Maria non abbandona mai i sofferenti

La preghiera di Maria Santissima scioglie la incomunicabilità del dolore

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di padre Mario Piatti icms, 
Direttore della rivista “Maria di Fatima”

ROMA, sabato, 11 febbraio 2012 (ZENIT.org).- Pensando a Lourdes, alle folle di pellegrini che ogni anno immancabilmente frequentano e “assediano” il Santuario, immagino spesso il difficile ma gioioso cammino di Bernadette, il suo candore infantile, la sua fede ardente e tenace, la sua sofferta attesa di rivedere in Cielo la Madre del suo Signore, nella gloria del Paradiso.

Tutto -come sempre accade nei “luoghi dello Spirito”- è dono di Grazia, affidato però alla libera e generosa adesione della nostra libertà: le opere di Dio nascono così e continuano a portare frutto, nel tempo, per il carisma originario che le ha generate e per la semplicità evangelica che le accompagna, propria del cuore dei Santi e riflessa nella devozione e nella preghiera di tanti nostri fratelli.

Edifici sacri, opere d’arte, celebrazioni solenni, iniziative e convegni culturali devono attingere sempre la loro linfa vitale dalle essenziali e “povere” radici del Vangelo: dalla quotidiana e affettuosa ripetizione del saluto angelico dell’Ave, nella ininterrotta e fervida meditazione dei misteri del Rosario; dalla frequenza ai Sacramenti; dal sostare silenzioso e orante là, dove la Vergine è apparsa, o dinanzi alla Eucaristia.

Lo sconosciuto villaggio dei Pirenei, in particolare, è divenuto ormai il simbolo universale della umana sofferenza: non come crocevia di un dolore cieco e senza senso o di una sterile e fastidiosa compassione, ma quale centro e “capoluogo” della speranza cristiana, cittadella della solidarietà, dove tutto -un sorriso, un gesto di attenzione, una parola di conforto- acquista un significato e una fragranza nuovi.

La sofferenza, che immancabilmente segna la vita e il destino dell’uomo, ritrova, per grazia, la sua piena dignità e si apre a imprevisti scenari interiori di libertà, di luce e di pace. Illuminata dalla Croce, l’ora più cupa dell’angoscia è finalmente pervasa come da un fremito primaverile, che attraversa l’anima e fa presagire la forza e la grazia della Risurrezione.

Cristo, uomo dei dolori, che ben conosce il patire (Is. 53,3), ha voluto associare a sé la Madre, che in tutto ha condiviso l’esperienza del Redentore. Esperta nel soffrire, nella sapienza del dolore, Ella predilige l’innocenza dei piccoli, vuole infondere nella loro anima i tratti propri del suo Immacolato Cuore e chiede a questi suoi figli prediletti di partecipare della sua stessa offerta generosa al Padre.

La preghiera di Maria Santissima scioglie la incomunicabilità del dolore e lo rende tesoro e patrimonio comune della Chiesa e della umanità.

Nel Magnificat (Lc 1,51) esclama che il Signore ha spiegato la potenza del suo braccio, non per trionfare con la violenza delle armi, ma per innalzarsi tra il Cielo e la terra, sul trono della Croce, quale nuovo e irrevocabile segno di alleanza tra Dio e l’umanità. La potenza di Jahvé, del Signore degli eserciti, si manifesta, inaspettatamente, nella fragilità e nella debolezza della carne. Così, nella esperienza della Chiesa, la vera forza nasce dalla carità, si tempra e si purifica nella prova, divenendo luce di speranza e di sapienza evangelica per il mondo.

La devozione sincera e filiale nei confronti della Vergine dispone il cuore a questa “intelligenza della vita”, che capovolge i criteri abituali del mondo e contraddice, finalmente, il nostro radicale egoismo, ci rende capaci di donarci, senza riserve, a Dio e ai fratelli, anche e soprattutto nei momenti più difficili. Lo attestano i Santi che, alla scuola di Maria, hanno imparato che il vero amore è sempre crocifisso; lo conferma l’esperienza quotidiana di tante anime, comuni e semplici, ma straordinariamente speciali, che, unite alla Madre del Signore, fanno della loro vita un perenne olocausto di amore.

Ricordo, tra i tanti volti, quello di una giovane mamma. La lunga malattia l’aveva resa ancora più bella, in quel viso dolcissimo che portava gli impietosi segni della malattia e delle devastanti terapie subite. Mai un lamento, mai un rimprovero, mai il sospetto nei confronti della bontà di Dio, nonostante la pena di dover lasciare la sua amata famiglia e i suoi quattro figli. Solo la forza della Eucaristia l’ha sostenuta, insieme a quella povera corona, sempre stretta e consumata ormai tra le sue mani e recitata fino alla fine.

La Vergine Santa impetra per noi la grazia della cristiana rassegnazione: non come passiva accettazione della prova, ma come libera e coraggiosa adesione a un progetto di bene infinitamente più grande e più prezioso. Ella –con il suo irrevocabile Stabat– ci insegna a rimanere saldi ai piedi della Croce, accanto ai nostri fratelli, in quel vincolo di comunione e di amore che è la Chiesa.

Ogni cuore che patisce è segno visibile e credibile della maestà del dolore, assimilato al Mistero Pasquale che ci salva. Anche l’oscura ombra della sofferenza diviene rinnovata opportunità per ripensare alla vita, al nostro destino; è propizia occasione di conversione: “… può trasformarsi in tempo di grazia per rientrare in se stessi e, come il figliol prodigo della parabola, ripensare alla propria vita, riconoscendone errori e fallimenti, sentire la nostalgia dell’abbraccio del Padre e ripercorrere il cammino verso la sua Casa” (Messaggio per la XX Giornata Mondiale del malato 2012, n.2).

In questa epoca di indifferenza e di confusione, Maria Santissima ci indica, ancora una volta, la forza, disarmata ma invincibile, dell’Amore. Per quei paradossi evangelici, che capovolgono i comuni criteri di giudizio del mondo, l’infermità è dono prezioso di Cielo, materna carezza dell’eterna Bontà e presagio di beatitudine e di pace.

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ZENIT Staff

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