"Ogni voce umana è una voce che deve essere ascoltata"

Intervento di mons. Follo al dibattito di politica generale della 37° sessione della Conferenza Generale dell’UNESCO

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Pubblichiamo di seguito il testo integrale dell’intervento di monsignor Francesco Follo, capo della delegazione della Santa Sede, al dibattito di politica generale della  37° sessione della Conferenza Generale dell’UNESCO. Il discorso è stato pronunciato oggi, sabato 9 novembre, a Parigi.

***

Signor Presidente della Conferenza Generale,
Signora Direttrice Generale,
Eccellenze,

Per la Santa Sede, è un onore e un piacere congratularsi con il Signor Hao Ping, Vice-Ministro dell’Educazione della Cina, per la sua elezione alla Presidenza di questa stimabile Assemblea, e la Signora Irina Bokova per il suo secondo mandato in qualità di Direttrice Generale dell’UNESCO. Certamente, queste congratulazioni sono rivolte a nome di Sua Santità Francesco, che ben conosce e apprezza il lavoro della « nostra » Organizzazione.

Questa Conferenza Generale dell’UNESCO rifletterà anche sulla “cultura della riconciliazione” come Papa Francesco e Mr Ban Ki-moon hanno dichiarato in occasione del loro incontro il 9 aprile 2013.  A questo titolo, la Santa Sede desidera dare il suo contributo parlando di ciò che abbiamo tutti in comune oggi, da una parte, e, dall’altra parte, di ciò che siamo in ragione della nostra specificità.

Questo contributo propone alcune riflessioni che s’inscrivono nel quadro degli obiettivi principali dell’UNESCO :

1)                  l’educazione e il suo apporto allo sviluppo sostenibile, ivi compreso lo sviluppo delle culture e il dialogo interculturale che  le riconcilia;

2)                  l’attenzione ai giovani e al contributo che essi possono dare alla nostra Organizzazione per il XXI secolo;

3)                  il dialogo come comunicazione, in seno ad una comunità;

4)                  pace e dimensione sociale delle religioni.

Una constatazione s’impone: i nostri Stati sono abitati oggi come sempre, simultaneamente, da diverse generazioni alla volta.

L’esistenza di una città (nel senso greco della « polis » = Stato) suppone che essa conti fra i suoi abitanti bambini, giovani, adulti, anziani, e anche moribondi. A questa constatazione descrittiva sulla coesistenza delle persone all’interno della città, si aggiunge una constatazione normativa : tutti sono legati da compiti reciproci. Potrei soffermarmi su di essi e dire con insistenza che il primo compito che lega l’essere umano al suo prossimo è di volere il bene comune. Questa verità è una verità capitale. È a partire da questa che mi permetto di formulare delle osservazioni più concrete che potranno essere tenute presenti per la stesura definitiva del programma a medio termine dell’UNESCO (37 C/4).

1) Educazione alla CONDIVISIONE

L’educazione alla condivisione, significa arricchirsi e facilitare quindi uno sviluppo sostenibile. Questo è essenziale per gli obiettivi di Sviluppo post 2015, nel quadro della strategia a medio termine (37 C/4).

La prima osservazione, quindi, è che i compiti più grandi, nelle nostre città, sono responsabilità necessariamente dei più dotati, « ricchi » in cultura e sapere non solamente in denaro. Intendo « ricco » in un senso unicamente sociale e culturale. In questi termini il ricco, la persona colta, educata è prima di tutto colui che sa, colui che ha imparato a discernere il bene comune. È colui che ha ricevuto un patrimonio culturale : egli sa vivere nella sua città, ne conosce la storia, sa discernere i contributi favorevoli della storia e gli esiti negativi che bisogna evitare. E se egli si riconosce come ricco in questo senso, accetterà di condividere le sue ricchezze. Quindi si può pensare che le nostre ricchezze culturali, per molti versi, siano un fattore di felicità, e che abbiamo un certo desiderio di non tenere la nostra felicità tutta per noi.

Il « ricco » quindi non è colui che possiede. È colui che trasmette e che condivide. Siamo invitati alla condivisione. « Non ci saranno armonia e felicità per una società che ignora, che mette ai margini e che abbandona nella periferia una parte di se stessa E’ solamente quando siamo capaci di condividere che ci arricchiamo veramente » (Papa Francesco, 26 agosto 2013). La condivisione materiale e « immateriale », spirituale non implica un impoverimento: si tratta di un arricchimento reciproco. E poichè la maggior parte di noi qui presenti è certamente nella situazione di colui che è riconosciuto essere una persona ben istruita, abbiamo quindi un compito cui assolvere, che non è di secondaria importanza. Se ci rifiutiamo di trasmettere ciò che, d’altra parte, ci è stato donato da chi è stato ricco prima di noi — i nostri genitori, i nostri maestri e professori, e altri ancora — falliremo drammaticamente la nostra missione. La cultura, l’arte di vivere insieme, l’amore per il bene comune, persino l’amore per la saggezza, tutto ciò morirà se noi lo teniamo per noi. In risposta al magnifico tema scelto dall’UNESCO per il forum delle ONG del settembre 2013, la Santa Sede sottolinea che la trasmissione e la condivisione sono gli obiettivi cardine in materia di educazione al fine di formare i cittadini del mondo di domani, secondo gli orientamenti del 37/C4 e del C5.

2) Valorizzare il contributo dei GIOVANI.

La mia seconda osservazione consiste nel dire che noi siamo fortunatamente forzati a trasmettere e condividere le nostre ricchezze culturali ai giovani. Un « forum » è il luogo dove tutti si incontrano, dove si discute di cose importanti, e dove tutti hanno il diritto di partecipare al dibattito. Ogni voce umana è una voce che deve essere ascoltata.  I giovani e i vecchi costruiscono il futuro dei popoli. I giovani perché essi porteranno la storia in avanti, le persone anziane perché esse trasmettono l’esperienza e la saggezza della loro vita. La voce dei più giovani ci ricorderà sempre ciò che dobbiamo dare loro, ma anche, ciò che conta altrettanto, ciò che possono dare a noi.

La speranza di vita del giovane è più grande di quella del vecchio. Quelli che oggi sono giovani domani avranno la nostra età. La responsabilità della città incomberà su di loro. Da oggi,  essi sono una risorsa per il bene comune : l’impegno sociale e culturale dei giovani è un fenomeno maggiore, d’altrettanto grande importanza che il loro triste coinvolgimento, forzato, in tutte le guerre che davastano il pianeta. La voce delle giovani generazioni arriva, a nostro avviso, come un richiamo all’ordine o come un appello alla responsabilità.  In modo semplicistico varie persone accusano spesso la gioventù di essere « idealista ». Bisogna piuttosto rallegrarsene. Siamo tutti d’accordo sul fatto che lo Stato debba garantire « la più grande pace nella più grande giustizia », ed è quindi l’ideale che essi ci ricordano. L’ideale dovrebbe avere soltanto lo statuto inoffensivo dell’irreale ? Le nostre città sono imperfette. Ne siamo troppo spesso insoddisfatti. Il desiderio giovanile del migliore dei mondi non resiste evidentemente alla critica. Noi non possiamo, in ogni caso, accontentarci di mezze-giustizie e di mezze-paci. I nostri bambini, o nipoti, non hanno voglia di accontentarsene. L’ascoltarli ci permetterà di dare loro ancora più generosamente tutto ciò che possiamo dare loro — rendendoli capaci di far fruttare un’eredità e, un giorno, di dare più ancora se stessi. Le loro aspettative, la loro energia e la loro intelligenza sono un fermento per una nuova cultura di pace e di vero sviluppo. Una vera cultura universale nel senso etimologico del termine : l’uno che va verso l’altro (unus versus alio vel aliis). I giovani sono capaci di vivere nell’amore e d’essere solidali con tutti i loro fratelli nell’umanità, senza alcuna discriminazione.

È la ragione per la quale la Santa Sede
sostiene i programmi dell’UNESCO per i giovani. Essa appoggia fortemente il tema del forum dei giovani di questa 37aconferenza generale « I giovani e l’inclusione sociale : impegno civico, dialogo e sviluppo delle competenze », e queste tematiche nella strategia a medio termine del 37 C/4.

3) Il dialogo come COMUNICAZIONE, in seno ad una COMUNITÀ

La mia terza osservazione deriva dalla seconda. Noi ci incontriamo tutti in seno al forum della città. Ma bisogna parlare qui di un « fatto » o di una speranza? I greci e i romani, e mille altri, avevano il loro forum — un africano ci ricorderà qui la funzione dell’albero della palabra. Noi abbiamo davvero il nostro? I greci e i romani parlavano tra loro. Noi parliamo molto di « comunicazione », ci sforziamo di risolvere i problemi di comunicazione, e questo dimostra, certamente, che la comunicazione è in pericolo. È facile chiacchierare ma non è facile parlare. Non è più facile, a dire il vero, di vivere insieme all’interno di una società, anche se essa vuole fondarsi sui più alti valori che essa conosce. Perciò, sono poco importanti le difficoltà, dalle quali è sufficiente prendere realisticamente le distanze. Noi siamo animali detentori della parola, detentori della ragione e fatti per l’esistenza « politica » — l’esistenza all’interno di una città. E come avviene, ci tocca di perpetuare, ma anche talvolta di creare, le condizioni necessarie perchè tutti parlino con tutti. Una città contemporanea può essere poliglotta. Essa vuole d’altra parte parlare meglio diverse lingue al posto che una sola. Noi dobbiamo in ogni caso avere una lingua in comune e in comune a tutti, e servircene intelligentemente. Capisco il mio prossimo se capisco e parlo la sua lingua. Questo naturalmente non avviene da sè. Ma chiacchiereremmo meno su di una certa mancanza di comunicazione tra generazioni se giovani e vecchi si interessassero più a cosa essi vogliono dire piuttosto che al come dei loro stili o delle loro piccole differenze linguistiche. A questo riguardo, la Santa Sede sostiene ancora una volta gli obbiettivi della strategia a medio termine dell’UNESCO, descritti nel 37 C/4, soprattutto quelli dello sviluppo sociale inclusivo e della sua articolazione con il dialogo interculturale e della riconciliazione delle culture. Tuttavia, sarebbe auspicabile che i legami con il dialogo interculturale e la riconciliazione delle culture siano anche affrontati, esaminati nel loro rapporto linguistico e culturale.

Chi dice comunicazione deve aggiungere « comunità ». Perchè se possiamo comunicare è perchè abbiamo in comune un’uguaglianza metafisica e perchè apparteniamo alla comunità umana. Non è sufficiente, pertanto, porre un’uguaglianza metafisica. Ciò che abbiamo in comune, in effetti, deve essere « vissuto in comune ». « No man is an island, nessun uomo è un’isola ». Il poeta — John Donne — diceva così a suo modo ciò che la tradizione filosofica ci ha detto con il proprio, e si tratta qui di una sorta di fatto bruto, o di un dato sul quale sarebbe assurdo voler ritornare. Una cosa in ogni caso deve essere detta con insistenza : noi non siamo condannati a esistere dentro le comunità, ma fatti per vivere umanamente insieme, e per creare sempre le condizioni che rendano questo « essere uomini insieme » il più felice possible. Jean-Paul Sartre diceva senza rifletterci che « l’inferno, sono gli altri ». Una città umana degna di questo nome non sarà mai un paradiso. Ma poichè  l’altro, quale che sia il suo volto, è allo stesso tempo un altro me stesso, un prossimo e un amico potenziale, occorre che coloro che vengono dopo di noi sappiano che noi non abbiamo adempiuto a tutti i nostri doveri, e che essi devono quindi avere la generosità di perdonarci, per potere allora accettere una missione : fare delle loro città dei luoghi dove regna una certa felicità d’esistere insieme come persone umane. L’inclusione sociale dei giovani, l’eliminazione della povertà, lo sviluppo sostenibile conducono alla felicità dell’insieme della città, quindi all’edificazione della pace. La Santa Sede appoggia a questo riguardo gli sforzi degli Stati e del Segretariato dell’UNESCO che vanno in questo senso.

Oggi dunque, posso parlare al plurale e parlare di « noi », noi tutti con le nostre ricchezze da dare, noi tutti con le nostre povertà e anche le nostre domande. Questo « noi » non è un aggregato o un collage. Esso forma ciò che chiamiamo, senza spesso pensarci troppo, un « corpo sociale ». Un corpo è un essere vivente, forte di un passato e che avrà un futuro. Questo passato, tale lo riceviamo oggi, tale lo dobbiamo far vivere e tale sarà ulteriormente dato ai più giovani di noi, non è mai lettera morta : perchè esso ha un presente e un futuro, bisogna dire che viviamo sotto la custodia di una « tradizione vivente ». La tradizione che ci permette di abitare le nostre città in pace non è qualche cosa che esiste fuori di noi. La manteniamo in vita trasmettendola, non custodendola per una sola generazione o un breve periodo, e sapendo, dopo tutto, che a ogni giorno basta la sua pena.

4) Pace e dimensione sociale e politica delle religioni.

Vengo dunque al mio ultimo punto : le realtà che ci preoccupano : educazione, vita della città, pace, e altre ancora, non possono portare dei frutti a meno che le nostre preoccupazioni siano propriamente spirituali. Dire ciò, significa credere che tutto ciò che tocca le nostre esistenze s’inscrive dentro il movimento più profondo e più ampio di una vita in cerca di senso e in tensione verso il proprio sviluppo e il proprio compimento. Quando parliamo delle nostre condizioni di vita, finiamo sempre, ed è bene così, per interessarci al movimento profondo che fonda la nostra esperienza, vale a dire alla nostra vita spirituale. Una vita spirituale che non è un privilegio o la scelta di alcuni, ma una esperienza offerta a tutti. Lo spirituale dopo tutto ha la sua dimensione sociale. Come il bene comune sarà onorato e promosso, nel contesto tecnico delle nostre culture, se queste si privano dell’irrimpiazzabile contributo delle tradizioni religiose. « Le religioni hanno una funzione comune e insostituibile nell’ambito « tecnico » delle culture contemporanee al fine che il bene comune terrestre sia completo ed equilibrato »[1]

Nel solco del magistero pontificio[2] ma anche all’ascolto di filosofi come Habermas[3],  vi propongo di tenere conto anche del ruolo pubblico che il cristianesimo (ma anche tutte le religioni) può giocare per la promozione dell’essere umano e per il bene comune di tutta l’umanità, nel pieno rispetto e promozione della libertà religiosa e civile di tutti e di ciascuno, senza confondere in alcun modo la Chiesa Cattolica, come tutte le religioni, e le comunità politiche.

In conclusione, una tale capacità di formare il futuro di società pacifiche cresce dove è consentita un’esperienza della trascendenza. Quando gli uomini capiscono che il mondo è molto più della terra che essi lavorano con i loro concetti tecnici ed economici, allora i loro orizzonti stretti si allargano sulle questioni che li preoccupano. Noi dobbiamo renderci conto che il vero realismo può apparire solamente quando l’uomo è preparato a vedersi a partire dal futuro, un futuro che lo trascende.  

Su inspirazione di questo razionalismo rispettoso dello spirituale, e fiducioso di un’apertura al mistero che consideri la ragione la sua migliore alleata, vorrei qui concludere, esprimendo l’augurio che sempre di più, qui all’UNESCO, possiamo interrogarci in maniera feconda sulle condizioni di costruzione dello spazio democratico, sul ruolo positivo delle tradizioni religiose a questa costruzione, e sul contributo specifico di queste tradizioni per tessere il progetto umano e politico del vivere-insieme in democrazia.

Così facendo, noi continueremo a mettere
la persona, il suo sviluppo integrale e il bene comune al cuore delle nostre riflessioni e delle nostre azioni e l’UNESCO sarà fedele alla sua definizione, alla sua vocazione, alla sua missione al servizio dell’umanità dell’uomo.

Grazie della vostra amabile attenzione

Monsignor Francesco Follo

*

NOTE

[1] Card. Jean Daniélou, L’orazione problema politico, p. 38. 

[2] Cfr, per esempio, Benedetto XVI, Deus Caritas est, Veritas in Caritate, Spe salvi, i diversi discorsi del Viaggio apostolico negli Stati Uniti d’America, e Papa Francesco (J.M.Bergoglio/Papa Francesco, Noi come cittadini noi come popolo. Verso un bicentenario in giustizia e solidarietà 2010-2016, Milano-Città del Vaticano, Jaca Book – Editrice Vaticana, 2013; Enc. Lumen Fidei, n  25 e 55 e i discorsi di Rio de Janeiro in occasione delle Giornate Mondiali della Gioventù, 23 – 28 luglio 2013). 

[3] Jürgen Habermas, con il quale l’allora Card. Ratzinger dialogò il 19 gennaio 2004, il testo degli interventi dei due relatori si può trovare in Etica, religione e stato liberale, Brescia, Morcelliana, 2005.

In un altri testo molto conosciuto (Fede e sapere, in Id., Il futuro della natura umana, Torino, Einaudi, 2002), Jürgen Habermas invita ad andare oltre l’equivoco dell’opposizione tra religione e modernità e chiama a porre di nuovo la questione del rapporto tra la religione e la politica nelle società a regime democratico.

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ZENIT Staff

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