Non c'è pace senza perdono

Una riflessione sul Magistero Pontificio per vivere e garantire la pace

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Quando Paolo VI nel 1968 diede vita alla Giornata mondiale della Pace, disse: “Sarebbe Nostro desiderio che poi, ogni anno, questa celebrazione si ripetesse come augurio e come promessa – all’inizio del calendario che misura e descrive il cammino della vita umana nel tempo – che sia la Pace con il suo giusto e benefico equilibrio a dominare lo svolgimento della storia avvenire”.

Da allora ogni anno, il messaggio per la pace che il Papa offre ai cattolici, agli uomini di buona volontà (Lc 2,14) e al mondo, è un’eco della buona notizia portata da Gesù, il “Principe della pace”.

In questo articolo, mi vorrei soffermare sul Messaggio della XXXV Giornata della pace scritto dal Beato Giovanni Paolo II, (primo gennaio 2002) perché ha posto in essere una questione nuova che non è stata sufficientemente approfondito.

Difatti esso contiene un’innovazione teologica, cioè un approfondimento ulteriore nella comprensione di questo tema cristologico e perciò centrale nell’annuncio cristiano.

Un messaggio che dovrebbe essere rivalutato come sviluppo teologico del magistero, una parola profetica che rende ancora più autorevole il magistero della Chiesa, segno di come essa voglia essere, in obbedienza al suo Signore, “serva e ministra della riconciliazione e della pace”. Tale “innovazione” è contenuta nel titolo: “Non c’è pace senza giustizia e non c’è giustizia senza perdono”.

Già l’incipit del messaggio è stupendo e mette in evidenza tutta l’umiltà del Beato quando come Papa fa riferimento alle vittime dell’attentato alle torri gemelle dell’11 settembre e scrive: “Quanto è recentemente avvenuto, con i terribili fatti di sangue appena ricordati, mi ha stimolato a riprendere una riflessione che spesso sgorga dal profondo del mio cuore, al ricordo di eventi storici che hanno segnato la mia vita, specialmente negli anni della mia giovinezza”.

Giovanni Paolo II ci mostra come il cammino di conversione è sempre “un già ma non ancora”, è veramente una kenosis infinita anche quando si è Papa.

mysterium iniquitatis nella storia degli uomini: le violenze, i vari terrorismi, le guerre sono manifestazioni del potere mortifero maligno che seduce l’umanità e, alienandola nell’idolatria, le fa scegliere vie di guerre e di morte.

Da sempre la storia umana è stata contrassegnata (insieme ad opere di santità), da ingiustizia, violenza e guerra  contraddicendo il progetto di Dio che è giustizia e pace per gli uomini.

Uomini che sono amati dal Signore in maniera unica, un amore che riconosce la libertà anche di peccare, un amore folle e infinito. La Chiesa sa che “quando non si riconosce la fondamentale fraternità che sgorga dall’unica paternità amante di Dio, quando si contraddice la comunione alla tavola dell’umanità, quando la filosofia dell’egoismo prevale su quella dell’amore”, come affermava l’allora cardinale Ratzinger, allora “odio, violenza e sopraffazione diventano i dinamismi delle relazioni tra gli uomini”.

All’interno della logica della banalità del male, è possibile leggere l’attacco terroristico del’11 settembre – un crimine efferato contro l’umanità e, allo stesso tempo una strumentalizzazione aberrante dell’immagine di Dio.

Temi profondamente analizzati nel Messaggio di Giovanni Paolo II.

Allora, che fare? Anche qui la risposta della fede continua a essere la stessa di sempre: occorre certo pregare per la pace dono di Dio, invocarla affinché l’agire dello Spirito santo immetta nei nostri pensieri, nei nostri cuori non solo la pace, ma che diventiamo operatori di pace.

Per Giovanni Paolo II, tutto questo non è più sufficiente. Il Beato nel Messaggio ci indica una via nuova della riflessione teologica che è in perfetta linea con il paradosso del Vangelo che ci chiede di credere all’incredibile, di sperare nell’insperabile, di amare il nemico.

Il Papa afferma che affinchè si affermi la vera pace, si deve dare vita alla profonda relazione tra giustizia e perdono; giustizia e perdono che crediamo essere concetti antitetici.

La proposta del Beato può apparire paradossale perché propone l’estensione del principio del perdono dal piano dei rapporti soggettivi e interpersonali a quello politico e sociale, indicando alla politica il compito di pensare e cercare vie di convivenza nonviolente e più umane: in altre parole, il perdono non è solo virtù privata, ma come istanza comunitaria, espressa in “atteggiamenti sociali e istituti giuridici”.

Questo è la grande novità del cammino indicato da Giovanni Paolo II, e qui sta l’innovazione della sua riflessione teologica: non solo la pace è “opera della giustizia”, come amava ripetere soprattutto il recente magistero ispirato al profeta Isaia (32,17), ma la pace deve essere coniugata con la giustizia che ingloba in sé anche il perdono.

Ecco il cuore del Vangelo, ecco la “differenza” cristiana. Gli uomini e tanti cristiani, credono che la pace sia frutto della giustizia e che tutto si esaurisca in questo dittico; il passo ulteriore che ci fa fare Giovanni Paolo II, è di  scendere in profondità e rivelarci con l’intelligenza della fede che la giustizia per essere veramente tale, per poter divenire piena, feconda, generatrice di pace, deve declinare anche il perdono.

Quindi abbiamo un trittico: pace, giustizia, perdono. Afferma il Beato che il “principio del perdono” è per il cristiano “giusto in sé” perché si rifiuta di vedere nel peccatore solo un peccato fatto persona, si rifiuta di identificare il male con la persona che lo compie e quindi di oggettivizzare  l’uomo riducendolo al suo peccato.

Proprio questo “principio del perdono” ci deve far ripensare al concetto di giustizia retributiva, oggi tanto in voga. Le situazione di conflitto endogeno ed esogeno, come in Medioriente, in Africa, in Asia caricate da decenni di odio e di violenza, di azioni e reazioni violente, possono trovare una  speranza di pace solo attraverso un’apertura verso un radicale ristabilimento della giustizia e solo attraverso un atto di perdono dei crimini commessi.

Solo attraverso una giustizia piena e il perdono si posso aprire le porte di un futuro di riconciliazione e di pace: altre vie non esistono!

Profeticamente il Papa affermava: “il perdono comporta un’apparente perdita a breve termine. É mentre la violenza opta per un guadagno a scadenza ravvicinata, ma prepara a distanza una perdita reale e permanente”.

Queste parole non sono espressione di un ottimismo superficiale, non sono frutto di ingenuità, ma è la visione cristiana delle vie per arrivare alla pace.

Secondo Giovanni Paolo II, per ogni cristiano il cammino della pace presuppone ogni giorno nelle situazioni difficili o meno in cui siamo chiamati a vivere,  un “necessario confrontarsi con la parola di Dio contenuta nelle Sante Scritture, ascoltare il messaggio sempre nuovo che fuoriesce dal Vangelo e combattere per prestargli obbedienza”.

Osserva il beato: “Il ministero che svolgo al servizio del Vangelo mi fa sentire vivamente il dovere, e mi dà al tempo stesso la forza, di insistere sulla necessità del perdono”.

Come Chiesa dobbiamo rendere grazie al Signore per questo magistero audace e profetico che ci e’ stato dato dal successore di Pietro, e che questa sua profezia diventi per noi combattimento e preghiera affinché questa autentica via di pace che è il perdono possa tradursi in gesti concreti nel quotidiano vivere e operare in compagnia degli uomini evitando di confondere peccato e peccatore.

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Carmine Tabarro

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