Mons. Francesco Follo - Foto © Servizio Fotografico-L'Osservatore Romano

Mons. Follo: La gioia per un incontro imminente

III Domenica di Avvento – Rito Romano  – 16 dicembre 2018

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III Domenica di Avvento – Rito Romano  – 16 dicembre 2018
Sof 3,14-18;Is 12;Fil 4,4-7;Lc 3,10-18
La gioia è la presenza dell’Amato.
 
V Domenica di Avvento – Rito Ambrosiano
Is 30,18-26b; Sal 145; 2Cor 4,1-6; Gv 3,23-32a
Il Precursore che annuncia la gioia di una Presenza.
 
            1) La gioia non è semplicemente un’emozione, è un’esperienza.
I brani di vangelo proposti dalla liturgia romana e ambrosiana attirano la nostra attenzione su Giovanni il Battista, chiamato anche il Precursore. Questo appellativo indica che Giovanni correva non solo in avanti, che è ovvio, ma davanti a Cristo, per preparargli la strada, appianandola con la carità di una vita e di una predicazione di conversione.
Il Precursore non ha meritato questo “soprannome” perché correva fisicamente, ma perché camminava con passi di amore. Potremmo dire che era un ambasciatore dell’Amore, che insegnava che occorreva andare verso il Messia con passi d’amore purificato, convertito.
La conversione è dire “si” a Dio, come il profeta Sofonia (I lettura) ce lo ricorda, e dire “si” al prossimo (Vangelo odierno). In effetti, alle folle che gli chiedevano: “Che cosa dobbiammo fare?”, Giovanni rispondeva: “Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia lo stesso.
Sofonia ci insegna che l’amore rinnova il cuore (I lettura, 3,18) e la paura lo invecchia. Il Vangelo di oggi ci insegna che l’amore è condivisione e fonte di vita. Anche il salmo ci invita alla gioia: “Gridate lieti ed esultate, abitanti di Sion, perché grande in mezzo a voi è il Santo di Israele”.

Nella seconda lettura l’Apostolo Paolo non è da meno, scrivendo ai cristiani di Filippi insiste sulla gioia: “Ve lo ripeto rallegratevi…”, precisando il perché: “il Signore è vicino”. La gioia implica la scomparsa dell’ansia e dell’inquietudine: “Non angustiatevi di nulla” e se per caso “Avete dei fastidi?… condivideteli con Dio. Nella preghiera fategliene parte”.
La sorgente della gioia è Dio, che guida i nostri passi per condurci dove Lui ci attende. Ma come camminare verso la grande luce di Cristo, che ci è indicate da quella, piccola, di la di Giovani? La torcia che Giovanni ci indica il Sole che è Cristo (in questo modo i nostri occhi non si bruciano)? Restituendo il cuore a Gesù, Luce che dà forza e speranza, anche in mezzo alle situazioni più difficili.
L’importante è abbandonarsi alle braccia divine, che ci sostengono nel nostro cammino. Dio non ci abbandona mai: è l’Emmanuele, il Dio sempre con noi.
Rivolgiamo (=con-vertiamo) il nostro sguardo a Lui. Ammiriamolo sul legno della culla a Betlemme e su quello della croce a Gerusalemme, dove ha definitivamente donato la sua vita perché ci ama. La contemplazione di un amore così grande porterà nei nostri cuori una speranza e una gioia che nulla può abbattere.
Come possiamo essere tristi, se abbiamo incontrato Cristo, che ha dato la vita per noi, per ciascuno di noi? Ma anche se fossimo tristi, non importa. La tristezza è segno che Dio ci manca, anche se non ne siamo consapevoli. La tristezza, che si fa umile domanda, è il prezzo della gioia della risposta. Basta che il nostro cuore gridi: “Vieni, Signore Gesù”, il Figlio di Dio che non si compiace del male (cfr Sal 5,5). Allora faremo esperienza di Dio, che benedice “il giusto: come scudo lo copre la sua benevolenza” (Sal 5,13) ed  avremo una serena fiducia, fondata sulla misericordia-fedeltà (in ebraico hésed) di Dio, da una parte, e giustizia-salvezza (in ebraico sedaqáh) dall’altra.
Queste due parole ebraiche sono usate dalla Bibbia per celebrare l’alleanza che unisce per sempre il Signore al suo popolo ed ai singoli fedeli nella gioia. Infatti la gioia di Cristo consiste nel fatto che Lui si degna di gioire di noi e la nostra gioia perfetta consiste nell’essere in comunione con Lui (cfr S. Agostino, Discorso 32): è l’Alleanza  nuova ed eterna.
 
            2) La gioia non è solo essere amati, ma amare donando.
La carità nasce da un cuore dilatato dalla gioia e la carità è condividere la gioia, è trasmetterla. Dare una festa, per poter condividere la gioia con gli altri (“rallegratevi con me”) è il modo che il Pastore buono conosce per poter trasmettere la gioia quando trova la pecora che si era perduta, è il modo che il Padre misericordioso usa  quando il figlio prodigo torna a casa.
Nell’esempio del buon Pastore e del Padre misericordioso vediamo che l’amore produce gioia, e la gioia è una forma d’amore. Amare significa voler bene e voler bene significa procurare il vero bene alla persona amata, fino al dono lieto e totale di se stessi a e per chi si ama, come ha fatto Gesù a Betlemme e sul Calvario. Come ha fatto la Madonna, che piena di grazia e di gioia (“l’anima mia magnifica il Signore e gioisce il mio spirito in Dio mio salvatore”) ha portato ad Elisabetta non tanto il suoi aiuto materiale, ma la gioia in persona: Cristo. Una gioia tale che anche il piccolo Giovanni, ancora nel grembo della madre anziana, sussultò di letizie, percependo la presenza di Gesù, ancora nel grembo della giovane mamma.
Se Giovanni fu capace di percepire la presenza di Cristo, nonostante l’oscurità del grembo che lo conteneva, e gioì. Non potremo noi percepire la presenza di Gesù, nonostante l’oscurità delle nostre difficoltà o del nostro “banale” quotidiano ed essere nella gioia? Certamente. Basta che con la curiosità dei pastori e la preghiera dei Re Magi andiamo a Cristo e davanti a Lui ci mettiamo in ginocchio. Poi come loro offriamo a Cristo il nostro stupore e i nostri semplici doni (per Colui che ha fatto il mondo tutte le cose -oro compreso- sono poca cosa) e Lui di nuovo si donerà a noi completamente e teneramente.
“Le donne consacrate sono chiamate in modo tutto speciale ad essere, attraverso la loro dedizione vissuta in pienezza e con gioia, un segno della tenerezza di Dio verso il genere umano ed una testimonianza particolare del mistero della Chiesa che è vergine, sposa e madre”(Giovanni Paolo II, Esort ap Vita Consecrata, 25 marzo 1996, n. 57).
Questo dono le Vergini consacrate lo ricevono in modo particolare nel Rito della consacrazione e sono chiamate a viverlo in modo sempre più maturo e consapevole. 

Per tale dono “la vergine diventa una persona consacrata, segno sublime dell’amore che la Chiesa porta a Cristo, immagine escatologica della sposa celeste e della vita futura” (Premesse al Rito, 1). “Ricevete l’anello delle mistiche nozze con Cristo e custodite integra la fedeltà al vostro Sposo, perché siate accolte nella gioia del convito eterno” (Rituale di Consacrazione delle Vergini, n. 40).
            La modalità abituale è fare memoria di Cristo, nato per noi, nel quotidiano come storia di salvezza e rendere grazie (=fare Eucaristia). “Vivano con lode senza ambire la lode; a Te solo diano gloria nella santità del corpo e nella purezza dello spirito; con amore ti temano, per amore ti servano” (Rituale di Consacrazione delle Vergini, n. 38).
Tutti poi, celibi o sposati, laici o religiosi, siamo chiamati a mettere in pratica le parole di Gesù richiamate da San Paolo negli Atti degli Apostoli: «Si è più beati nel dare che nel ricevere» (At 20,35). Parole che Madre Teresa di Calcutta spiegava così: «La gioia è una rete d’amore per catturare le anime. Dio ama chi dona con gioia. E chi dona con gioia dona di più». E il Servo di Dio Paolo VI scriveva: «In Dio stesso tutto è gioia poiché tutto è dono» (Esort. Ap. Gaudete in Domino, 9 maggio 1975).
Quindi con gioia prepariamoci ad accogliere Cristo, che riporta nel mondo il Dono di Dio, l’infinito amore fedele e misericordioso, giusto e salvifico.
 
 
 
Per prepararsi bene a Cristo, Perdono di Dio, che viene a Natale, consiglio per questa domenica le sgeuente preghiera di S. Tommaso Moro:
 
“Signore,
dammi una buona digestione
ed anche qualcosa da digerire.
Donami la salute del corpo
col buonumore necessario a mantenerla.
E donami, Signore, un’anima santa
che faccia tesoro
di quello che è buono e puro,
affinché non si spaventi
alla vista del male,
ma trovi, alla tua presenza,
la via per rimettere le cose a posto.
Donami un’anima che non conosca
la noia, i brontolii, i sospiri e i lamenti;
e non permettere che io mi affligga eccessivamente
per quella cosa troppo invadente
che si chiama “io”.
Signore,
dammi il senso del ridicolo
e concedimi la grazia di comprendere gli scherzi,
affinché conosca nella vita
un po’ di gioia e possa farne partecipi anche gli altri. Amen”
 
 
San Tommaso Moro, Martire (7 febbraio 1477 –  6 luglio 1535)
Marito e padre esemplare, uomo politico, grande umanista cristiano ha coniato il termine «utopia» (parola composta da ou = non e topos = luogo), indicando un’immaginaria isola dotata di una società ideale, di cui descrisse il sistema politico nella sua opera più famosa, «L’Utopia», del 1516. È ricordato soprattutto per il suo rifiuto alla rivendicazione dal Re Enrico VIII di farsi capo supremo della Chiesa d’Inghilterra, una decisione che mise fine alla sua carriera politica conducendolo alla pena capitale con l’accusa di tradimento.

  1. Tommaso More preferì essere condannato a morte da Enrico VIII, piuttosto di tradire la propria coscienza.

L’armonia fra il naturale e il soprannaturale costituisce forse l’elemento che più di ogni altro definisce la personalità di questo grande Statista inglese: egli visse la sua intensa vita pubblica con umiltà semplice, contrassegnata dal celebre “buon umore”, anche nell’imminenza della morte.
 Spinto dalla sua passione per la verità, mostrò anche con l’accettazione della sua condanna a morte che non si può separare l’uomo da Dio, né la politica dalla morale.
La testimonianza di san Tommaso Moro, ucciso mediante decapitazione, illustra con chiarezza una verità fondamentale dell’etica politica: la difesa della libertà della Chiesa da indebite ingerenze dello Stato è allo stesso tempo difesa, in nome del primato della coscienza, della libertà della persona nei confronti del potere politico.
Il 31 ottobre 2000, il B. Papa Giovanni Paolo II lo proclamò Patrono dei Governanti e dei Politici.
 
 
Lettura patristica
San Gregorio Magno (ca 540  – 604)
Hom., 20, 1-7
 
 
Il Battista
Il precursore del nostro Redentore viene presentato attraverso l’indicazione delle autorità che governavano Roma e la Giudea al tempo della sua predicazione, con le parole: “Nel quindicesimo anno dell’impero di Tiberio Cesare, essendo procuratore della Giudea Pilato, tetrarca della Galilea Erode, Filippo suo fratello tetrarca dell’Iturea e della Traconitide e Lisania tetrarca dell’Abilene, mentr’erano principi dei sacerdoti Anna e Caifa, la Parola di Dio si manifestò a Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto” (Lc 3,1s). Poiché, infatti, Giovanni veniva ad annunziare colui che doveva redimere alcuni Giudei e molti Gentili, i tempi vengono indicati menzionando il re dei Gentili e i principi dei Giudei. Poiché poi i Gentili dovevano venir raccolti e i Giudei stavano per essere dispersi a causa della loro perfidia, nella descrizione dei principati, la repubblica romana è tutta assegnata a un solo capo e nel regno della Giudea viene sottolineata la divisione in quattro parti. Il nostro Redentore infatti dice: “Ogni regno diviso in se stesso, andrà in rovina” (Lc 11,17). È chiaro allora che la Giudea, divisa tra tanti re, era giunta alla fine del regno. E proprio opportunamente vien notato non solo chi fossero a quel tempo i re, ma anche chi fossero i sacerdoti, perché Giovanni Battista avrebbe annunziato colui che sarebbe stato allo stesso tempo e re e sacerdote.
E si recò per tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di penitenza per il perdono dei peccati” (Lc 3,3). Chi legge comprende che Giovanni non solo predicò ma diede anche ad alcuni il battesimo di penitenza, ma tuttavia non poté dare il suo battesimo in remissione dei peccati. La remissione dei peccati, infatti, avviene solo nel Battesimo di Cristo. Bisogna osservare che vien detto: “Predicando un battesimo di penitenza per il perdono dei peccati“, predicava cioè un battesimo che perdonasse i peccati, perché non lo poteva dare. Come annunziava con la parola il Verbo del Padre che si era incarnato, così nel suo battesimo che non poteva perdonare i peccati, anticipava il Battesimo di penitenza, che avrebbe liberato dai peccati. La sua predicazione anticipava la presenza del Redentore, il suo battesimo era ombra del vero Battesimo di Cristo.
Com’è scritto nel libro d’Isaia: Voce di colui che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri” (Is 40,3). Lo stesso Battista, interrogato chi egli fosse, rispose: “Io sono la voce di colui che grida nel deserto” (Jn 1,23). È detto voce, perché annunzia il Verbo. Quello poi che diceva sta nelle parole: “Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri“. Chiunque annunzia la fede vera e predica le opere buone che altro fa se non preparare i cuori di chi lo ascolta al Signore che viene? Perché la forza della grazia penetri, la luce della verità illumini, raddrizzi le vie innanzi al Signore, mentre il sermone della buona predicazione forma buoni pensieri nell’animo.
Ogni valle sarà riempita e ogni colle e monte sarà abbassato“. Che cosa s’intende qui per valli se non gli umili, che cosa per monti e colli se non i superbi? Alla venuta del Salvatore le valli saranno riempite, i colli e i monti saranno abbassati, perché com’egli stesso dice: “Chiunque si esalta sarà umiliato e chiunque si umilia sarà esaltato” (Lc 14,11). Infatti, la valle riempita s’alza, il monte e il colle umiliato, s’abbassa, perché nella fede del Mediatore tra Dio e gli uomini Cristo Gesù, la gentilità ricevette la pienezza della grazia e la Giudea per la sua perfidia perdette ciò di cui s’inorgogliva. Ogni valle sarà riempita, perché i cuori degli umili saranno riempiti dalla grazia delle virtù…
Il popolo, poiché vedeva Giovanni Battista fornito di meravigliosa santità, lo riteneva un monte singolarmente alto e solido… Ma se lo stesso Giovanni non si fosse ritenuto una valle, non sarebbe stato riempito dello spirito della grazia. Egli infatti disse di sé: “Viene uno più forte di me; non son degno di sciogliere i legacci dei suoi calzari” (Mc 1,7). Ed anche: “Chi ha la sposa è lo sposo, l’amico dello sposo sta lì a sentirlo e gode a sentir la voce dello sposo. Questa mia gioia è piena. Lui deve crescere, io devo essere diminuito” (Jn 3,29-30). Infatti, essendo stato ritenuto, a motivo della sua eccezionale virtù, d’essere il Cristo, non solo disse di non esserlo, ma disse addirittura ch’egli non era degno di sciogliere i lacci dei suoi calzari, di frugare, cioè, nel mistero della sua incarnazione. Credevano che la Chiesa fosse sua sposa; ma egli li corresse: “Chi ha la sposa è lo sposo“. Io non sono lo sposo, ma l’amico dello sposo. E diceva di godere non della propria voce, ma di quella dello sposo, perché si rallegrava non di essere umilmente ascoltato dal popolo, quanto perché sentiva dentro di sé la voce della verità, ch’egli annunziava. Dice che la sua gioia era piena, perché colui che gode della sua propria voce, non ha gioia piena, e aggiunge: “Lui deve crescere, io devo essere diminuito.
Bisogna ora chiedersi in che cosa è cresciuto il Cristo e in che cosa è stato diminuito Giovanni, ed è che il popolo vedendo l’astinenza e la solitudine di Giovanni, lo credeva il Cristo, vedendo invece il Cristo che mangiava coi pubblicani e peccatori, credeva che non fosse il Cristo, ma un profeta. Ma con l’andar del tempo, quando il Cristo, ch’era ritenuto un profeta fu riconosciuto come il Cristo e Giovanni, che era ritenuto di essere il Cristo, fu riconosciuto come un profeta, allora si avverò ciò che il precursore aveva detto del Cristo: “Lui deve crescere, io devo essere diminuito… E le vie storte saranno raddrizzate e le aspre appianate“. Le vie storte si raddrizzano, quando i cuori dei malvagi, storpiati dall’ingiustizia, vengono allineati con la giustizia (Is 40,4). E le vie aspre vengono appianate, quando le menti iraconde tornano, per opera della grazia, alla serenità della mansuetudine. Quando, infatti, la mente iraconda respinge la parola di verità, è come se l’asprezza del cammino impedisse il passo del viandante. Ma quando l’anima iraconda, attraverso la grazia ricevuta, accoglie la parola della correzione, allora il predicatore trova la via piana, laddove non osava muovere il piede.
E ogni uomo vedrà la salvezza di Dio“. Ma non tutti gli uomini hanno potuto vedere Cristo, salvezza di Dio, in questa vita. Dove allora appunta lo sguardo il profeta, se non all’ultimo giorno del giudizio? Quando, aperti i cieli, tra gli angeli e gli apostoli, in un trono di maestà, apparirà il Cristo e tutti, eletti e dannati, lo vedranno, perché i giusti abbiano un premio senza fine e i dannati gemano nell’eternità del supplizio.
***
Mons. Francesco Follo è Osservatore Permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi.

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Archbishop Francesco Follo

Monsignor Francesco Follo è osservatore permanente della Santa Sede presso l'UNESCO a Parigi.

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