"Non è cristiano chi non ha scoperto di non avere alcun diritto per essere nella Chiesa"

Commento al Vangelo della XX Domenica del Tempo Ordinario – Anno A

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Lo “scandalo” dei giudei spinge Gesù verso i pagani, ed è un segno che fonderà la missione “Ad gentes” della Chiesa. Non sono le pratiche esteriori, fossero anche della tradizione ebraica, a definire e a qualificare la fede, ma il cuore.

E’ quello che vi esce, infatti, che contamina l’uomo e gli sbarra le porte del Tempio per celebrare il culto e avere un rapporto con Dio. E’ il peccato che lo fa pagano, impuro, e quindi infelice, condannato a vivere senza supplica, lode e benedizione. Senza Dio.

Per far comprendere ai farisei e ai dottori che il loro cuore era come quello dei pagani, e che erano pecore perdute come ogni altro uomo, Gesù “esce” dal gregge di Israele, per spingersi sino a quello pagano della “zona di Tiro e Sidone”, situata a nord-ovest della Galilea.

Gli abitanti, come quelli delle nostre città, vi adoravano i Baal e le Ashere, attraverso riti che, per ottenere la fertilità (i figli a la carte), si tingevano di aspetti sessuali e orgiastici. 

Gesù scende in territorio nemico, tra i cananei che hanno da sempre insidiato Israele, tra i sette popoli pagani, immagine dei sette peccati capitali.

Gesù “esce” per entrare nel “cuore” dell’uomo e “guarirlo”, perdonando ogni peccato e ricreandolo come figlio di Dio nel nuovo Israele che è la Chiesa.

Gesù “esce” come sposo dalla stanza nuziale dove ha sposato il suo Popolo quale primizia della nuova umanità riscattata, “esce” cioè dai confini di Israele per cercare la sposa adultera e idolatra, pagana. 

Gesù lascia le novantanove pecore nel recinto e si getta nel mondo, per riprendersi quella perduta; ogni uomo infatti, di qualunque cultura e di qualunque religione sia, è da sempre pecora sua, creata in Lui dall’amore del Padre.

E’ una, perché solo Lui conosce personalmente il “cuore” di ciascuno; per questo la Chiesa per annunciare il Vangelo non ha bisogno di cercare chissà quali stratagemmi mondani; non servono slogan e programmi pastorali per inculturare la fede.

La donna cananea ha gridato, punto. E Gesù era lì, per ascoltare il suo grido, punto. Questo è il cuore dell’evangelizzazione! Quel grido non era cananeo, ma umano e straziato dall’inganno del demonio.

Era il grido di un cuore malato, che solo Gesù poteva “guarire”. Non certo vestendosi come i cananei, tagliandosi i capelli come loro, o, peggio, accompagnandolo ai loro tempi.

Gesù non ha guarito il cuore della cananea con la cultura, ma iniziandola alla fede, di cui è immagine il dialogo serrato, aspro e sincero, aperto con lei. Parla, sta in silenzio, risponde, esattamente come la Chiesa faceva con i catecumeni, per giungere alla fede “grande”, ovvero adulta, che l’ha spinta a “prostrarsi” davanti a Lui, immagine del battesimo.

Gesù era lì per lei, come la Chiesa è nel mondo per ogni “donna” pagana, tu ed io, che genera figli nel peccato.

Abbiamo di certo, tutti, una “figlia straziata dal demonio”, situazioni e relazioni sfregiate dal peccato; il cuore, ingannato e umiliato dalla menzogna.

Ma proprio nelle “Tiro e Sidone” pagane in cui abbiamo scelto di vivere, viene oggi Gesù. Viene per noi, e nulla resta come prima. Viene e desta la memoria della bellezza originaria, il ricordo del Paradiso. “Esce” per indurre anche noi a “uscire” da noi stessi, come quella donna, e incamminarci nella conversione.

Che cos’è la conversione? Il cammino di questa donna. Esso comincia da quando Gesù si fa accanto a lei, e cambia tutto: quella terra pagana diventa all’improvviso straniera, e che il demonio esiste e “tormenta” sua figlia, dal di dentro, dal suo “cuore”…

E il dolore nascosto nell’illusione di potercisi abituare, prorompe in un grido: “Pietà di me, Signore, figlio di Davide!”.

Ma qui accade l’impensabile, il momento in cui tante anime capricciose e infantili disperdono il grido innescato dalla fede e lo trasformano in imprecazione e bestemmia: alla sua preghiera Gesù oppone il silenzio, e “non le rivolge neanche una parola”. E’ durissimo. Eppure questo silenzio è il cuore del Vangelo di questa domenica.

Per entrare nel silenzio di morte della nostra anima Gesù deve fare silenzio, e zittire ogni altra voce. Gli apostoli, come sempre incapaci di leggere la situazione, lo consigliano di “rimandare” quella donna così molesta, che “ci viene dietro gridando!”. 

Ma invece è proprio quello che vuole Gesù! Il bisogno profondo che, spesso, le parrocchie, come i genitori, non sopportano, e vorrebbero che la gente pregasse e si convertisse quando tutto va bene, non nel pericolo…

Che stoltezza, che incapacità di ascoltare il gemito dei peccatori… Mentre è proprio qui che comincia l’evangelizzazione, nei silenzi che piegano il cuore al dolore del mondo per averne compassione.

Gesù, infatti, tace per riempire ogni silenzio dell’unica Parola capace di salvare davvero l’uomo. Come lo Sposo del Cantico dei Cantici, tace e si nasconde per destare il desiderio di Lui e attirare dietro a sé, insegnando ad essere discepolo; per farsi cercare, implorare, amare. Tace per innescare la fede.

E non solo, ma getta in faccia a quella donna una verità amara, che ad orecchi moderni sembra discriminazione: “Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele!”.

Ebbene, proprio questo è l’incrocio decisivo per la sua vita, immagine che segna il passaggio da una religiosità infantile e naturale, alla fede adulta, che spera contro ogni speranza! 

Quella donna poteva a questo punto lasciare ancora libertà all’orgoglio dell’uomo vecchio, e credere all’ennesima menzogna del demonio, oppure ascoltare e accettare la realtà, umilmente, senza scappare dalla realtà. 

Non scappa, e si schiude un orizzonte tanto cercato quanto inimmaginabile. Nelle parole di Gesù non c’era un rifiuto, tutt’altro. Egli, infatti, non dice che non è stato mandato a lei, ma che è stato mandato solo alle pecore perdute della casa di Israele. Che voleva dirle? 

Proprio quelle parole ottengono in lei l’effetto sperato. Come un bagliore di dinamite demoliscono il muro dell’orgoglio: la donna avanza ancora nel cammino di fede, “si fa più avanti” e “si prostra” dinanzi a Gesù! 

La Verità su stessa l’aveva spogliata di ogni presunzione; essendolo per nascita, l’evidenza l’aiutava ad accettare di essere pagana e, per questo, senza diritti.

E resta lì, al suo posto, dove però scopre che, in fondo, non c’è molta differenza tra lei e le pecore perdute di Israele; non sono ormai anch’esse lontane dal gregge? Non vivono come lei? E poi, non era per caso anche il padre Abramo un arameo errante, prima di ascoltare la voce di Dio, come sta accadendo a lei in quel momento? 

Sì, c’è speranza, Gesù non l’aveva esclusa, anzi… L’aveva accompagnata nella realtà per scoprire la Verità che in essa è celata: l’amore infinito di Dio, al di là di ogni razza e cultura. L’amore al peccatore, annunciato da quella frase dura: “Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini”.

“E’ vero”, ci sto, sono d’accordo, risponde la donna. Aveva capito l’amore che stava dentro quelle parole. Non a caso, infatti, Gesù ha detto “cagnolino” e non “cane”, come abitualmente gli ebrei designavano i pagani! 

Ha usato il diminutivo “kynarion” che significa “cucciolo”, e un cucciolo ha bisogno di una “cuccia”, di un posto dove stare per crescere. Non può essere indipendente, non sa come procurarsi il cibo… Un “cucciolo” ha bisogno di sua madre…

Ecco, chiamando i pagani “cagnolini”, Gesù aveva annunciato un kerygma meraviglioso, aprendo per loro le porte della sua casa, della Chiesa. Altro che disprezzo e discriminazione, tutto il contrario: Gesù ha sempre uno sguardo pieno di misericordia, perché “non sanno quello che fanno”…

Hanno bisogno di una “cuccia”, di una iniziazione
cristiana che li conduca alla fede “grande”, grazie alla quale accostarsi al banchetto dei “figli” e “mangiare le briciole”.

Passando per la porta stretta dell’umiltà che accetta di essere l’ultima, la donna cananea accoglie con gioia la Buona Notizia di Gesù: fantastico, sono un “cucciolo”, c’è posto anche per me. Non importa dove, sotto la tavola va benissimo, non lo meritavo; e poi, ne basta una “briciola” di quel pane, la sua misericordia è capace di salvare mia figlia.

Questa è la “fede grande”, la fede adulta della “donna”: le basta essere nella sala delle nozze e partecipare con “rendimento di grazie” al banchetto celeste, lei che era stata un’adultera…  

Per questo la donna cananea è immagine di ogni pagano che, accolta la predicazione del Vangelo, sta “uscendo” da se stesso per divenire “discepolo” di Cristo; e non si può seguirlo senza la stessa l’umiltà.

“Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi”: non è cristiano chi non ha scoperto di non avere alcun diritto per essere nella Chiesa; non basta essere prete, missionario o sposato con una bella famiglia.

Certo, per noi è molto più difficile. Chi è convinto di essere un pagano nel cuore e nei costumi? Ma dai, vado a messa, prego, aiuto in parrocchia… Allora, se ti dico che sei un orgoglioso lo accetterai, vero? Accetterai che sei molto peggio di tua moglie, di tuo marito, di tuo figlio… Dei politici e del peggior terrorista che sta squartando i cristiani.

Come? Non lo pensi? Beh allora significa che devi ancora camminare molto, e convertirti. Non hai la “fede grande”, punto. Sei ancora ingannato, non ti sei umiliato davanti a Cristo, non lo hai implorato di “avere pietà di te”, perché credi che i problemi stiano fuori di te, e non nel tuo cuore…

Forse esigi di sederti a “tavola”, credi di avere i diritti dei “figli”, e invece sei peggio di un “cane” randagio, sempre in cerca di un po’ di cibo rancido nei cassonetti del pensiero mondano. Accettalo, accettiamolo: nostra figlia, la nostra anima, è malata!

Umiliamoci allora, e bussiamo alla Chiesa perché ci conduca da Cristo! Ascoltiamo la predicazione, nutriamoci del perdono e dei sacramenti, preghiamo e scrutiamo la Scrittura. Così, aiutati dai fratelli, In essa impareremo ad accettare i silenzi fecondi con cui Dio ci ammaestra per strapparvi ai capricci, e ad accogliere umilmente le sue parole di verità.

Nulla di quello che oggi ci fa immondi è più grande della misericordia di Dio. Nulla ci può rendere indegni del suo amore. Nulla tranne la superficialità della superbia.

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Antonello Iapicca

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