"Mio papà non mi chiedeva di diventare qualcosa d'altro ma di essere me stesso"

Secondo Franco Nembrini, insegnante ed educatore, i ragazzi d’oggi soffrono di un forte senso di colpa e desiderano soltanto essere accolti, amati e perdonati

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“Un giorno uno dei miei figli prende a insultarmi e dice: ‘vai a insegnare per l’Italia letteratura a tutti e a me non hai mai spiegato niente. Lunedì ho l’interrogazione su Dante’. Allora gli ho detto ‘Va bene, domani sera rimango a casa e studiamo insieme’. Quella sera c’era lui, il fratello e due vicini di casa. Sono rimasti così colpiti che questo mio figlio mi dice: ‘Papà, perché non andiamo avanti domenica prossima?’. Insomma, di domenica in domenica ci trovavamo a leggere Dante, ma il gruppo aumentava sempre. Avevamo cambiato più case alla ricerca di taverne sempre più capienti, alla fine siamo finiti in una scuola. Ad aprile dell’anno dopo li ho contati e erano duecentottanta quattro ragazzi che, invece di ‘farsi le canne’, per un passaparola, senza nessun avviso in parrocchia o a scuola, si ritrovavano a leggere Dante; chi portava la fidanzata, chi i compagni di classe o gli amici dell’oratorio… Quella volta ricordo che pensai: ‘il primo che parla male dei giovani di oggi deve prima passare sul mio corpo’. Questi giovani non vedono l’ora di poter vivere per qualcosa di grande.

Ho cominciato ad essere chiamato in alcune città e mi sono ritrovato duemila tremila giovani. Dante era proprio quello che la scuola italiana, per cinquant’anni, aveva rinnegato e sepolto dichiarandolo incomprensibile, non adeguato ai tempi. Il problema invece era che Dante è un cristiano di una forza, una limpidezza, una capacità di sfida, che lo può capire solo chi questa sfida la raccoglie. Noi, davanti alla vita, ce l’abbiamo quella forza lì, di quell’uomo che racconta di sé stesso la selva oscura, il bisogno, il miserere, andar dietro a un maestro, andare a conoscere tutto il proprio male, trovare un percorso per cui questo male possa essere perdonato e avere perciò accesso a una vita che è un pezzo di paradiso su questa terra?”.

Così Franco Nembrini, professore, educatore e dantista, racconta il suo lavoro con i ragazzi. Preside della scuola bergamasca “Le tracce”, tiene incontri in tutto il mondo sul rischio educativo e su Dante e sarà a Roma dal 14 al 18 gennaio 2015. Gli appuntamenti si svolgeranno nelle parrocchie di San Bernardo di Chiaravalle, Santa Maria Regina Mundi, Gran Madre di Dio e San Timoteo.Per l’occasione il prof. Nembrini è stato intervistato da ZENIT sulla questione dell’emergenza educativa.

***

Qual è la percezione che i ragazzi hanno di sé stessi e della realtà?

Mi sembra che questa sia una generazione di ragazzi che non si piacciono e non in senso estetico e superficiale: c’è un oscuro sentimento di colpa, che si può esprimere nella domanda: “ma cosa ho fatto di così grave da non poter essere amato, accolto e perdonato?”. Mentre la generazione precedente sosteneva che il mondo andava cambiato e riversava tutta la sua rabbia e violenza all’esterno, questi ragazzi esercitano invece una qualche forma di violenza contro se stessi. Senza andare a valutare la percentuale dei suicidi, il tipo di patologie come l’anoressia, la bulimia, gli emo che si tagliano, gli attacchi di panico, fa pensare che questi ragazzi non si stimano, si puniscono per qualcosa, e gli psichiatri confermano che c’è questo fenomeno da affrontare.

L’educazione è sinonimo di misericordia? In che senso?

L’educazione mi sembra l’azione perfettamente coincidente con quello che è il cristianesimo: che cosa ha fatto con noi Dio quando ha visto la povertà e l’infelicità dell’uomo? Ci ha amati; amati vuol dire che ha dato la vita per noi prima, prima che diventassimo buoni.

Amare è affermare il valore dell’altro prima di ogni volontà di cambiamento pur giustificata, indipendentemente dalla sua performance. Spesso noi è come se nei fatti comunicassimo un messaggio molto diverso, cioè ‘potrei volerti bene se tu cambiassi’, mentre l’educatore dovrebbe essere quello che sa dire ‘io darei la vita per te prima che cambi, prima che diventi migliore’.

Una volta uno dei miei figli, cresta da ultimo dei Mohicani, aveva chiuso con me e mia moglie da un anno e mezzo. Non sapendo più cosa fare, gli ho detto. “Guarda, io devo andare a Roma, se vuoi ti do cinque giorni di assenza da scuola. Scegliti cinque amici; voi andate in giro e poi ci ritroviamo la sera”. Era l’unica cosa che potevo fare ancora per dirgli: “ci sono”. Siamo stati insieme per cinque giorni e lui ha continuato a non parlarmi. L’ultima sera, passeggiando sul Lungotevere, mi dice: “Papà, posso chiederti una cosa?”. “Certo, dimmi”. Silenzio per un minuto. “Nella vita si può ricominciare?”. Avevo gli occhi gonfi di commozione, era il problema che tutti abbiamo: nella vita si può ricominciare? E hai bisogno di qualcuno che ti dica: “certo, sempre, sempre!”.

Come le è stato trasmesso questo amore gratuito all’interno della sua famiglia?

L’esperienza che ho fatto io è molto semplice: due genitori che dovevano lavorare tutto il giorno e avevano dieci figli; erano molto asciutti e nelle parole e nei gesti, ma ci guardavano in un modo che ti faceva capire che avrebbero dato la vita per te.

Nella sua esperienza con i figli come ha ripreso tutto questo?

Con i miei figli ho cercato di imitare questa chiarezza che avevo visto vivere dai miei genitori: ringrazio mio padre per essersi occupato più della sua santità che della mia, era come se con la coda nell’occhio mi dicesse ‘Franco, io vado, io corro nella vita, vedi un po’ tu… Paragona, quello di cui ti dò testimonianza con quello che vedi tu…”. Mi viene da dire che era un uomo che avrebbe potuto avere scritto in fronte: “corro nella corsa per afferrarlo, io che sono stato afferrato da Cristo”; e ti guardava così, con questa cosa che gli brillava negli occhi, e tu non ti sentivi trascinato con l’ansia di dover diventare qualcosa d’altro: mio papà non mi chiedeva di diventare qualcosa d’altro, mi chiedeva di essere me stesso, di lavorare su di me per accedere a quella letizia che gli vedevo vivere.

Spesso si mira a cambiare il ragazzo, mentre lei dice che il primo problema non è convertirli e farli diventare cristiani: in che senso?

Questa cosa io l’ho imparata da don Giussani: “l’educazione è introduzione alla realtà”. Che un prete non dica che l’educazione ha per scopo far diventare cristiani i ragazzi, è impressionante. Poi uno si chiedeva il perché, e il perché era questo: don Giussani era così sicuro della bontà della realtà fatta da Dio e della bontà del cuore dell’uomo fatto da Dio, che era come se dicesse: “compito degli educatori è semplicemente quello di far parlare la libertà dei ragazzi, la ragione che Dio ha dato loro, e le cose che accadono, proprio le cose, la realtà”. Se questo dialogo è ben impostato, è inevitabile che emerga in loro il senso religioso, perciò la domanda su Dio e il percorso verso la fede.

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Maria Gabriella Filippi

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