Nell’affettività né censure né paure

Solo considerando la persona alla luce di Dio si comprende il dono della castità

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ROMA, lunedì, 26 ottobre 2009 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito alcuni articoli apparsi sul numero di Paulus, dedicato a “Paolo il lavoratore”.

 

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Troppo spesso i media si occupano, in modo non sempre corretto e opportuno, dell’affettività del sacerdote, dipingendola perlopiù come necessariamente frustrata (o deviata), senza mai però il coraggio di un’indagine scientificamente seria e antropologicamente fondata. In realtà, la sfera affettiva è la più delicata e complessa per ogni essere umano e, probabilmente, anche quella nella quale il peccato delle origini, con la sua concupiscenza di agostiniana memoria, ha reso più complesso utilizzare un linguaggio, come quello affettivo, di per sé splendido ed eloquente. L’esperienza umana risulta essere particolarmente generosa nell’evidenza che non v’è corrispondenza tra la radicale domanda umana di pienezza e totalità, e l’esperienza possibile di essa. Anche nel caso di assenza di particolari problematiche in ordine alla relazione psico-affettiva, l’io si ritrova costantemente di fronte all’esperienza del proprio limite e della non commensurabilità tra la propria domanda di felicità e la realizzabile risposta. Tale sproporzione può essere risolta in differenti modi: può diventare frustrazione generativa di disagio, può essere censurata e divenire comunque origine di disorientamento, o può essere accolta come una dimensione irrinunciabile dell’uomo, perché legata alla sua struttura naturale. In quest’ultimo caso la sproporzione è occasione di domanda su di sé, sull’altro e sulla realtà.

Integrità della persona

Il realismo a cui la frequentazione di Cristo e della Chiesa ci ha abituati impone di riconoscere come il cammino verso l’integrità – maturità, compiutezza, equilibrio – dell’uomo sia un percorso fatto di tappe, non necessariamente in ordine crescente e, comunque, dipendente da fondamentali facoltà quali l’intelligenza, la volontà e la libertà; e nondimeno anche dalle differenti circostanze socioculturali in cui la persona si trova a vivere. L’integrità è dunque sempre una conquista e un cammino da rinnovare ogni giorno, facendo leva sul meglio di se stessi e guardando a chi in questo cammino ha compiuto passi che possono essere ripercorsi con profitto. Tale consapevolezza non ci lascia sgomenti di fronte alla frequente esperienza dell’«uomo in frantumi», secondo un’espressione di Lewis, esperienza che non di rado si presenta in tutta la sua drammaticità e che non trova facilmente spazi di ascolto, confronto, comprensione in un ambito socioculturale fondato prevalentemente su un’idea astratta di uomo, ma che censura l’uomo reale, imperfetto e limitato. Tra gli uomini, nella fatica dell’equilibrio affettivo, c’è anche il sacerdote che – fedele alle promesse battesimali e sacerdotali – è impegnato nell’imitazione di Colui nel cui nome è stato battezzato e in persona del quale agisce. La virtù della castità è intimamente legata a quella della temperanza, che mira a far condurre dalla ragione le passioni e gli appetiti della sensibilità umana (cfr. CCC n. 2341). Il sacerdote avrà cura di trovare tutti i mezzi necessari per giungere alla pratica della virtù della castità, in particolare: la conoscenza di sé, l’obbedienza ai comandamenti divini, l’esercizio delle virtù morali e la fedeltà alla preghiera come luogo primario di custodia del proprio io. Nel proprio rapporto con Dio, il sacerdote rimane stabilmente ancorato alla certezza che la castità rimane un dono di grazia (cfr. CCC n. 2345), frutto dello Spirito Santo: è lo Spirito Santo che dona di imitare la purezza di Cristo, Signore e Maestro. Esiste dunque uno spazio tra la volontà del singolo e la realizzazione di essa: è lo spazio dell’azione divina che ciascuno di noi è chiamato a riconoscere con semplicità di cuore.

Integralità del dono

C’è un’evidenza primaria con cui ogni uomo è chiamato a misurarsi: l’esistenza del proprio io. Contemporaneamente ciascuno sperimenta come tale esistenza non sia dipesa dalla propria personale volontà, ma abbia origine al di fuori di sé. Qualunque tipo di risposta si possa dare a questa duplice evidenza, resta inoppugnabile il fatto che l’uomo si scopra come dono che ha in altro (o Altro) la propria origine. La memoria di essere la “conseguenza” di un atto gratuito, sostiene considerevolmente la libertà umana nel tentativo vero, anche se talora impacciato, di evitare di impossessarsi di sé e dell’altro. Siamo consapevoli che l’oggettività di tale gratuità è esistenzialmente sperimentabile solo a determinate condizioni di rapporti parentali educativi psico-affettivi, nei quali la persona abbia l’esplicita testimonianza (che diviene certezza) di essere voluta, amata e sostenuta. Tuttavia le condizioni perché una verità diventi ragionevolmente sperimentabile per il soggetto, dipendono appunto dall’esperienza e non dalla verità stessa. In altre parole, la fatica nello sperimentare all’origine della propria esistenza una gratuità donata, non postula necessariamente l’inesistenza di tale gratuità, ma ne indica solo la laboriosità del riconoscimento. L’uomo, capace di guardare se stesso e gli altri in questa maniera, si scopre carico di stupore per la grandezza di ciò che egli è e di ciò che gli altri sono. Tale stupore lo colloca in un atteggiamento di profondo rispetto della propria persona e degli altri, che esige uno spazio di contemplazione.

Ragionevolezza della castità

Allora risulta evidente come la castità non sia un’esperienza avulsa dalla comune esperienza dell’uomo, ma sia il nome autentico di quello spazio di libertà e rispetto indispensabile tra gli individui. Non è “anormale” non creare corrispondenza univoca tra le proprie pulsioni e il proprio comportamento, dunque non è “anormale” vivere la castità. Non misconosciamo talune correnti di pensiero che sostengono l’inevitabile frustrazione nascente dall’impossibilità di soddisfare tutte le pulsioni umane, né misconosciamo la parzialità della loro idea di uomo: non è secondo ragione ridurre la persona a un fascio di pulsioni, per di più di ordine psicosessuale. Ci pare di poter affermare che l’io sia molto di più delle sue pulsioni e che l’eventuale non corrispondenza tra i propri desiderata e ciò che è dato di vivere non possa essere ridotta alla sfera psicosessuale, ma sia un elemento inevitabile e dunque costitutivo dell’esperienza umana. Il cristianesimo chiama questa non corrispondenza piena “limite” o “peccato”, evidenziando la strutturale fragilità della condizione umana e contemporaneamente tracciando percorsi di reale e appagante riscatto che chiama misericordia. Per chi ha incontrato Cristo e ha scoperto la propria esistenza amata e salvata da un Dio che si è fatto uomo, la castità non è un frustrante obbligo morale, ma piuttosto la gioiosa risposta a una vocazione di vita piena, realmente umana, in cui i rapporti tra le persone sono riverbero, pallido ma autentico, dell’unico rapporto con il Mistero.

Salvatore Vitiello

BOX – Come struzzi o come aquile?

Chi non prega somiglia ad uno di quegli uccelli pesanti che non riescono a librarsi per aria: se riescono a spiccare il volo, eccoli ricadere subito verso il basso e finire, raspando, con la testa sotto terra; eppure sembra che ciò faccia loro piacere. Chi prega, invece, assomiglia a un’aquila intrepida, che si libra in aria e sembra volersi avvicinare al sole.

San Giovanni Maria Vianney

BOX – Preti, ma con stile!

Il bel volume Stile sacerdotale, curato dal rogazionista Leonardo Sapienza (LEV 2009, pp. 201, € 11) presenta «il modello del Curato d’Ars, san Giovanni Maria Vianney, che può suggerire ai sacerdoti di oggi un dolce e austero stile nuovo, un autentico stile sacerdotale». Per a
iutare a vivere questo speciale Anno, il presente volume offre uno scritto del magistero di Giovanni XXIII il quale, per ricordare il centenario della morte del Curato d’Ars e il 55° anniversario della sua ordinazione presbiterale, stende l’enciclica Sacerdotii nostri primordia, per mettere in rilievo alcuni aspetti della vita sacerdotale e per presentarne un modello ben riuscito: il Curato d’Ars. Seguono gli scritti di Paolo VI, di Giovanni Paolo II e alcuni brani di san Giovanni Maria. Uno stile di vita – quello del prete – esigente e scomodo, mai alla moda eppure sempre attuale. Perché non richiede di “apparire”, ma di “essere”: la segreta identità dell’individuo si rivela nei comportamenti e nel linguaggio. Certo non si può esaurire il giudizio di una persona sulla base di questi elementi, perché l’ipocrisia riesce a oscurare e ingannare come una cortina fumogena. Tuttavia è inevitabile: azioni e parole mostrano quel che si è. Se questo è valido per chiunque, a maggior ragione vale per un sacerdote, che ha scelto come stile di vita quello di essere “modello” del gregge a lui affidato. Tra i tanti pensieri del Curato d’Ars segnaliamo il seguente: «Se un prete dovesse morire a forza di lavorare e di faticare per la gloria di Dio e la Salvezza delle anime, non sarebbe poi un male» (p. 95). Poco oltre, nella medesima pagina, dice: «Sant’Alfonso de’ Liguori ha fatto voto di restare sempre occupato. Noi [parroci] non abbiamo bisogno di fare questo voto». Speriamo proprio che la meditazione attenta e amorosa delle pagine di questo volume possa risvegliare nei sacerdoti la fierezza della propria vocazione, e nei laici la simpatia e il rispetto verso questi fratelli che, pur fra tante debolezze, si sforzano di essere nel mondo i testimoni autentici e gli “specialisti” di Dio. Il santo Curato d’Ars lo fu fino all’ultimo istante della sua esistenza.

Vito Salanitri

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ZENIT Staff

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