Mons. Francesco Follo - Foto © Servizio Fotografico-L'Osservatore Romano

Mons. Follo: La ragione della nostra letizia: la Croce di Cristo

Rito Romano – IV Domenica di Quaresima – Anno B – 11 marzo 2018

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Rito Romano – IV Domenica di Quaresima – Anno B – 11 marzo 2018
2Cr 36,14-16.19-23; Sal 136; Ef 2,4-10; Gv 3,14-21
Rito Ambrosiano
Es 33, 7-11a; Sal 35; 1Ts 4,1b-12; Gv 9,1-38b
Domenica del cieco – IV di Quaresima
1) Contemplare Cristo in Croce.
Il cammino quaresimale è come l’esodo degli ebrei, che per quarant’anni pellegrinarono nel deserto. In quel lungo periodo loro furono fortificati dalla prova e vissero un tempo particolare di purificazione e di grazia. Inoltre sperimentarono il dono della benevolenza del Signore che, camminando davanti a loro – come colonna di fumo, di giorno, e di fuoco, di notte – li condusse alla Terra promessa.
Gli Israeliti furono pellegrini nel deserto, perché credevano completamente nel Signore che li conduceva verso la libertà. A un certo punto questa fede piena venne meno e protestatarono e contro Yahvé. Diò li punì con la morsicatura di serpenti velenosi che sbucavano da ogni parte della sabbia. Però, nella sua misericordia Dio si commosse per le loro lacrime di pentimento e soprattutto ascoltò la preghiera pienda di fiducia che Mosè Gli rivolse in favore dei connazionali. Allora ordinò così di fare un serpente di bronzo e di collocarlo su un bastone in un posto elevato del deserto, perché fosse  ben visibile, in modo tale che tutti quelli. che lo guardavono fossero resì immuni dal veleno dei serpenti veri, che imperversavano da tutte le parti nel desero. Ciò facendo gli Israeliti venivano salvati dalla morte per avvelenamento.
In questa domenica il serpente di bronzo, a cui fa cenno il Vangelo, ci invita a riflettere sul Cristo Salvatore Crocifisso destinato a diventare Risorto.
Come fu ordinato a Mosé di innalzare il serpente di bronzo nel deserto per salvare il popolo ebreo, e questo è diventato strumento di salvezza per quanti venivano feriti dai morsi dei serpenti materiali, così  oggi è ordinato a noi di guardare a Cristo innalzato sul legno della Croce. Guardando al Crocifisso, i Cristiani sono salvati dal veleno del serpente spirituale.
Nella conversazione con Nicodemo, di cui il brano evangelico di oggi ne è una parte, Gesù svela il senso più profondo della sua morte e risurrezione: il Figlio dell’uomo deve essere innalzato sul legno della Croce perché chi crede in Lui abbia la vita. Dunque, se ci si vuole salvare dai morsi velenosi del male, dobbiamo guardare a Cristo che dalla Croce sparge amore.
Il guardare Cristo crocifisso con occhi purificati dal dolore permette di vedere l’amore di Dio per noi e di credere all’amore.
Il guardare Cristo crocifisso e seguirlo, prendendo ogni giorno la nostra croce, ci fa diventare persone che amano come Dio ha amato.
Guardiamo alla Croce per farla entrare non solo nei nostri occhi, ma nel nostro cuore e nella nostra vita.  Guradiamo alla Croce per diventare testimoni di Cristo crocifisso. Quando la guardiamo, ovunque essa sia esposta, essa ci ricorda la possibilità di salvezza per la vita. La croce è li per dirci che se crediamo nel Vangelo, in quello che Gesù ha fatto e detto, allora la nostra vita è salva e diventa guaritrice per tutti coloro che ci sono vicini.
2) La gioia della Croce
Sulla croce,  Cristo ha donato la sua vita perché ci ama e il contemplare questo amore, un amore così grande porta nei nostri cuori una speranza e una gioia che nulla può abbattere. Un cristiano non può essere mai triste perché ha incontrato Cristo, che ha dato la vita per lui. Ma la Croce non è solamente da guardare con sguardo di adorazione, è anche da abbracciare.
Ma perché è così importante abbracciare la Croce e perché ciò è fonte di gioia? Risponderò a questo domande con un episodio della vita di Madre Teresa di Calcutta. Una giorno questa santa andò da una malata e le disse che doveva essere lieta perché era così sofferente da essere vicina a Cristo. La donna le rispose che allora desiderava allontanarsi da Cristo, perché troppo acuta la sua sofferenza. Madre  Teresa le sorrise, l’abbracciò e continuo a curare le piaghe puzzolenti della malata. La Santa di Calcutta aveva ben capito che dire di abbracciare la croce non era un’esortazione alla rassegnazione dicendo: “soffri con pazienza, accetta, sopporta le inevitabili croci della vita”. Ma Gesù non dice: “Sopporta la sofferenza”, ma dice: “Prendi su di te l’amore che è dono di sé commosso”, cioè capace di com-patire donandosi fino a morirne.
Non ci è chiesto di di subire passivamente, ma di prendere attivamente parte alla passione di Cristo per il mondo, ricordando che la passione è quella degli innamorati. Prendere la croce significa “prendere su di noi una vita che assomigli alla sua”.
Che cos’è allora la croce?
Per Cristo non fu lo strumento di morte, ma di manifestazione del suo amore “esagerato”. La Croce è la sintesi dell’intera vita di Gesù, vissuta per (pou et par) amore.
Con Cristo la Croce diventa sinonimo di amore. Quindi la frase di Cristo: “Chi vuole dietro a me, prenda la sua croce e mi segua”, possiamo riscriverla così: “Se qualcuno vuole venire con me, preda su di sé il giogo dell’amore, tutto l’amore di cui è capace, e mi segua”.
Naturalmente, sperimenteremo che l’amore ha un prezzo: il prezzo del dono di sé, quindi l’amore ha anche le sue spine e le sue ferite. Queste non offuscano l’amore, lo purificano perché è amore che non possiede l’altro ma lo esalta, e lo allietano, perché si fa esperienza di appartenere, di essere voluti bene e che nel dono di sé che si ha la vera gioia. Di tale gioia parla l’Apostolo Paolo: “Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi” (Col 1, 24).
E ciò è possibile se si mette l’accento non tanto sul fatto che Cristo ci chiede di “perdere” la vita”, ma sul “trovare” la vita.
L’esito finale è “trovare vita”, come è accaduto a Cristo con la risurrezione. Ciò che Cristo offre è quanto tutti gli uomini cercano, in tutti gli angoli della terra, in tutti i giorni che è dato loro di gustare: la fioritura della vita, di una vita che dura per sempre, di una vita lieta e ricca, perché l’amore cresce solo quando si dona.
3) Croce, gioia e verginità.
Potremmo paragonare la croce al letto dove una mamma dà alla luce un figlio. Le doglie del parto non sono un’ostacolo alla gioia di una neo-mamma, ne sono la condizione. Vivere la croce è dare alla luce. Come non pensare al Signore crocifisso che mentre tutto è compiuto (Gv 19,30) inonda d’amore chi è sotto il suo letto di dolore, donando a una madre il figlio e al figlio una madre, per sempre? Morente sulla Croce, Gesù affidò Giovanni alla sua mamma, dicendo: “Donna, ecco tuo figlio” (Gv 19, 26). Se Egli non la chiamò col dolce nome di Madre, fu perché era arrivata per lei l’ora – come arriva per le anime che progrediscono nell’amore – di affidarle un’altra maternità. La maternità spirituale sulle anime; quella maternità che il Salvatore aveva promesso di concedere a tutti quelli che avessero fatto la sua divina volontà: “Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre” (Mt 12, 50).
Fu quello un momento di gioia. Apparentemente, non lo fu, perché quel parto era nel dolore. Di fatto, quella maternità rese Maria causa della nostra letizia, perché la gioia più vera è quella di vedere la luce dentro l’amore di una Madre che ci accetta come suoi figli nati dal dolore del Figlio. Sulla croce, Cristo ha donato la sua vita perché ci ama.
In effetti la vera gioia non consiste nell’avere tante cose, ma nel sentirsi amati dal Signore, nel farsi dono per gli altri e nel volersi bene.
Il modo più alto di donarsi a Dio ed agli altri e di volere bene a Dio e al prossimo è quello delle vergini consacrate, che innestano il fiore della loro consacrazione  sulla croce, la cui linfa à la vita di Cristo.
Il fiore è un simbolo caro a Santa Teresa del Bambin Gesù, che utilizza questo simbolo al modo della Sacra Scrittura, per indicare nello stesso tempo la bellezza e la fragilità dell’essere umano in questa vita (cfr Mt 6,28-30). Lei si ricongiunge così ad uno dei significati della parola carne nella Bibbia. Nel libro d’Isaia, il simbolo del “fiore dei campi” caratterizza l’estrema fragilità e la mortalità di “ogni carne”, messa a confronto con la stabilità eterna della “Parola di Dio” (cf. Is 40,6-8). Ma la grande novità del Mistero di Gesù è precisamente che la “Parola si è fatta carne” (Gv 1,14), è diventata fragile e mortale come il fiore dei campi. Santa Teresina utilizza questo simbolo biblico del “fiore dei campi” (o “piccolo fiore”) per se stessa, lo estende a tutta l’umanità (specialmente nel mirabile Prologo del Manoscritto A), ma soprattutto, lo applica a Gesù “nei giorni della sua carne” (cf. Eb 5,7), cioè in tutti i misteri della sua vita terrestre contemplati come misteri d’abbassamento, di piccolezza e di povertà, “essendo proprio dell’Amore abbassarsi” (Ms A 2v). E’ qui che la Santa di Lisieux si congiunge a San Francesco e Santa Chiara d’Assisi che contemplano “l’Amore di questo Dio, Che povero fu deposto nella culla, Povero visse in questo mondo e nudo rimase sulla Croce” (Testamento di Santa Chiara d’Assisi).
 
Lettura Patristica
San Gregorio di Nissa (335 – 395)

Vita Moysis, nn. 269-277
La strada traversa nuovamente il deserto, e il popolo, nella disperazione dei beni promessi, è esausto per la sete. E Mosè fa di nuovo scaturire per lui l’acqua nel deserto dalla Roccia. Questo termine ci dice cos’è, sul piano spirituale, il sacramento della penitenza. Difatti, coloro che, dopo aver gustato dalla Roccia, si sono sviati verso il ventre, la carne e i piaceri degli Egiziani, sono condannati alla fame e vengono privati dei beni di cui godevano. Ma è data loro la possibilità di ritrovare con il pentimento la Roccia che avevano abbandonato e di riaprire per loro il rivolo d’acqua, per dissetarsi alla sorgente…
Però il popolo non ha ancora imparato a seguire le tracce della grandezza di Mosè. È ancora attratto dai desideri servili e inclinato alle voluttà egiziane. La storia dimostra con ciò che la natura umana è portata a questa passione più che ad altre, accessibile com’è alla malattia per mille aspetti. Ecco perché, alla stregua di un medico che con la sua arte impedisce alla malattia di progredire, Mosè non lascia che il male domini gli uomini fino alla morte. E siccome i loro desideri sregolati suscitavano dei serpenti il cui morso inoculava un veleno mortale in coloro che ne restavano vittime, il grande Legislatore rese vano il potere dei serpenti veri con un serpente in effigie. Sarà però il caso di chiarire l’enigma. Vi è un solo antidoto contro le cattive infezioni ed è la purezza trasmessa alle nostre anime dal mistero della religione. Ora, l’elemento principale contenuto nel mistero della fede è appunto il guardare verso la Passione di colui che ha accettato di soffrire per noi. E Passione vuol dire croce. Così, chi guarda verso di lei, come indica la Scrittura, resta illeso dal veleno del desiderio. Rivolgersi verso la croce vuol dire rendere tutta la propria vita morta al mondo e crocifissa (Ga 6,14), tanto da essere invulnerabile ad ogni peccato; vuol dire, come afferma il Profeta, inchiodare la propria carne con il timore di Dio (Ps 118,120). Ora, il chiodo che trattiene la carne è la continenza. Poiché quindi il desiderio disordinato fa uscire dalla terra serpenti mortali – e ogni germoglio della concupiscenza cattiva è un serpente -, a motivo di ciò, la Legge ci indica colui che si manifesta sul legno. Si tratta, in questo caso, non del serpente, ma dell’immagine del serpente, secondo la parola del beato Paolo: “A somiglianza della carne di peccato” (Rm 8,3). E colui che si rivolge al peccato, riveste la natura del serpente. Ma l’uomo viene liberato dal peccato da colui che ha preso su di se la forma del peccato, che si è fatto simile a noi che ci eravamo rivolti verso la forma del serpente; per causa sua la morte che consegue al morso è fermata, però i serpenti stessi non vengono distrutti. Infatti, coloro che guardano alla Croce non sono più soggetti alla morte nefasta dei peccati, ma la concupiscenza che agisce nella loro carne (Ga 5,17) contro lo Spirito non è interamente distrutta. E, in effetti, i morsi del desiderio si fanno spesso sentire anche tra i fedeli; ma l’uomo che guarda a colui che è stato elevato sul legno, respinge la passione, dissolvendo il veleno con il timore del comandamento, quasi si trattasse di una medicina.
Che il simbolo del serpente innalzato nel deserto sia simbolo del mistero della croce, la parola stessa del Signore lo insegna chiaramente, quando dice: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo” (Jn 3,14).

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Archbishop Francesco Follo

Monsignor Francesco Follo è osservatore permanente della Santa Sede presso l'UNESCO a Parigi.

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