“Il mio augurio è che si possa vivere insieme, pur nella diversità dei giorni, l’unico mistero della incarnazione di Gesù, della sua venuta in mezzo a noi. E che la celebrazione di questa solennità possa essere anche per il nostro Paese, che accoglie fedeli delle Chiese ortodosse, un segno anche di come la fede può aiutare a vivere insieme, può favorire l’integrazione, diffondere un clima di fraternità e aiutare a costruire un mondo dove la convivenza non solo sia possibile, ma sia realtà”.
È l’augurio che monsignor Ambrogio Spreafico, vescovo di Frosinone-Veroli-Ferentino e presidente della Commissione Cei per l’ecumenismo e il dialogo, rivolge a nome della Chiesa cattolica italiana ai 1,7 milioni di immigrati di fede ortodossa presenti nel nostro Paese che celebrano le festività natalizie il 6 gennaio (la Vigilia) e il 7 gennaio (la Natività). Se infatti il Natale è ormai alle spalle per il mondo occidentale, per la maggior parte degli ortodossi – il patriarcato di Mosca, Serbia, Ucraina, Bielorussia, Georgia, Macedonia, Montenegro – il Natale verrà celebrato il 6 e il 7 gennaio. La differenza – spiega il Sir – è dovuta all’utilizzo del calendario giuliano da parte della Chiesa ortodossa. Il patriarcato ecumenico di Costantinopoli (comprendente la Grecia), la Chiesa ortodossa bulgara e quella romena, però, si rifanno al calendario gregoriano e celebrano le festività natalizie il 24 e il 25 dicembre.
“Gli angeli cantarono Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace sulla terra agli uomini che egli ama”, scrive mons. Spreafico. E aggiunge: “Dare Gloria a Dio non significa solo onorarlo ma costruire la pace tra di noi. Questa presenza di tanti fratelli ortodossi nella nostra terra e nel nostro Paese è anche un segno di come insieme, cristiani uniti nella stessa fede in Gesù, possiamo costruire un mondo pacifico in mezzo a tante guerre”.
I fedeli ortodossi presenti in Italia sono per lo più immigrati e festeggeranno quindi il Natale lontano dalle loro case e spesso dalle loro famiglie. L’invito del vescovo è quello di aprire le porte per un abbraccio di fraternità. “Questo già esiste – sottolinea – e anche la Chiesa cattolica italiana ha aperto le porte delle sue chiese in tante città dove ci sono comunità ortodosse significative per permettere a questi nostri fratelli di celebrare le loro liturgie. Sono segni belli che ci invitano ad andare incontro agli altri e fare in modo che nella lontananza dalla loro terra e dai loro paesi, possano trovare in noi braccia aperte che accolgono e che incoraggiano. Anche loro vivono gli stessi tempi difficili che viviamo noi”.
Il responsabile per l’ecumenismo della CEI ricorda infine come le tradizioni liturgiche delle Chiese ortodosse e cattolica sono molto unite tra loro e “la liturgia è un segno di profonda unità tra le nostre Chiese”. Un cammino verso la comunione piena tra le Chiese che “ci vede tutti partecipi a cominciare da Papa Francesco”.