Mons. Francesco Follo - Foto © Servizio Fotografico-L'Osservatore Romano

Mons. Follo: Implorare di essere purificati

Rito Romano – VI Domenica del Tempo Ordinario – Anno B – 11 febbraio 2018

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Rito Romano – VI Domenica del Tempo Ordinario – Anno B – 11 febbraio 2018
Lv 13,1-2.45-46; Sal 31; 1Cor 10,31-11,1; Mc 1,40-45
Rito Ambrosiano
Is 54,5-10; Sal 129; Rm 14,9-13; Lc 18,9-14
Ultima domenica dopo l’Epifania – detta “del perdono”
 
1) Signore: “Purificami”
Il brano di vangelo di questa domenica ci propone  la guarigione di un malato di lebbra[1]. L’evangelista San Marco anche con questo miracolo vuol far comprendere agli ascoltatori di allora e di oggi che Gesù Cristo è Figlio di Dio.
In effetti, il lebbroso per essere sanato non usa il verbo “guariscimi”, ma si mette in ginocchio, come si fa davanti a un Signore e lo supplica dicendo: “Se vuoi, purificami”. Chiede di essere purificato, cioè di vedere la sua pelle e la sua carne integra, ma anche di essere perdonato dai suoi peccati, liberato da tutto ciò che lo tiene lontano da Dio e dagli uomini.
Questo atteggiamento è da avere solo con Dio, che solo può purificare dal peccato provocato la malattia.
Per capire questa affermazione, che può sembrare assurda, prendiamo brevemente in esame la prima lettura della Messa di oggi. Il brano scelto propone una parte del capitolo 13 del Levitico. In questo capitolo, è descritta la tipologia della lebbra, includendo in maniera piuttosto larga forme diverse di malattie della pelle, di cui molte guaribili. Nel capitolo 14 è presentato il rituale della purificazione dei lebbrosi e delle case infette.
Dunque, da una parte, il Levitico afferma che i Sacerdoti erano i competenti ad esaminare l’ammalato e a diagnosticarne il contagio dichiarandolo “immondo” (Lev 13, 3), d’altra parte questo libro, nel capitolo 14, lo stesso sacerdote è poi preposto a certificare l’eventuale la guarigione (Lev 14, 1-4). Nelle società antiche le norme precauzionali erano effettivamente l’unica difesa possibile verso malattie contagiose, soprattutto se inguaribili; di qui le dure norme esposte nei vv. 45-46: “Il lebbroso colpito dalla lebbra porterà vesti strappate e il capo scoperto, si coprirà la barba e andrà gridando: – Immondo! Immondo! – Sarà immondo finché avrà la piaga; è immondo, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento”.
Il lebbroso è dunque un impuro, colpito da Dio a causa di un’impurità fisica e morale: lui è un intoccabile e deve vivere al bando della società.
Ciò fa capire perché, al tempo di Gesù, i lebbrosi erano davvero degli “inavvicinabili”, degli intoccabili – un’immagine di ciò che il peccato fa nell’uomo. Davanti al grido di aiuto del lebbroso, che riconosce in Gesù l’inviato di Dio per curare anche i lebbrosi, Gesù risponde con la sua “compassione” divina: tende la mano, lo tocca – diventando Lui stesso impuro secondo la legge – e gli dice: “Lo voglio, sii purificato”.
È su questo sfondo che il racconto evangelico acquista un significato preciso: Gesù tocca un intoccabile. Il Regno di Dio non tiene conto delle barriere del puro e dell’impuro: le supera. Non esistono uomini da accogliere e uomini da evitare, uomini vicini e uomini lontani, uomini con diritti e uomini senza diritti. Tutti sono amati da Dio. Tutti sono chiamati, e la prassi evangelica deve essere il segno di questo amore divino che non fa differenze.
 
2) La purezza.
Qual è la concezione biblica della purezza? Per non annoiare con un lungo esame dei testi biblici a questo riguardo, mi soffermo ancora sulla prima lettura presa da Levitico[2], nella quale si dice in cosa incorre chi diventa impuro. In questo libro come ho accennato nel primo paragrafo, quando qualcuno manifestava dei sintomi che potevano essere ricondotti alla lebbra, proprio perché la lebbra è una malattia infettiva, immediatamente veniva dichiarato dal sacerdote “impuro”. La conseguenza era che doveva stare solo fuori dall’accampamento.
Gli ebrei, come gli antichi popoli orientali, consideravano “puro” tutto ciò che apparteneva all’ambito del sacro e favoriva il culto a Dio. Ritenevano invece “impuro” tutto ciò che si opponeva al sacro ed era di ostacolo al culto. Una simile distinzione non riguardava però la sfera morale della persona, ma solo le condizioni necessarie per essere ritenuti idonei o no al culto e per essere inseriti nella vita della comunità (un lebbroso ne era escluso).
Al tempo della vita terrena di Gesù, era in vigore questa distinzione tra puro e impuro, sostenuta dal gruppo dei farisei. Ma Cristo insegna a dare il primato alla purezza interiore, che ha il suo centro nel cuore dell’uomo, da dove può uscire ciò che veramente contamina la sua esistenza (Cfr Mt 15,10-20; Mc 7,14-23). Anche noi, sull’esempio di Gesù, dobbiamo privilegiare la purezza interiore e morale: la purezza del cuore
Essere puri di cuore vuol dire, soprattutto, essere santi e sinceri.
Il santo non è un superuomo. Il santo è un uomo vero, restituito alla sua verità perché purificato dal peccato. Il santo è una persona vera, che si mette in ginocchio davanti a Cristo, ne riconosce la sua divinità, implora di essere purificata dalla sua misericordia  e vive del suo amore puro che condivide con il prossimo. Santo è colui che – nonostante le sue debolezze, anzi proprio a causa di esse e per la consapevolezza del proprio nulla – sa di aver bisogno di essere convertito e rialzato, guarito e salvato da Cristo, ogni giorno. Per questo il santo è  colui che Lo segue con perseveranza e con cuore saggio ed intelligente lungo il cammino. Lungo la via che è Cristo stesso.
Santo è colui che segue Cristo con sincerità.
La sincerità è lo specchio di verità delle altre virtù. La persona santa manifesta la sua verità nella sincerità. Questa è la virtù che garantisce la verità delle relazioni con Dio e con il prossimo.  La sincerità è la trasparenza del cuore.  La mancanza di sincerità oscura la nostra vocazione di servitori di Dio. Il fondamento della sincerità è stare alla presenza di Dio che è la trasparenza della Verità. Gesù era sincero. Le persone sapevano come era il suo cuore. “Sappiamo che sei veritiero” (Mt 22,16). La sua sincerità era stampata nei suoi occhi.
Dunque imitiamo Cristo nella sua sincerità e con semplicità e lealtà siamo fedeli al suo Cuore che custodisce il nostro cuore e facciamo nostra questa preghiera: “O Dio, che hai promesso di essere presente in coloro che ti amano e con cuore retto e sincero custodiscono la tua parola, rendici degni di diventare tua stabile dimora” (Colletta della VI domenica per anno).
 
3) Sincerità e verginità.
“Che dolce gioia pensare che il buon Dio è giusto, cioè che tiene conto delle nostre debolezze,  conosce perfettamente la fragilità della nostra natura. Di che cosa dunque dovrei avere paura?” (Santa Teresa di Gesù Bambino, Vergine e Dottore della Chiesa)
“La castità è sincerità, perciò la migliore protezione per la castità è non nascondere nulla”
(Santa Madre Teresa di Calcutta)
Una testimonianza attuale della verità delle affermazione delle due Sante è la vita delle vergini consacrate. Queste donne si donano completamente a Cristo e il loro amore purificato e santificato dalla consacrazione diventa la visibilità dell’amore di Dio. Come Dio ama sinceramente, senza secondi fini, senza chiedere niente in cambio, perché Lui ama a gioia di donare, così le vergini consacrate amano sinceramente Dio è il prossimo, per donarsi a Dio e per donare castamente al prossimo l’Amore santo di cui vivono.
“Totalmente consacrate a Dio, sono totalmente consegnate ai fratelli, per portare la luce di Cristo là dove più fitte sono le tenebre e per diffondere la sua speranza nei cuori sfiduciati. Le persone consacrate sono segno di Dio nei diversi ambienti di vita, sono lievito per la crescita di una società più giusta e fraterna, sono profezia di condivisione con i piccoli e i poveri. Così intesa e vissuta, la vita consacrata ci appare proprio come essa è realmente: è un dono di Dio, un dono di Dio alla Chiesa, un dono di Dio al suo Popolo” (Papa Francesco).
 
Lettura patristica
Cromazio di Aquileia (tra 335 e il 340 –  407 o 408)
In Matth. Tract., 38, 10
 
Grande la fede di questo lebbroso e perfetta la sua professione! Per primo, infatti, adorò, quindi disse: «Signore, se vuoi, puoi guarirmi» (Mt 8,2-4). In ciò che egli adorò, mostrò di aver creduto a quel Dio che egli adorò, poiché la legge prescriveva che non si deve adorare se non un solo Dio.
Quando, col dire: «Signore, se vuoi, puoi guarirmi» prega la sua onnipotenza e la natura della divina potestà sotto l’influsso della sua volontà affinché voglia soltanto il Signore, come rimedio, poiché sapeva che il potere della virtù divina, si sottometteva alla sua volontà. Per conseguenza poiché credette che al Figlio di Dio soltanto il volere significava (era) potere, e il potere, volere, per questo disse: «Signore, se vuoi, puoi guarirmi».
Non senza ragione, il Signore conoscendo l’animo devoto e fedele del lebbroso che credeva in sé, per confermare la sua fede subito lo ricompensò del dono della sanità, dicendo: «Lo voglio, sii guarito» (Mt 8,2-4). Quindi, «stendendo la mano, lo toccò. E istantaneamente la lebbra scomparve» (Mt 8,3).
E così facendo pubblicamente si dichiarò il Signore del potere assoluto come già aveva creduto il lebbroso. Immediatamente e come volle, la virtù del suo manifesta la sua volontà. Così, infatti, disse: «Voglio, sii guarito. E subito la sua lebbra scomparve». E Gesù gli disse: «Guardati dal dirlo a qualcuno, ma va’, presentati al sacerdote, e poi fa’ l’offerta che Mosè prescrisse in testimonianza ad essi» (Mt 8,3-4). Il Signore comanda a colui al quale aveva guarito la lebbra e di presentarsi al sacerdote e di offrire sacrifici per sé prescritti nella legge. E in questo volle manifestare compiuti da sé i misteri (le adempienze) della legge, e accusare l’infedeltà dei sacerdoti, affinché constatando il lebbroso guarito che né la legge, né i sacerdoti avevano potuto mondare, o credessero che Egli era il Figlio di Dio e riconoscessero che Egli stesso era il padrone della legge; a causa della giustizia e della fede del lebbroso e della testimonianza della sua stessa opera, ricevessero la condanna della loro infedeltà.
Chi, infatti, avrebbe potuto col potere della propria virtù guarire il lebbroso, che la legge non poté mondare, se non colui che è il padrone della legge, e che è il Signore di tutte le virtù, del quale leggiamo scritto: «Il Signore delle virtù è con noi chi ci accoglie è il Dio di Giacobbe» (Ps 45,8-12), anche prima che fosse mondato, credette con religiosa professione di fede che il Figlio di Dio era Dio; i sacerdoti, invece, neppure dopo il prodigio della divina virtù vollero credere.
In verità se (riusciamo a capire) comprendiamo che per questo il Signore aveva comandato a colui che aveva liberato dalla lebbra, affinché offrisse sacrifici prescritti nella legge per sé, mostrasse con questo che egli era l’autore del precetto dato, e per gli stessi misteri adempiuti nella verità, che erano stati in antecedenza manifestati come figure.
[1] Al giorno d’oggi facciamo fatica a capire la tragicità della lebbra. Questa malattia oggi è curabile, tuttavia  ancora ogni anno circa 211.000 nuove persone di cui 19.000 bambini sono colpiti. Vale a dire che c’è una contaminazione ogni due minuti. Questa malattia è ancora presente nel mondo con 700-800 mila casi. Per la sua tragica devastazione del corpo, causa deformità delle mani e dei piedi, cecità ed altro, e le sue conseguenze sociali di esclusione dalla comunità civile e religiosa, la lebbra era ed è anche oggi considerata, in molte parti, una maledizione divina.
[2] Nel libro del Levitico (il libro della Bibbia che si interessa alla vita religiosa del popolo di Israele), troviamo un’ampia sezione, racchiusa nei capitoli 11-15, interamente dedicata alla distinzione tra ciò che è puro e ciò che è impuro (noi diremmo, oggi, tra sacro e profano). In questa sezione viene presentata la distinzione tra animali puri (di cui ci si può cibare, come pecore, vitelli, agnelli) e animali impuri (di cui è proibito cibarsi, come il cammello e il maiale) e viene considerata come fonte di contaminazione (o impurità) la sfera legata al parto, alla nascita, alla morte, alle relazioni sessuali e alla malattia (in particolare la lebbra). Chi era incorso nell’impurità originata da una di queste condizioni, prima di dedicarsi al culto, doveva sottoporsi a particolari riti di purificazione (come lavarsi in acqua corrente e offrire un sacrificio di espiazione).

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Archbishop Francesco Follo

Monsignor Francesco Follo è osservatore permanente della Santa Sede presso l'UNESCO a Parigi.

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