Meriam: "Non ho perso la speranza. Questo sostegno mi ragala fiducia"

Trapelano, per bocca del suo avvocato, le prime parole della 27enne cristiana condannata a morte per apostasia a Karthoum e costretta a partorire in carcere la sua secondogenita

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“Io ci credo davvero nella mia libertà, non ho perso la speranza”. A parlare è Meriam Ibrahim, la 27enne cristiana sudanese condannata a morte da un tribunale di Karthum per apostasia. La sua vicenda ha provocato l’indignazione del mondo intero che non ha esitato a mobilitarsi con campagne e appelli per chiederne la liberazione.

E Meriam questo lo sa, “è felice della pressione internazionale a suo favore, sa che c’è tanta gente là fuori che la sta appoggiando”, riferisce il suo avvocato Mohamed Kelnour sulle pagine di Avvenire. Lei, ha proseguito il legale, “mi ha detto più volte che è qualcosa che riesce a renderla più forte in una situazione tanto complicata: questo sostegno le regala fiducia”. E lo stesso è per il marito Daniel, il quale è tornato a far visita alla moglie in carcere domenica. 

La donna è rinchiusa in carcere ormai da diversi mesi, insieme al figlio di 21 mesi e alla secondagenita Maya partorita, lo scorso 27 maggio, in cella e con le catene ai piedi. Ancora adesso, conferma Kelnour, “Meriam si trova nell’ala ospedaliera della prigione in cui ha partorito” la figlioletta. “Le hanno tolto le catene, ma presto potrebbe dover tornare in cella”.

Sabato scorso, il mondo aveva tirato un sospiro di sollievo alla notizia di un rilascio imminente della cristiana. Il sottosegretario del Ministero degli Esteri, Abdallah Alazrag, aveva infatti dichiarato alla Bbc che la prigioniera sarebbe stata “rilasciata a giorni” e che “sicuramente” la sentenza di morte sarebbe stata revocata. Notizie, queste, presto ritrattate dal Governo sudanese.

L’avvocato aveva infatti proceduto con cautela a riguardo, e sempre al quotidiano della Cei aveva anticipato che “in Sudan nessun potere politico può alterare un verdetto. Solo l’Alta Corte può decidere in merito al ricorso che abbiamo presentato”. Parole confermate poi, domenica pomeriggio, da una nota del ministero degli Esteri di Khartum che riferiva: “Non c’è nessun piano per rilasciare Meriam prima che ciò venga deciso dalla Corte d’appello”. 

Secondo il collegio difensivo della donna, le dichiarazioni del sottosegretario Alazrag avevano come obiettivo quello di “tenere buoni” i media e allentare le pressioni sul governo sudanese. La speranza dei legali – riferisce Avvenire – è che già questo mese possa essere accolta la domanda d’appello, anche se, con loro sconcerto, ancora ieri dal tribunale sostenevano di non aver ricevuto l’incartamento. 

“Non abbiamo alcuna certezza sui tempi, nessuno ci ha contattato – afferma Kelnour –. Noi non vediamo l’ora di poter evidenziare durante l’appello gli errori e le testimonianze rimaste inascoltate. Qui non si tratta di stabilire se Meriam prima fosse musulmana e poi è diventata cristiana oppure se sia sempre stata cristiana: non è quello il nostro compito. Si tratta invece di appurare se, in base alla Costituzione che garantisce la libertà di fede, Meriam abbia o meno il diritto di scegliersi la religione che preferisce. E noi crediamo che questo diritto ce l’abbia, lei come tutti”.

In ogni caso, non sarà una cosa breve. “Anche una volta iniziato l’appello, non c’è certezza sui tempi: il procedimento potrebbe durare un mese, due, tre”, dice l’avvocato. Intanto, però, i legali hanno anche presentato un’ulteriore istanza, indirizzata alla Commissione africana dei diritti dell’uomo, il cui statuto, ratificato dal Sudan, sostiene che l’apostasia non è un reato.

L’avvocato conferma poi i timori legati alla sicurezza della donna nel momento in cui ne fosse deciso l’eventuale rilascio. “Al-Saman Al-Hady, che si è presentato ai giudici sostenendo di essere il fratello di Meriam, ha detto che o lei ridiventa islamica, e in quel caso tornerebbe ad essere ‘onorata’, oppure va uccisa insieme a tutti quelli che hanno abbandonato la fede. Meriam, peraltro, questo signore non l’ha mai visto prima. Altro che fratello”. 

(S.C.)

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ZENIT Staff

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