“Orestea”: in scena all’Argentina un dramma senza tempo

Fino al 17 gennaio, il teatro romano ospita l’opera di Eschilo, diretta da Luca De Fusco

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Al Teatro Argentina di Roma fino al 17 gennaio è in scena un classico imperituro, l’Orestea di Eschilo, per la regia dell’eccellente Luca De Fusco, che ha già trionfato al Mercadante di Napoli, con un tutto esaurito sin dal debutto.
Un impegno davvero notevole per il regista napoletano, che dopo aver messo in scena al Teatro greco di Siracusa, l’Agamennone, in occasione del centenario della fondazione INDA (Istituto nazionale del dramma antico) nel 2015, ha studiato per realizzare tutta la trilogia dell’Orestea: le Coefore e le Eumenidi. L’adattamento dell’opera di Eschilo, una delle pochissime trilogie giunte intatte sino a noi, è merito della filologa Monica Centanni, che è riuscita a mantenere l’originale gravità del linguaggio eschileo. Il risultato è una pièce di quattro ore e mezzo, con due intervalli da venti minuti, ma che non affatica lo spettatore ma, anzi, lo tiene in suspense fino all’ultimo secondo, con un teatro gremito come non mai.
Ed ecco, in sintesi, la trama: l’assassinio di Agamennone, al ritorno dalla guerra di Troia a casa sua ad Argo, per mano di sua moglie e del suo amante Egisto; la vendetta sanguinaria dopo dieci anni di suo figlio Oreste cresciuto nella Focide, che ucciderà sua madre ed Egisto, per volere del dio Apollo, cui segue la persecuzione delle Erinni. E, infine, la sua assoluzione ad Atene, per opera del tribunale dell’Areopago, istituito dalla dea Atena, divinità della giustizia, proprio per giudicare un crimine di tale gravità.
A primo impatto, salta all’occhio la perfezione scenografica: una scelta – opera di Maurizio Balò – di sabbia scura e brulla, che si prefigge di riprodurre la terra di Argo, in Grecia, ancora torbida di sangue, per i tanti spargimenti della stirpe reale, tramandati dagli altri miti. Non mancano i riferimenti qui, anche, alla Medea di Euripide, che racconta appunto dell’infanticidio per mano della madre strega, allo scopo di punire il compagno Giasone di averla abbandonata per un’altra donna, accomunando così Corinto ad Argo, forse, per un uso estensivo della metonimia, che di una parte della Grecia intende il tutto o per una rilettura moderna del mito degli Argonauti.
Comunque sia, è forte il sentore di sangue e di guerra che traspare dalle viscere di quella terra, intrisa di tanto dolore. Ed è memorabile nel primo atto l’interpretazione visionaria di Cassandra, figlia dello sconfitto re di Troia, Priamo, fatta schiava da Agamennone, Re di Argo, che con lui tornerà a casa, ad Argo, trovando la morte. È da pelle d’oca la performance di Gaia Aprea, nei panni di Cassandra, che prevede la propria morte e quella di Agamennone in una notte senza sonno, davanti alle guardie reali. Avvolta in un costume da sacerdotessa, ricorda il favore di Apollo, che le voltò le spalle, per capriccio, relegandola a una fine solitaria, in terra straniera, in un “suolo contaminato dalla maledizioni”.
Fondamentale è il gioco di luci, merito di Gigi Saccomandi, che enfatizzano con una brillante scia rossa, i climax, alternando colori più o meno intensi in base alle emozioni dei personaggi e al momento tragico.  Brillante e purpureo si fa il terreno alla fine del primo atto, quando Clitemnestra, una straordinaria Elisabetta Pozzi, confessa l’omicidio del marito e della sua schiava Cassandra, davanti alle guardie reali, giustificandosi in nome dell’assassinio della figlia Ifigenia, sacrificata dal padre sull’altare degli dei, per propiziarsene il favore, per la guerra di Troia.
Un monologo di qualche minuto in cui racconta le sofferenze patite nella solitudine di decenni, definendosi “cagna fedele” e incolpa del suo gesto la maledizione che incombe sulla stirpe di Argo, per colpa di Egisto, il sobillatore, fratellastro di Agamennone e uccisore di Atreo, suo patrigno, per sete di potere. Una secolare catena di disgrazie, che la regina auspica possa interrompersi, infine, con quell’ultimo fatale gesto, invocando gli dei con sacrifici di bestiame e con generose donazioni ai templi. Ma così non sarà, accorrerà suo figlio Oreste – un intenso Giacinto Palmarini – dieci anni dopo a vendicare il patricidio e a liberare dalla schiavitù sua sorella Elettra, per volere di Apollo Obliquo, macchiandosi di matricidio e procurandosi la persecuzione delle Erinni, antiche divinità degli inferi. Ed è così che si apre il secondo atto: le Coefore e le Eumenidi.
Tra un atto e l’altro, si interrompe il ritmo tragico a suon di canti e di balli, con le danzatrici, tutte eccellenti interpreti della Compagnia di Danza Contemporanea Korper di Napoli, dirette dalla coreografa israeliana Noa Wertheim, su composizioni originali di Ran Bagno. Davvero pertinente è la recitazione delle Erinni, che trasmettono allo spettatore il senso di angoscia e disgusto per cui sono state concepite. Eccelsa è Angela Pagano, che canta e danza mentre interpreta la Signora delle Erinni, con un forte effetto scenico, che si tramuta, per chi guarda, in un mero senso di oppressione.
Solenni e altere le due divinità, rispettivamente un maestoso Claudio Di Palma nei panni di Apollo e di nuovo l’unica e inimitabile Gaia Aprea, in quelli di Atena, che con la sua estensione da soprano e la sua magnifica presenza scenica ipnotizzerà la platea, per una chiusura spettacolare. Da non dimenticarsi sono il prezioso apporto scenico delle video-immagini a cura di Alessandro Papa e l’eccellenza tecnica dei costumi, fedeli ai tempi e di rara eleganza, a cura di Zaira De Vincentiis e delle sue sarte: Roberta Mattera e Daniela Guida.
Un’Orestea da standing ovation, quella di Luca De Fusco, che meriterebbe di essere in cartellone permanente a Las Vegas, con gli stessi onori che spettano al rinomatissimo Cirque du Soleil, seppur depositario di una preparazione e una sapienza di gran lunga superiori, sia per originalità che per conoscenza dei classici greci.
Un’occasione per “i teatrofili romani”, da non mancare: tutti al Teatro Argentina, per rispolverare i fasti della sesta arte.
 
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Al Teatro Argentina di Roma
Orestea
di Eschilo, per la regia di Luca De Fusco
traduzione: Monica Centanni
 
Con Mariano Rigillo, Elisabetta Pozzi, Angela Pagano, Gaia Aprea, Claudio Di Palma, Giacinto Palmarini, Anna Teresa Rossini, Paolo Serra e con Fabio Cocifoglia, Paolo Cresta, Francesca De Nicolais, Patrizia Di Martino, Gianluca Musiu, Federica Sandrini, Dalal Suleiman, Enzo Turrin
 
Scene Maurizio Balò
costumi Zaira De Vincentiis
musiche Ran Bagno
coreografie Noa Wetheim
luci Gigi Saccomandi
suono Hubert Westkemper
adattamento vocale Paolo Coletta
video Alessandro Papa
 
Produzione Teatro Stabile di Napoli con Teatro Stabile di Catania
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[Foto Fabio Di Donato]

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Rita Ricci

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