Non è l'età che ci rende persone

I bambini hanno maggiore capacità di sopravvivenza ma vengono considerati meno importanti

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di Carlo Bellieni
membro della Pontificia Accademia pro Vita, Segretario del Comitato di Bioetica della Società Italiana di Pediatria

ROMA, venerdì, 2 marzo 2012 (ZENIT.org) – Leggiamo sul Journal of Medical Ethics che due studiosi italiani dall’Australia propongono “l’aborto dopo la nascita”, cioè l’uccisione del neonato nei casi in cui è permesso l’aborto. Certo, qui si parla di un intervento attivo per provocare la morte, ma non ci stupisce poi così tanto, perché nei fatti, quando si parla di decisioni di vita o morte, il neonato viene già trattato in molti Paesi (per ora non in Italia) con criteri etici diversi dai criteri con cui si considera l’opportunità di offrire cure ad un adulto, anche se l’intervento attivo è fortunatamente escluso.

I criteri differenti consistono nel sospendere le cure su una base probabilistica di morte (o  di malattia futura) legati all’età concezionale cioè al tempo passato dal concepimento (o al massimo su indicazioni prenatali) e non sulla base di una serie di accertamenti approfonditi da effettuare dopo la nascita per avere la certezza di una prognosi infausta, e sul tenere in particolar conto il parere dei genitori che secondo vari studi pesa molto sulla decisione di soccorrere attivamente o meno il bambino.

Detto questo, è chiaro che c’è un limite all’intervento, legato allo sviluppo del bambino, che sotto una certa età non sopravvive e legato al verificare che le cure si mostrano inefficaci. Ma è bene sapere che le stime di sopravvivenza fatte in base all’età dal concepimento non ci dicono se “quel” bambino sarà tra coloro che possono farcela, e che in realtà al momento della nascita non abbiamo nessuno strumento certo per poterlo dire.

Sono appena uscite le linee-guida dei medici svizzeri per la rianimazione dei neonati: cosa fare con quelli che sono così piccoli da essere a rischio di non farcela, o di avere severi handicap? Le linee-guida pubblicate sullo Swiss Medical Weekly, così sintetizzano: se il bimbo nasce fino 22 settimane e 6 giorni dal concepimento, si danno solo cure palliative; poi, fino a 23 settimane e 6 giorni, “generalmente cure palliative”; quindi, fino a 24 settimane e 6 giorni, “la costellazione individuale di fattori prognostici prenatali aggiuntivi può essere utile nel processo decisionale con i genitori”.  A 25 settimane, in genere si prevede la terapia intensiva, tranne che nei casi in cui “i dati prenatali siano sfavorevoli e i genitori siano d’accordo”.

In queste linee-guida vediamo come si dia un peso importante al parere dei genitori ma soprattutto che si danno cure palliative a bambini che la letteratura scientifica mostra avere possibilità di farcela. Infatti a dicembre è uscito sul Journal of the American Medical Association (a cura del Human Development Neonatal Research Network) uno studio sulla reale sopravvivenza dei neonati di 22-25 settimane (quelli di cui sopra).

A differenza di studi precedenti, questa ricerca fatta su oltre 10.000 bambini, toglie dal computo dei dati di sopravvivenza quelli degli ospedali che “a prescindere” non assistono in maniera attiva i piccolissimi, e inseriti insieme agli altri alterano le statistiche (se un ospedale che rianima tutti ha una sopravvivenza del 30%, messo insieme a 10 ospedali che quei bambini non li rianimano, finisce che la sopravvivenza media crolla quasi a zero!).

E i dati USA sono questi: sopravvivenza a 22 settimane: 27,1%; a 23 settimane: 41,8%, a 24 settimane: 60,4%: vi sembrano dati di sopravvivenza nulla o bassissima? Quanti adulti dopo un ictus o un infarto vorrebbero una prognosi di questo tipo! E nessuno pensa (finora) di non soccorrere chi ha un infarto (o di soccorrerlo discutendone prima con i parenti).

Si noti bene che anche le percentuali di bambini che sopravvivono con malattie gravi, per quanto presenti, non sono così disastrose, a quanto emerge dallo studio (e comunque il fatto che un bambino ha un handicap non deve essere mai motivo di sospendergli le cure).

Invitiamo a questo proposito tutti i medici a considerare questi dati, in particolare i medici cattolici: se la possibilità di vita è zero, le cure sono accanimento indebito, ma quando la possibilità di farcela è non più una chimera, come abbandonare il neonato senza un tentativo di salvarlo?

Paradossalmente – anche non considerando quanto detto finora – possiamo dire che stupisce il nostro stupore e indignazione per una richiesta che quantitativamente aumenta i limiti dell’aborto, come se eliminare una vita innocente dopo la nascita fosse più grave che eliminarla prima che nasca.

Semmai sono da considerare bene i dati della sopravvivenza dei prematuri, ben diversi da quanto avveniva 30 anni fa, perché proprio sulla possibilità di sopravvivere si basa per la legge 194 il limite massimo per abortire (art 6 e 7).

Comunque, non è la rianimazione alla nascita l’unico campo in cui il bambino neonato viene trattato talora con criteri diversi da come viene trattato un adulto. Basti pensare al trattamento del dolore e al diritto al benessere in ospedale, argomenti su cui abbiamo di recente pubblicato diversi lavori.

Così come ha fatto la neonatologa canadese Annie Janvier, che in uno dei suoi studi sul diverso trattamento del neonato rispetto al bambino più grande conclude: “I neonati e in particolare i prematuri sono sistematicamente svalorizzati in confronto a pazienti più grandi che hanno una prognosi uguale o anche peggiore”. Chiediamo solo questo: che per ogni essere umano si usi lo stesso criterio, perché in sostanza, non è l’età che ci rende “persone”.

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ZENIT Staff

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