Mons. Francesco Follo - Foto © Servizio Fotografico-L'Osservatore Romano

Mons. Follo: Riconoscere con stupore e gratitudine i doni del Signore

XXVIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C –  13 ottobre 2019

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Rito romano

XXVIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C –  13 ottobre 2019

2 Re 5, 14-17; 2Tm 2, 8-13, Lc 17, 11-19

La fede in Cristo che guarisce e salva

 

Rito ambrosiano

VII Domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore

Is 66, 18b-23; Sal 67 (66), 2-5. 7-8; 1Cor 6, 9-11; Mt 13, 44-52

Ai popoli è rivelata la salvezza

 

  • Nulla ci è dovuto.

In continuità con quella di domenica scorsa, la Liturgia della Parola di oggi ci propone il tema della fede, sottolineandone la dimensione di gratuità e di gratitudine. Come già era emerso nella parabola del “servo inutile”: non possiamo stabilire un rapporto di “dare e avere” con Dio, al quale dobbiamo rendere omaggio nella misura in cui Lui fa qualcosa di buono per noi.

Il samaritano che torna da Cristo per ringraziarlo per la guarigione dalla lebbra, va da Gesù con il cuore pieno di gratitudine per una guarigione ricevuta gratuitamente. “Quest’uomo  non si accontenta di aver ottenuto la guarigione attraverso la propria fede, ma fa sì che tale guarigione raggiunga la sua pienezza tornando indietro ad esprimere la propria gratitudine per il dono ricevuto, riconoscendo in Gesù il vero Sacerdote che, dopo averlo rialzato e salvato, può metterlo in cammino e accoglierlo tra i suoi discepoli” (Papa Francesco).

Non basta essere guariti per essere salvati, occorre ritornare da Cristo e guardarlo con occhi di fede, e ringraziarLo. La “fede” autentica e adulta, infatti, si manifesta nella “gratitudine”, l’ “eucarestia” che fa del lebbroso e Gesù un’unica carne, capace di donarsi senza riserve. Ad essa  approda l’unico tra i dieci che, dopo aver sperimentato l’amore di Gesù che lo ha “guarito”. “Torna indietro”, si converte, e passa dalla schiavitù alla libertà, dalla supplica alla “lode”. E’ l’incontro decisivo: non si vergogna di “prostrarsi” davanti a Gesù mostrandosi nella sua povertà; riconosce in Lui non solo il Maestro ma anche l’unico e autentico Sacerdote che, dopo averlo “guarito”, può certificare la “salvezza” del suo cuore. Solamente chi ha scoperto di essere stato un “samaritano”, eretico, malato e lontano, può donarsi con “fede” a Cristo, che lo ha amato sino a farsi per lui “straniero” sulla Croce, per “alzarlo” nella sua risurrezione e farlo “andare” in una vita nuova. E noi, siamo convertiti tornando da Cristo?

Senza la salvezza la salute non serve a niente, perché non dà una vita che dura. Andiamo da Cristo eucaristicamente, consegnandoci a Lui perché ci “salvi” e ci renda liberi per amare. Chiediamo al Signore di guarire il corpo e l’anima, perché siamo non solo guariti ma salvati e condotto alla alla “terra” della libertà e della pace. Questa “terra” non è di questo mondo; tutto il disegno divino eccede la storia, ma il Signore lo vuole costruire con gli uomini, per gli uomini e negli uomini, a partire dal luogo e dal tempo in cui loro vivono e che Lui stesso ha dato.

 

 

 

2) Chi chiede con fede, ottiene.

Nei brani presi dal 2 libro dei Re (prima lettura) e dal Vangelo di questa Domenica è descritta la miracolosa guarigione di malati di lebbra, una malattia che nell’Antico Testamento ed al tempo di Gesù era considerata la più grave delle malattie tanto da rendere la persona “impura[1]” e da escluderla dai rapporti sociali. Il lebbroso era uno scomunicato dalla vita e dall’umanità. La legislazione  (cfr Lv 13-14) riservava ai sacerdoti il compito di dichiarare la persona lebbrosa, cioè impura; e spettava ugualmente al sacerdote constatarne la guarigione e riammettere il malato risanato alla vita normale.

Ora immagiamo di essere al posto dei discepoli accanto a Cristo e guardiamo arrivare questi malati, che implorano: “Gesù, Maestro, abbi pietà di noi” (Lc 17, 14).

Cosa vediamo? Scorgiamo dei miseri spettri sofferenti, che tutti scansano, separati da tutti, che fanno schifo a tutti, ed è grazia se se hanno un po’ di pane, una scodella per l’acqua, il tetto di una topaia per nascondersi, e a fatica spiacciano le parole da labbri gonfie, tumefatte.

Cosa ascoltiamo? Sentiamo questi morti viventi che chiedono la salute, la guarigione, il prodigio al Maestro, perché sanno che è potente in parole ed opere. Lui è per loro l’ultima speranza, l’ancora a cui appendere la loro disperazione. Come potrebbe Gesù scansarsi da loro come fanno gli altri? Come può il Suo cuore non ascoltarli? Come potrebbe il Salvatore non esaudirli con la sua amorosa onnipotenza? E compie il miracolo.

Cosa facciamo? Seguiamo l’esempio di san Francesco d’Assisi, come egli lo riassume all’inizio del suo Testamento: “Il Signore dette a me, frate Francesco, d’incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo” (Fonti Francescane, 110). In quei lebbrosi, che Francesco incontrò quando era ancora “nei peccati” – come lui dice – era presente Gesù; e quando Francesco si avvicinò a uno di loro e, vincendo il proprio ribrezzo, lo abbracciò, Gesù lo guarì dalla sua lebbra, cioè dal suo orgoglio, e lo convertì all’amore di Dio.

Ecco la vittoria di Cristo, che è la nostra guarigione profonda e la nostra risurrezione a vita nuova, senza la lebbra del peccato che ci è completamente perdonato.

            Quindi, un tale prodigio (la guarigione ed il perdono) rappresenta il segno della rinnovata amicizia di Dio con la sua creatura più cara: l’essere umano. Questo miracolo fa di noi non solo dei guariti ma degli evangelizzatori: Gesù fa di noi degli annunci viventi.

 

3) Un miracolo sotto condizione? L’obbedienza non basta, ci vuole amore e riconoscenza.

A differenza di altre guarigioni, Gesù, in questa circostanza, prima ancora di aver sanato i dieci lebbrosi, ordine loto di andare dai sacerdoti (la legge mosaica prescriveva di presentarsi al sacerdote per la verifica di un’eventuale purificazione dalla lebbra), il che testimonia come tutti e dieci, almeno inizialmente, dimostrarono una profonda fiducia in Gesù (E mentre essi andavano, furono guariti –Lc 17,15). Viene spontaneo chiedersi perché Gesù, al termine del racconto, sembra che attribuisca la fede al solo Samaritano (“Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce; e si gettò ai piedi di Gesù per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò:“Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono?” – Lc 17, 18)), l’unico che abbia dimostrato un sentimento di gratitudine per il bene ricevuto. In realtà, il suo (del Samaritano) ringraziamento non fu un semplice gesto di cortesia, ma un autentico “atto di fede” nella potenza salvifica di Dio, manifestata gratuitamente in Cristo Gesù nei confronti di una persona malata e per di più straniera. Lui era ritornato da Gesù per ringraziare e per “rendere gloria a Dio”.

Questi nove lebbrosi si incontrarono con Cristo, ma videro in lui solo un’opportunità per la guarigione del loro corpo, per poi dimenticare tutto.

Invece il lebbroso samaritano, l’estraneo dal popolo eletto, intuì in Cristo il Volto buono del Mistero che lo aveva salvato e rese lode a Dio, e accolse Cristo come l’avevano accolto Zaccaria, papà di Giovanni il Precursore, la Madonna, la Vergine Madre del Figlio di Dio indicato da Giovanni, Simeone, il vecchio dal cuore così giovane che riconobbe Cristo in un bambino portato dal tempio da una povera coppia, che aveva i soldi solo per due colombi per riscattare il figlio, come prescriveva la legge biblica.

Il lebbroso samaritano è ognuno di noi che accoglie Cristo e mette la propria vita nella Sua vita. Quest’uomo purificato dalla lebbra aveva capito che la salvezza è poi la relazione con lui, sorgente della vita, non l’essere mondato dalla lebbra, quindi ritornò[2] da Salvatore. La salvezza non è semplicemente l’essere mondati, guariti. La salvezza è molto di più, non è la buona salute, perché quella presto o tardi se ne va. La salvezza è un’altra cosa, è la relazione con lui, tornare a lui, glorificare Dio a gran voce.

Iniziando la nostra lode in ginocchio come fece questo lebbroso (che “vedendosi guarito, tornò indietro lodando[3] Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi[4] per ringraziarlo[5]” – Lc 17, 15), preghiamo i cantici di Zaccaria, Maria Vergine e Simeone.

Il Benedictus[6] (che si recita alle Lodi del mattino) è il cantico dell’attesa, della rinnovata accoglienza di Dio e accogliere Dio è per l’uomo un impegno e un programma. Nel Magnificat[7] (che si recita a Vespro) è il cantico del rendimento di grazie per il compimento del mistero di Cristo: l’aver accolto Dio fa prorompere nell’inno di grazie. Nel Nunc dimittis[8] (che è pregato a Compieta) è anch’esso un cantico di ringraziamento per il dono ricevuto, con cui nel scendere della sera il fedele fiduciosamente si abbandona tra le braccia di Dio: l’uomo si scioglie in un atto di puro abbandono a Dio.

La nostra preghiera inizia facendo nostra la preghiera dei lebbrosi, si perfezioni assumendo l’atteggiamento del lebbroso samaritano guarito e grato, infine diventi “lavoro” facendo uso, se possibile, della Liturgia delle Ore. In libro che contiene questa liturgia è chiamato anche Breviario e è giusto considerarlo un lavoro non solo dei monaci e delle monache e dei preti. Esso è un lavoro che santifica il Cristiano e la Chiesa e rende gloria a Dio. A questo “lavoro” di lodo e di intercessione sono particolarmente chiamate le Vergini consacrate: “Ricevi il libro della preghiera della Chiesa. Non smettere mai di lodare il tuo Dio né di intercedere per la salvezza del mondo” (Rituale della Consacrazione delle Vergini n. 27). Queste donne lavorano nel mondo non solo per guadagnare di che vivere, ma lavorano per il mondo soprattutto con la preghiera di intercessione. Ci sono di esempio anche perché “lavorano” con la preghiera, testimoniando che la preghiera è lavoro,

il più efficace, perché ci ottiene l’energia per compiere il bene.

Il lavoro è preghiera, partecipazione all’opera di Cristo che redime il mondo, obbedienza alla parola di Dio che questo mondo ha creato e salva.

La preghiera è lavoro, non fuga dal mondo e dalla fatica della vita, ma opera a servizio del mondo intero, perché Dio, unico Signore della storia, voglia trasformarlo nel suo Regno, come Gesù ha promesso e ci ha insegnato a chiedere.

 

 

 

 

Lettura spirituale

Incontro di San Francesco d’Assisi con il lebbroso,

raccontato da Tommaso da Celano

in Vita prima di San Francesco d’Assisi, nn. 348-349

 

 

 “Poi, come vero amante dell’umiltà perfetta, il Santo Francesco si reca tra i lebbrosi e vive con essi, per servirli in ogni necessità per amor di Dio. Lava i loro corpi in decomposizione e ne cura le piaghe virulente, come egli stesso dice nel suo Testamento: ‘Quando era ancora nei peccati, mi pareva troppo amaro vedere i lebbrosi, e il Signore mi condusse tra loro e con essi usai misericordia’. La vista dei lebbrosi infatti, come egli attesta, gli era prima così insopportabile, che non appena scorgeva a due miglia di distanza i loro ricoveri, si turava il naso con le mani. Ma ecco quanto avvenne: nel tempo in cui aveva già cominciato, per grazia e virtù dell’Altissimo, ad avere pensieri santi e salutari, mentre viveva ancora nel mondo, un giorno gli si parò innanzi un lebbroso: fece violenza a se stesso, gli si avvicinò e lo baciò. Da quel momento decise di disprezzarsi sempre più, finché per la misericordia del Redentore ottenne piena vittoria.

Quand’era ancora nel mondo e viveva vita mondana, egli si occupava dei poveri, li soccorreva generosamente nella loro indigenza e aveva affetto di compassione per tutti gli afflitti. Una volta, che aveva respinto malamente, contro la sua abitudine, poiché era molto cortese, un povero che gli aveva chiesto l’elemosina, pentitosi subito, ritenne vergognosa villania non esaudire le preghiere fatte in nome di un Re così grande. Prese allora la risoluzione di non negar mai ad alcuno, per quanto era in suo potere, qualunque cosa gli fosse domandata in nome di Dio. E fu fedele a questo proposito, fino a donare tutto se stesso, mettendo in pratica anche prima di predicarlo il consiglio evangelico: Dà a chi ti domanda qualcosa e non voltar le spalle a chi ti chiede un prestito (Mt 5,42).”

 

 

Preghiera

 

Padre di tutti gli uomini,

per te nulla è troppo piccolo.

Nessun cuore per te è troppo duro

perché tu non l’ami.

Tu hai voluto aver bisogno di tutti e come,

noi uomini, non potremo aver bisogno degli altri?

Insegnami a scoprire le meraviglie

 di ogni uomo e donna.

La bellezza, la bontà, lo splendore, la luce

anche nel viso più triste e tormentato è la tua luce.

Fammi scoprire che non c’è persona

che non abbia nulla da dirmi o insegnarmi.

Fammi capire da quanti umili lavori

in tanti luoghi dipende la mia vita quotidiana.

Ciascuno dipende da tutti

perché l’umanità sia completa

e il corpo di Gesù tuo Figlio sia intero.

Attendo questa pienezza con lo sguardo

rivolto a tutti coloro che ancora verranno.

Benedici tutti, o Padre,

e permettimi di benedirli con te.

Amen.

 

[1] Puro, impuro sono per noi nozioni morali. Nella Bibbia, come in tutte le altre religioni, sono invece nozioni assai vicine a quelle di tabù o di sacro. Si è “impuri” quando si entra a contatto con una potenza misteriosa, che può essere buona o cattiva. Bisogna allora praticare un rito che “purifica”, per sfuggire al contagio di tale potenza. Certe malattie, per esempio, possono rendere l’uomo impuro perché si pensa che, in tal modo, egli sia sotto l’influenza di demoni. Al contrario, il contatto con Dio può rendere “impuro”. Così appena qualche tempo fa, si poteva leggere persino nei libri liturgici cattolici questa rubrica: “Dopo la comunione, il sacerdote “purifica il calice” (con un lino chiamato “purificatoio”). Questo calice era, insomma, diventato “impuro” (in senso morale) per aver contenuto il sangue di Cristo? No! Era divenuto “sacro”, perché era entrato nell’ambito divino e la sua “purificazione” era un rito di “desacralizzazione” che permetteva di farne, di nuovo, un certo uso profano. La donna che ha avuto un rapporto sessuale deve anch’essa “purificarsi”. Ci si può domandare se non si tratti, anche qui, di un rito di “desacralizzazione”: poiché è entrata in contatto con Dio, sorgente di vita, donando la vita, o comunque entrando nella sfera sessuale ad essa legata, deve passare attraverso un rito per poter riprendere di nuovo la sua esistenza profana. La questione del puro e dell’impuro è molto complessa e assai discussa tra gli specialisti.

Le semplificazioni rischiano sempre di falsare la realtà. Tuttavia possiamo ritenere almeno due punti: 1- le nozioni di puro e impuro non hanno spesso alcun carattere morale, ma sono piuttosto imparentate alle nozioni di tabù e di sacro; 2- tuttavia, talvolta, queste stesse parole, assumono un senso morale; la confusione tra questi due sensi (purificazione cultuale e purificazione morale) è senza dubbio in parte responsabile del discredito gettato sulla sessualità: là dove la Bibbia parlava di impurità  in senso “sacro” o cultuale, noi abbiamo spesso interpretato impurità in senso “morale”. (cfr E. Charpentier, Per leggere l’Antico Testamento, Roma 1981).

Per una chiara, aggiornata e sintetica presentazione dell’argomento si consiglia di leggere “purezza-impurità” nel Dizionario critico di Teologia (Roma 2006 – [Paris 2007 3ème édition]) pubblicato sotto la direzione di Jean-Yves Lacoste.

[2] Nel testo greco c’è epistrèfo che vuol dire voltarsi verso qualcuno non solo verso qualcosa, convertirsi.

[3] Nel testo latino c’è “magnificans”= “magnificando”, nel testo greco c’è doxàzon = “glorificando”.

[4] Letteralmente dal greco si dovrebbe tradurre così: “cadde sul volto ai suoi piedi”.

[5] Nel testo greco c’è eucharistèo che vuol dire ringraziare, fare eucaristia. E’ nell’eucaristia che noi viviamo la fede e l’incontro con Lui che ci ha amati e salvati.

[6] Cantico di Zaccaria – Lc 1, 68-79:Benedetto il Signore Dio d’Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo,

e ha suscitato per noi una salvezza potente nella casa di Davide, suo servo,

come aveva promesso 
per bocca dei suoi santi profeti d’un tempo:

salvezza dai nostri nemici,
e dalle mani di quanti ci odiano.

Così egli ha concesso misericordia ai nostri padri
e si è ricordato della sua santa alleanza,

del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre, di concederci, liberati dalle mani dei nemici,

di servirlo senza timore, in santità e giustizia 
al suo cospetto, per tutti i nostri giorni.

E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo
perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade,

per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati,

grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio, per cui verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge,

per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre 
e nell’ombra della morte

e dirigere i nostri passi sulla via della pace”.

[7] Cantico della Beata Vergine – Lc 1, 46-55: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,

perché ha guardato l’umiltà della sua serva. D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.

Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente
e Santo è il suo nome:

di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono.

Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;

ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;

ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote.

Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia,

come aveva promesso ai nostri padri,
ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre”.

[8] CANTICO di SIMEONE – Lc 2,29-32:
“Ora lascia, o Signore, che il tuo servo
vada in pace secondo la tua parola;

perché i miei occhi han visto la tua salvezza preparata da te davanti a tutti i popoli,

luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele”

***
Mons. Francesco Follo è Osservatore Permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi.

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Archbishop Francesco Follo

Monsignor Francesco Follo è osservatore permanente della Santa Sede presso l'UNESCO a Parigi.

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