Mons. Francesco Follo - Foto © Servizio Fotografico-L'Osservatore Romano

Mons. Follo: Ascoltare, accogliere, amare

VI Domenica di Pasqua – Anno C – 26 maggio 2019

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Rito romano
VI Domenica di Pasqua – Anno C – 26 maggio 2019
At 15, 1-2.22-29; Sal 144 (145); Ap 21,10-14.22-23; Gv 14,23-29
 
Rito ambrosiano
At 21,40b-22,22; Sal 66; Eb 7,17-26; Gv 16,12-22
 
 
1) Una Presenza da ascoltare e da accogliere: da amare.
All’apostolo Giuda Taddeo (non l’Iscariota), che chiedeva di capire meglio come Gesù si sarebbe manifestato ai suoi e non al mondo (Gv 14,22), Gesù risponde : “Se uno mi ama, osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14, 23) . Il verbo  greco utilizzato in questa frase per dire “amare” è agapao, che esprime ‘’amore che rimane fedele, l’amore caratteristico di Dio. Chi ama Gesù di questo amore fedele si riconosce perché osserverà la Parola di Gesù Cristo. Questo osservare significa anche custodire, mantenere questa parola. Questo verbo ci suggerisce lo stile con cui dobbiamo trattare la Parola: non è solo tenerla sottochiave come un tesoro prezioso, ma guardarla spesso, rimirarla, soppesarla nel proprio cuore. E’ un dono di Colui che amiamo e non possiamo mai stancarci di guardarla e di ascoltarla, di meditarla, di soppesarla.
Chi si dedica a questo amore di Gesù e alla custodia della sua parola, sarà amato dal Padre. Questo avviene non tanto perché il Padre non ami anche gli altri, anzi il suo amore in ogni caso è precedente a quello dell’uomo e non si fa condizionare da esso in nessun senso. Chi ama il Figlio verrà amato dal Padre nel senso che nell’ascolto della parola e nel desiderio di essere unito a Dio, si renderà conto di questo amore che viene riversato su di lui e non potrà che gioirne. Il suo amore lo rende accogliente. Lui apre il cuore al Padre e al Figlio che possono prendere dimora presso di lui.
Questo aspetto della dimora era molto importante per il popolo di Israele. Il Signore più volte aveva promesso che sarebbe venuto ad abitare in mezzo a loro (Cfr. Ez 37,26-27; Zc 2,14) e Salomone stesso si stupiva come Dio avesse accettato di prendere dimora nel Tempio di Gerusalemme (1Re 8,27). Ora, grazie all’incarnazione, il cuore dell’uomo è capace di accogliere Dio (2Cor 6,16; Ef 3,17).
Inoltre, amare Gesù significa vivere come lui, nell’amore del Padre e dei fratelli. Andandosene da noi Gesù non ci lascia orfani: ci manda il suo Spirito, che ci permette di amare come lui. Se prima era con noi e presso di noi, d’ora in poi sarà in noi. Chi ama è dimora dell’amato: lo porta nel cuore, come sua vita. Noi da sempre siamo in Dio, che ci ama di amore eterno; se lo amiamo, anche lui è in noi come noi in lui.
 
            2) Obbedire è ascoltare  l’Amato e osservare la sua parola.
Papa Francesco insegna: “Cosa significa obbedire a Dio? Significa che noi dobbiamo essere come schiavi, tutti legati? No, perché proprio chi obbedisce a Dio è libero, non è schiavo! E come si fa questo? Io obbedisco, non faccio la mia volontà e sono libero? Sembra una contraddizione. E non è una contraddizione». Infatti «obbedire viene dal latino, e significa ascoltare, sentire l’altro. Obbedire a Dio è ascoltare Dio, avere il cuore aperto per andare sulla strada che Dio ci indica. L’obbedienza a Dio è ascoltare Dio. E questo ci fa liberi” (11 aprile 2013).
 
Nel brano romano del Vangelo di questa VI Domenica di Pasqua, Gesù collega l’amore verso di Lui con l’osservanza della sua parola: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola” (Osservare qui significa sia custodire che mettere in pratica).
Ma perché è così importante obbedire a Dio? Perché Dio ci tiene tanto a essere obbedito? Non certo per il gusto di comandare. Lui è un Padre che vuole dei figli e non degli schiavi. Questi figli sono chiamati ad amarlo mediante l’obbedienza, perché l’amore è realmente un’affermazione dell’altro, di un Altro: è obbedienza, praticate come l’affermazione di una presenza quale criterio e comportamento di vita.
L’obbedienza a Dio è importante perché, obbedendo a Lui, noi facciamo la Sua volontà di bontà e perfezione, vogliamo le stesse cose che Lui vuole, e così realizziamo la nostra vocazione originaria che è di essere “a sua immagine e somiglianza”. Siamo nella verità, nella luce e di conseguenza nella pace, come il corpo che ha raggiunto il suo punto di quiete. Dante Alighieri ha racchiuso tutto ciò in un verso tra i più belli di tutta la Divina Commedia: “e ’n la sua volontate è nostra pace” (Dante Alighieri, Paradiso, 3,85).
Per capire che la parola di Cristo non è un comando d’imposizione ma una legge di libertà amorosa, dobbiamo chiedere al Signore di farci capire che l’amore non è dare ciò che si ha, ma ciò che si è; allora si vuole anche ciò che gli altri sono, non le loro cose. Non il dono delle proprie cose è amore, ma il dono di sé. Non per nulla nella Sacra Scrittura l’amore è identificato all’obbedienza, perché l’obbedienza è il dono di sé. Se mi amate, osservate i miei comandamenti… Chi osserva i miei comandamenti, quello è colui che mi ama, dice Gesù nell’Ultima Cena.[1]
L’obbedienza cristiana è prima di tutto atteggiamento d’amore. È quel particolare tipo d’ascolto che c’è tra amici veri, perché illuminato dalla certezza che l’amico, che dà la vita per l’amico, ha solo cose buone da dire e da dare all’amico: un ascolto intriso di quella fiducia che ci accoglienti della volontà di Cristo, sicuro che essa sarà per il bene.
L’obbedienza a Dio è cammino di crescita e, perciò, di libertà della persona perché consente di accogliere un progetto o una volontà diversa dalla propria che non solo non mortifica o diminuisce, ma fonda la dignità umana.
 
3) Obbedire è vivere nella libertà.
Finché non c’è amore si obbedisce “costretti” da varie regole più o meno rigide e più o meno numerose. Nell’amore si ascolta la volontà dell’amato e si è lieti di metterla in pratica. L’obbedienza cristiana è libera e liberante., per questa obbedienza a Dio coincide anche con “il vero bene dell’Uomo”, di ogni uomo. Per il cristiano, l’amare Dio implica ovviamente l’obbedienza alla Sua volontà in vista di un sommo bene: la pace e l’amicizia con Dio e con gli uomini (si pensi alla “legge delle Beatitudini” data da Gesù durante il suo Discorso della Montagna.
La Madonna è, dopo Cristo, l’esempio più alto di obbedienza, di amore e di libertà. La Vergine Maria ha accolto con libertà suprema il Verbo di Dio. Lei ha “osservato” (=custodito e messo in pratica) fedelmente il dono dell’Amore di Dio, che grazie alla suo sì obbediente si è fatto carne e a posto la sua dimora in noi e tra noi. Lei ha obbedito alla suprema legge dell’amore. Con il suo libero sì, ha fatto sì che la verità e l’amore di Dio entrasse nel cuore di lei e di ogni essere umano, che come lei dice sì al dono di Dio. Allora Dio pone nel cuore umano la sua fissa dimora.           Non è un Dio qualsiasi:
è il Dio vivo,
che è amore,
che crea a sua immagine le libertà,
che libera dalla morte con la croce di Pasqua,
che apre all’uomo, nello Spirito Santo, lo spazio infinito della vera libertà.
Credere in questo Dio non è aderire ad una teoria, non è avere un’opinione sul divino e sull’umano. Credere è riconoscere una Presenza che ci ama. In effetti “la fede nasce dall’impatto dell’amore di Gesù con il cuore dell’uomo. La fede è l’iniziativa dell’amore di Gesù Cristo sul suo cuore.”(Benedetto XVI).
 
 
            3) Amore è felicità.
Un monaco agostiniano, che è rimasto anonimo, ha lasciato scritto: «L’amicizia è una virtù, ma l’essere amati non è una virtù, è la felicità». Prima bisogna essere amati, poi si può amare. Prima bisogna essere contenti di essere amati, poi si comunica questo amore pieno di gioia agli altri, osservando il comando dell’amore.
L’amore per Cristo è la risposta libera e totale alla scelta originaria che Lui ha fatto di noi, una risposta che non può essere vago sentimento, ma passa attraverso l’ascolto attento della parola di verità che Cristo ci ha annunciato, parola di vita, parola che salva, parola accolta, coltivata nel cuore e poi vissuta.
Chi ama veramente il Signore Lo ascolta, Lo segue, si lascia guidare da Lui, perché sa che obbedirgli non è cosa gravosa, ma è segno di amore che dice desiderio, affetto, amicizia, appartenenza. Di più, nel breve passo del Vangelo romano che oggi ci è proposto, l’amore è anche il luogo dell’incontro col Padre, il luogo in cui il Padre e il Figlio Gesù pongono la loro dimora: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola; il Padre mio lo amerà, e noi verremo da lui e faremo dimora presso di lui”. Il Vangelo di carità chiede di costruire case di carità, comunità di carità vissuta, che siano segno tangibile della novità di Cristo nella storia, lievito umile, ma fecondo, nella società individualista e conflittuale. Il cuore di queste comunità sono le Vergini consacrate. Questa donne testimoniano che l’amore è il dono di sé, e il dono di sé a un certo momento ha una sua riprova in questo: tu non puoi possedere più nulla dal momento che non possiedi te stesso. Lietamente hanno donato tutto all’Amore e diffondono questo Amore, lietamente.
Inoltre le Vergini consacrate mostrano con la loro esistenza donata interamente a Dio, che la profonda verità di questa affermazione di Cristo: “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui” (Gv 14, 21).
Come diceva sant’Ambrogio: “Le vergini consacrate sono nel mondo segno di vera bellezza”. La bellezza della vita consacrata è anche il tema di fondo dell’esortazione postsinodale Vita consecrata, sviluppato ampiamente partendo dall’icona della Trasfigurazione. “Come è bello restare con te, Signore, dedicarci a te, concentrare in modo esclusivo la nostra esistenza su di te!”. In effetti, chi ha ricevuto la grazia di questa speciale comunione di amore con Cristo, si sente come rapito dal suo fulgore: egli è “il più bello tra i figli dell’uomo” (Sal 45 [44], 3)» (n. 15).
 
 
Questa domenica consiglio due testi di San Tommaso, quindi si tratta di due scritti “quasi” patristici.
 
Preghiera per l’obbedienza di San Tommaso d’Aquino
 
“Rendimi, Signore mio Dio,
obbediente senza ripugnanza,
povero senza rammarico, casto senza presunzione,
paziente senza mormorazione, umile senza finzione,
giocondo senza dissipazione, austero senza tristezza,
prudente senza fastidio, pronto senza vanità,
timoroso senza sfiducia, veritiero senza doppiezza,
benefico senza arroganza,
così che io senza superbia corregga i miei fratelli
e senza simulazione li edifichi con la parola e con l’esempio.
Donami, o Signore, un cuore vigile
che nessun pensiero facile allontani da te,
un cuore nobile che nessun attaccamento ambiguo degradi,
un cuore retto che nessuna intenzione equivoca possa sviare,
un cuore fermo che resista ad ogni avversità,
un cuore libero che nessuna violenza possa soggiogare.
Concedimi, Signore mio Dio,
un’intelligenza che ti conosca,
una volontà che ti cerchi,
una sapienza che ti trovi,
una vita che ti piaccia,
una perseveranza che ti attenda con fiducia,
una fiducia che, alla fine, ti possegga.”
 
Lettura (quasi) Patristica
Dagli Opuscoli teologici di San Tommaso d’Aquino
 
La Legge della divina carità
“E’ evidente che non tutti possono dedicarsi a fondo alla scienza; e perciò Cristo ha emanato una legge breve e incisiva che tutti possano cono­scere e dalla cui osservanza. nessuno per ignoranza possa ritenersi scusato. E questa è la legge della divina carità. Ad essa accenna l’Apostolo con quelle parole: “Il Signore pronunzierà sulla terra una parola breve” (Rm 9, 28).
Questa legge deve costituire la norma di tutti gli atti umani. Come infatti vediamo nelle cose artificiali che ogni lavoro si dice buono e retto se viene compiuto secondo le dovute regole, così anche si riconosce come retta e virtuosa la azione dell’uomo, quando essa è conforme alla re­gola della divina carità. Quando invece è in con­trasto con questa norma, non è né buona, né retta, né perfetta.
Questa legge dell’amore divino produce nel­l’uomo quattro effetti molto desiderabili. In primo luogo genera in lui la vita spirituale. E’ noto in­fatti che per sua natura l’amato è nell’amante. E perciò chi ama Dio, lo possiede in sé medesimo: “Chi sta nell’amore sta in Dio e Dio sta in lui” (1 Gv 4, 16). E’ pure la legge dell’amore, che l’aman­te venga trasformato nell’amato. Se amiamo il Si­gnore, diventiamo anche noi divini: “Chi si unisce al Signore, diventa un solo spirito con lui ” (1 Cor 6, 17). A detta di sant’Agostino, “come l’anima è la vita del corpo, così Dio è la vita dell’anima ”. L’anima perciò agisce in maniera virtuosa e per­fetta quando opera per mezzo della carità, me­diante la quale Dio dimora in essa. Senza la carità, in verità l’anima non agisce: “Chi non ama rimane nella morte” (1 Gv 3, 14). Se perciò qualcuno pos­sedesse tutti i doni dello Spirito Santo, ma non avesse la carità, non avrebbe in sé la vita. Si tratti pure del dono delle lingue o del dono della fede o di qualsiasi altro dono: senza la carità essi non conferiscono la vita. Come avviene di un cadavere rivestito di oggetti d’oro o di pietre preziose: resta sempre un corpo senza vita.
Secondo effetto della carità è promuovere la osservanza dei comandamenti divini: “L’amore di Dio non è mai ozioso — dice san Gregorio Magno —quando c’è, produce grandi cose; se si rifiuta di essere fattivo, non è vero amore”. Vediamo infatti che l’amante intraprende cose grandi e difficili per 1’amato: “Se uno mi ama osserva la mia parola”(Gv 14, 25). Chi dunque osserva il comandamento e la legge dell’amore divino, adempie tutta la legge.
Il terzo effetto della carità è di costituire un aiuto contro le avversità. Chi possiede la carità non sarà danneggiato da alcuna avversità: “Ogni cosa concorre al bene di coloro che amano Dio ”(Rm 8, 28); anzi è dato di esperienza che anche le cose avverse e difficili appaiono soavi a colui che ama.
Il quarto effetto della carità è di condurre alla felicità. La felicità eterna è promessa infatti soltanto a coloro che possiedono la carità, senza la quale tutte le altre cose sono insufficienti. Ed è da tenere ben presente che solo secondo il diverso grado di carità posseduto si misura il diverso grado di felicità, e non secondo qualche altra virtù. Molti infatti furono più mortificati degli Apostoli; ma questi sorpassano nella beatitudine tutti gli altri proprio per il possesso di un più eccellente grado di carità. E così si vede come la carità ot­tenga in noi questo quadruplice risultato.
Ma essa produce anche altri effetti che non vanno dimenticati: quali, la remissione dei peccati, l’illuminazione del cuore, la gioia perfetta, la pace, la libertà dei figli di Dio e l’amicizia con Dio.
 
Dagli “Opuscoli teologici ” di san Tommaso d’Aquino, sacerdote; in Opuscula theologica, II, nn. 1137-1154,
[1] Ecco il contesto : 
Il brano di questa domenica è la parte finale del discorso di addio rivolto da Gesù ai suoi discepoli durante l’Ultima Cena, che occupa tutto il capitolo 14 del vangelo di Giovanni. L’inizio di tale discorso è nel capitolo precedente (13,33) di cui abbiamo ascoltato una parte la scorsa domenica, e un suo ampliamento nei capitoli 15-17. Gesù saluta i suoi prima della sua passione, ma indica loro anche ciò che devono fare in attesa del suo ritorno; le sue parole non sono solo per i dodici ma anche per i discepoli di tutti i tempi. Anche questa volta il contesto è importante, suggerisco quindi di collocarlo all’interno del capitolo 14 che ha questa struttura: 
prima parte: La via per giungere al Padre (14,1-14) 
seconda parte: La comunione tra Gesù e la sua comunità (14,15-26) 
terza parte: la partenza di Gesù e il dono della pace (14,27-31.
***
Mons. Francesco Follo è Osservatore Permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi.

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Archbishop Francesco Follo

Monsignor Francesco Follo è osservatore permanente della Santa Sede presso l'UNESCO a Parigi.

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