiese dell’occidente e nate da esse, oppure se una nuova Pentecoste è ciò di cui anche l’oriente cristiano, per altro verso, ha bisogno”, conclude Cantalamessa. Nel frattempo, diciamo loro grazie “per aver coltivato e tenacemente difeso lungo i secoli un ideale di vita cristiana bello ed esaltante, di cui tutta la cristianità ha beneficiato, anche attraverso lo strumento silenzioso dell’icona”.

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Salvatore Cernuzio

Crotone, Italia Laurea triennale in Scienze della comunicazione, informazione e marketing e Laurea specialistica in Editoria e Giornalismo presso l'Università LUMSA di Roma. Radio Vaticana. Roma Sette. "Ecclesia in Urbe". Ufficio Comunicazioni sociali del Vicariato di Roma. Secondo classificato nella categoria Giovani della II edizione del Premio Giuseppe De Carli per l'informazione religiosa

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