Mauro Rostagno: l'impegno per gli altri come vocazione

La sentenza emessa ieri ha confermato che a uccidere il giornalista, nelle campagne vicino Trapani, fu la mafia

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Dopo venticinque anni costellati di depistaggi e vicissitudini giudiziarie, è arrivata la sentenza: Mauro Rostagno è stato ucciso dalla mafia. Una verità di cui tanti erano già sicuri, sin da quel 26 settembre 1988, quando nelle campagne di Lenzi, nel trapanese, Rostagno fu eliminato brutalmente, a colpi di fucile e di pistola.

Ne erano sicuri la famiglia e gli amici più stretti di quest’uomo poliedrico, dalle tante vite. “Un uomo non riducibile a etichette”, come lo descrive il prof. Paolo Sorbi, che a Rostagno fu legato da una profonda amicizia nata tra i corridoi universitari a Trento, nel 1964.

Una figura, quella di Rostagno, gravida di passione per l’impegno sociale e capace fin da allora di trascinare le persone, tanto da divenire il “leader indiscusso della contestazione studentesca”. La sua passione per lo studio la declinò nella lotta politica: l’educazione come strumento di prossimità verso i poveri, gli emarginati.

Una vocazione che lo portò dapprima ad aprire un centro culturale a Milano, dal nome d’ispirazione letteraria Macondo, e poi a imbarcarsi su un aereo e partire verso l’India, un mito esotico. Tornato da quell’esperienza, con la stessa attitudine raminga lui, torinese doc, decise di trasferirsi in Sicilia. “Non si capisce l’arrivo di Mauro a Trapani, se non si considera che lui fu per molti anni uno dei punti di riferimento di Lotta Continua nel Sud Italia”, racconta Sorbi. Il quale prosegue: “La battaglia contro la mafia è il risultato di questo suo impegno verso il prossimo”.

Battaglia che Rostagno sente di dover sposare appena si immerge in quello “stagno putrido di complicità e omertà” che era la Trapani di quel tempo, come ha affermato Maddalena, la figlia di Rostagno, in un articolo pubblicato su Famiglia Cristiana nel 2011. Politica, massoneria, criminalità: è fitto l’intreccio con il quale la mafia riesce a tenere in pugno la società.

Rostagno afferra così una telecamera e prova a raccogliere questa realtà e offrirla ai trapanesi, entrando ogni sera nelle loro case attraverso la piccola, ma molto seguita, emittente locale Rtc. “E comincia a parlare di mafia – scrive ancora Maddalena Rostagno -, degli incontri occulti tra Licio Gellie Mariano Agate, il luogotenente della malavita trapanese degli anni Ottanta, dell’ufficio ‘parallelo e occulto’ che gestirebbe il bilancio del comune di Trapani, dell’omicidio del giudice Ciaccio Montalto, della strage di Pizzolungo, del traffico di armi e rifiuti tossici con la Somalia ‘cogestito da Cosa Nostra e da settori deviati dei servizi segreti’”.

Prova a scuotere la cittadinanza e accendere un moto di ribellione verso l’ingiustizia e la sopraffazione. L’uomo con quella barba nera che fa da cornice a un viso sorridente, il giornalista con la camicia bianca e la telecamera sempre in mano si fa presto molti nemici, assai pericolosi.

“Diteci a chiddu ca varva e vistutu di bianco ca finissi di riri minchiati”, è l’avviso di un boss mafioso che, pur sotto forma dialettale, appare sin troppo esplicito. Un avviso che Rostagno ascolta, ma poi prosegue per la sua strada. Scelta che poco tempo dopo farà sì che quella strada venga lastricata del suo stesso sangue.

Il processo per arrivare alla verità di quell’omicidio parte in salita. Calunnie e prove false si inseriscono in un caleidoscopio giudiziario che fagocita come complici e mandanti anche persone molto care a Rostagno: la compagna Chicca Roveri, alcuni membri della comunità Samam, da lui fondata per il recupero dei tossicodipendenti.

Una matassa che sembra impossibile da sbrogliare. Sin quando, nel 2008, alcuni magistrati raccolgono e riordinano i pochi indizi lasciati dagli assassini: tracce di Dna e bossoli da sottoporre ad accurate prove balistiche. In pochi anni si arriva alla sentenza. Come disse un sacerdote, durante i funerali di Rostagno: “La mafia siciliana, protagonista invisibile, è tornata a colpire”.

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Federico Cenci

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