Christ Pantocrator in the Cathedral of Cefalù

Gesù Pantocratore, Cefalù / Wikimedia Commons - José Luiz Bernardes Ribeiro, CC BY-SA 4.0

Non si può amare la divinità di Cristo senza amare prima la sua umanità

Commento al Vangelo della XIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) — 5 luglio 2015

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Questa Domenica il Signore ci accompagna a Nazaret, la sua Patria. Si tratta di una tappa fondamentale sul cammino per diventare e rimanere cristiani. Come lo fu per i suoi discepoli, che in quel sabato fecero l’esperienza dello scandalo che covava nel cuore mimetizzato nell’iniziale stupore.

Essa deve partire dalla conoscenza di noi stessi. Per questo, come accadde a San Paolo, Dio ha messo anche nella nostra carne una “spina” che ci umilia; ognuno di noi sa di che cosa si tratta. Qualcosa che ci impedisce di “montare in superbia”, e che il nostro ego non riesce a sopportare.

E’ tuo marito che ogni giorno distrugge la tua immagine di marito? E’ tua moglie che si sta buttando via tra rimpianti e nevrosi? E’ tuo figlio che non ti ascolta e si è infilato in un brutto peccato?

E’ la difficoltà di comunione con le persone chiamate con te ad evangelizzare, in parrocchia, nella missione, a catechismo? Sei tu, il tuo carattere iroso, la tua debolezza psicologica? E’ un fatto accaduto molti anni fa che ti rapisce il pensiero e ti impedisce la felicità?

Bene, sappi che non puoi essere cristiano se ogni giorno non giunge alla tua vita “un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarti”. Ogni giorno, hai capito bene. Ogni giorno un problema, un’incomprensione, un’umiliazione. Non ti piace? Neanche a San Paolo piaceva, e ha pregato perché Dio allontanasse da lui quella spina, ma niente. Non aveva capito che quella era la sua salvezza.

Non c’è altra via che conduca al Cielo, fratello. E sai perché? Perché esiste il peccato che abita nella carne. E nella carne esso deve essere, ogni giorno, perdonato! Non scandalizzarti per favore, c’è una punta di orgoglio che si muove in noi dinanzi ai problemi, alle sofferenze, alle ferite della carne e dell’anima, e lì e solo lì possiamo davvero incontrare il Signore e il suo amore.

E’ necessaria dunque la spina che Dio stesso permette che si conficchi nella nostra carne per far uscire il pus che ci avvelena il cuore e la mente. Solo così potremo umiliarci e chiedere aiuto a Cristo, che si è fatto carne proprio per incontrare le nostre ferite e guarirle con la sua misericordia.

San Paolo lo aveva sperimentato, per questo ci annuncia oggi che la Grazia di Dio ci basta! Che non deve cambiare la nostra storia, la famiglia, il lavoro, la situazione economica e la nostra salute. Così com’è è perfetta perché, come accadde al Popolo di Israele nel deserto, ci fa conoscere la nostra debolezza perché possiamo abbandonarci all’amore di Dio. Perché la “sua potenza si manifesta pienamente nella nostra debolezza”. Fratelli, “quando siamo deboli, è allora che siamo forti!”.

Un cristiano, infatti, ha scoperto e accettato di essere un peccatore, e che senza Cristo non può far nulla. Per questo, in un mondo che si vanta delle proprie presunte capacità, si “vanta delle angosce sofferte per Cristo”. Si vanta della sua debolezza di fronte alla storia e alla croce che essa presenta perché in lui dimora Cristo, che lo fa entrare dove tutti cercano di scappare. Dalla Verità!

Ecco perché oggi la Chiesa ci accompagna a Nazaret. Come i discepoli, anche noi abbiamo fatto l’esperienza di essere stati raggiunti dallo sguardo di Gesù che ci ha colti al lavoro, in famiglia, persino sui luoghi del peccato. Ed è stato impossibile non seguirlo, non lasciarsi attrarre da quell’Uomo che non si è scandalizzato di noi.

E anche noi abbiamo ascoltato le parole di Gesù e contemplato le sue opere senza capire, come storditi e con il cuore indurito, interrogandoci sulla sua identità. Ci siamo impauriti nella tempesta, dubitando e mormorando. Ma, come i discepoli, siamo ancora con Lui. E oggi è Nazaret, la sua casa, la sua famiglia, i suoi amici, la sua patria.

Qui possiamo conoscerlo meglio perché qui succede qualcosa d’imprevisto; ancora una volta le parole di Gesù scuoteranno le nostre esistenze, tranceranno certezze, illumineranno, formeranno. Nazaret, infatti, è l’esperienza dello scandalo. Lo stesso che proviamo di fronte alla nostra e all’altrui debolezza.

Fratelli, dobbiamo passare con Gesù nel “disprezzo” che noi stessi proviamo per noi stessi, nella nostra casa, nella nostra famiglia, perché così spesso non siamo quello che vorremmo essere. Così come non lo sono la moglie, il marito, i figli. Dobbiamo passare per una purificazione profonda, che fa male all’orgoglio…

Imbattendosi nelle sue parole, la patria di Gesù, la carne della carne di Lui, si ribella, si agita, si stupisce e fa domande sino a precipitare nello scandalo. “Skandalon” significa letteralmente “pietra che fa inciampare”. Gesù, per la sua patria, per amici e parenti, era come un sasso capitato tra i piedi, e tutti vi erano inciampati. 

Per questo, la profezia è come frustrata e il potere che Gesù aveva manifestato nei villaggi vicini e perfino in terra pagana, si infrange sui bastioni della carne. Quel soffermarsi solo sui tratti somatici, quel controllo doganale dei documenti anagrafici, quel rimestare nei ricordi per restarne imprigionati, quei criteri soffocati nell’evidenza della ragione piantata sulla superficie, impediscono a Gesù di operare prodigi:  “E’ uno come noi – dicono –. La sua pretesa non può essere che una presunzione” (Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù). 

E’ lo scherzo che gioca la carne perché è incapace di distendere lo sguardo oltre le apparenze, è meschina nel domandarsi “da dove gli venga” la sapienza e il potere per operare i prodigi, incapace di aprirsi alla meraviglia che accoglie umilmente il mistero che può salvare. Affetti, amori, passioni, la melma che muove la carne è vanità di vanità che il vento porta via in un baleno.

E’ accaduto a Nazaret come succede nelle nostre case, nelle nostre famiglie: gelosie, invidie, competizioni, speranze, progetti, regole e leggi che definiscono i legami di sangue; anche quando gli affetti sembrano più puri, il veleno della corruzione ne mina la limpidezza e la gratuità. Ne siamo tutti testimoni, anche i bimbi più piccoli ne fanno esperienza quotidiana.

Le domande che si scambiavano a Nazaret di fronte a Gesù, sono le stesse che sorgono nei nostri cuori e li chiudono in faccia al potere di Cristo, manifestazioni della superbia di chi non sa fermarsi sull’uscio della propria ragione e della carne riconoscendone i limiti, per accogliere la novità che sgorga dalla storia visitata e redenta da Dio.

Siamo imprigionati nell’orgoglio che ci fa credere alle convinzioni acquisite dall’abitudine; non esiste nulla da sperare e credere al di fuori di quello che abbiamo visto con gli occhi della carne: il marito con cui sono sposata da “trent’anni” non può cambiare; nel figlio che ho “allevato” e ho visto ribellarsi e chiudersi, non può celarsi il mistero dell’opera prodigiosa di Dio, il lavorio interiore della sua sapienza capace di strapparlo all’inganno, nei tempi e nei modi che solo Lui sa. 

E allora, quanta “meraviglia”, la stessa di Gesù, quando ci ritroviamo rifiutati e disprezzati. E quanti accanimenti per ovviare a questo, per indurre gli altri ad accettarci, a riconoscerci ruolo e identità. Quanti genitori legano i figli sino a soffocarli, spesso subdolamente; o sono incapaci di correggere per paura di essere rifiutati; quanti coniugi vivono in un continuo compromesso che accumula fascine al fuoco del risentimento; e quante esplosioni e incendi, e devastazioni, e matrimoni distrutti, e figli sbandati.

La carne non può superare il suo limite, e questo è il peccato, il fallimento del progetto d’amore nel quale siamo stati creati. Per questo Gesù dirà che “chi non odia suo padre, sua madre, il marito, la moglie, i fratelli, i figli, la patria, persino la propria vita, non può essere suo discepolo”, non può seguirlo. Chi fonda la sua vita sulla carne vivrà la maledizione della corruzione, non vedrà il bene da nessuna parte, sarà cieco e senza discernimento, e per que
sto inciamperà, si scandalizzerà. 

Proprio come scandalo dei “compatrioti” di Gesù che pensano d’aver capito, di sapere, mentre sperimentano la maledizione di chi non vede oltre il fatto biologico, e il bene, l’amore misericordioso di Dio, scivola via. Come succede a noi, ogni giorno. 

Per questo Gesù dirà a Nicodemo che “occorre rinascere dall’alto”, entrare in un nuovo seno, che è quello della Chiesa, il fonte battesimale. Per immergersi nell’acqua del battesimo si deve odiare tutto quello che si frappone come un ostacolo a Cristo, alla vita secondo lo Spirito.

Il Signore passa anche oggi nella sua patria che siamo noi, e ci chiama: non possiamo essere se non seguendo il Signore. Non possiamo amare se non odiando la schiavitù della carne. Essa è redenta e sanata, liberata e santificata da Cristo. L’incarnazione fa nuova la carne, la conduce alla Croce e la innalza sino al Cielo. E’ il cuore della fede della Chiesa, la risurrezione di Cristo e la risurrezione della carne debole e peccatrice, ogni giorno.

Ma essa non avviene senza la Croce, scandalo e stoltezza per chi non vuol ascoltare, salvezza per chi accoglie l’annuncio del Signore, perché “questa è la compiuta fierezza dell’amore: non si può amare la divinità di Cristo senza amare prima la sua umanità” (Hadewijch di Anversa), che è entrata nella morte, cominciando nei lunghi trent’anni vissuti nel totale nascondimento di Nazaret. 

Solo partendo dal mistero di un Dio che scende sino alla più banale e povera quotidianità dell’uomo, nella sua città, lavorando come lui, accettando il lavoro più umile che era quello del “carpentiere”, riservato a quel tempo a chi non possedeva la terra, i discepoli hanno cominciato ad imparare la “sapienza della Croce”, l’amore che smaschera l’inganno della “sapienza della carne”.

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Antonello Iapicca

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