Lotta contro la povertà per una soluzione all’emergenza profughi

L’intervento del card. Luis Antonio Tagle, arcivescovo di Manila e presidente di Caritas Internationalis, alla Fondazione Centesimus Annus-Pro Pontifice

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Riportiamo una nostra traduzione dell’intervento che il cardinale Luis Antonio G. Tagle, arcivescovo di Manila e presidente di Caritas Internationalis, ha pronunciato alla Fondazione Centesimus Annus Pro Pontifice, riunita nei giorni scorsi a Roma.
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Uno dei “segni dei tempi”, o meglio le azioni dello Spirito Santo nel mondo e nella Chiesa negli ultimi decenni è stata la preoccupazione di conseguire un autentico sviluppo integrale dell’essere umano, delle società e di tutta la famiglia umana. Il corpo di insegnamento che costituisce la Dottrina sociale della Chiesa, soprattutto in questi ultimi sei decenni si concentra intorno a questa preoccupazione. Nel 1967 il beato Papa Paolo VI pubblicò la sua enciclica Populorum Progressio (PP) sullo sviluppo umano integrale.
Il ventesimo anniversario della sua pubblicazione è stata ricordata da san Giovanni Paolo II con l’enciclica Sollicitudo rei socialis (SRS) che ha cercato di applicare alle condizioni contemporanee l’insegnamento di Montini.
Venti anni più tardi, nel 2009 il Papa emerito Benedetto XVI ha pubblicato l’enciclica Caritas in veritate (CV) in continuità con quanto scritto nella Populorum progressio, indicata come la Rerum novarum dell’epoca contemporanea.
Papa Benedetto ci ha ricordato che lo sviluppo integrale spiegato da Paolo VI aveva lo scopo di produrre una crescita reale, estensibile a tutte le persone e concretamente sostenibile.
Secondo Paolo VI la crescita economica non deve essere perseguita solo per sè stessa, piuttosto deve essere integrata in un più completo sviluppo dell’essere umano.
Nella Populorum Progressio al numero 20 è scritto: Se il perseguimento dello sviluppo richiede un numero sempre più grande di tecnici, esige ancor di più uomini di pensiero capaci di riflessione profonda, votati alla ricerca d’un umanesimo nuovo, che permetta all’uomo moderno di ritrovare se stesso, assumendo i valori superiori d’amore, di amicizia, di preghiera e di contemplazione. In tal modo potrà compiersi in pienezza il vero sviluppo, che è il passaggio, per ciascuno e per tutti, da condizioni meno umane a condizioni più umane”
Queste sono parole che dovrebbero essere ascoltate nel nostro tempo, considerando che a causa del rapido scambio di informazioni, siamo costretti a fornire risposte e opinioni in tempi rapidi senza pensarci troppo, senza studiare e pregare.
Ma il vero sviluppo integrale ha bisogno di coltivare le capacità veramente umane di pensare, riflettere e pregare.
Giovanni Paolo II è stato molto disturbato da quanto accaduto venti anni dopo la Populprum Progressio.
Nella Sollicitudo rei socialis al n.14 è scritto: “A guardare la gamma dei vari settori-produzione e distribuzione dei viveri, igiene, salute e abitazione, disponibilità di acqua potabile, condizioni di lavoro, specie femminile, durata della vita ed altri indici economici e sociali-, il quadro generale risulta deludente, a considerarlo sia in se stesso sia in relazione ai dati corrispondenti dei Paesi più sviluppati. La parola «fossato» ritorna spontanea sulle labbra”
E Benedetto XVI nella Caritas in veritate al n.21 ha aggiunto: È vero che lo sviluppo c’è stato e continua ad essere un fattore positivo che ha tolto dalla miseria miliardi di persone e, ultimamente, ha dato a molti Paesi la possibilità di diventare attori efficaci della politica internazionale. Va tuttavia riconosciuto che lo stesso sviluppo economico è stato e continua ad essere gravato da distorsioni e drammatici problemi, messi ancora più in risalto dall’attuale situazione di crisi”.
Più di recente, nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium (EG), Papa Francesco ha dedicato una sezione a quella che ha definito una economia dell’esclusione.
Al numero 53 ha scritto: “Così come il comandamento ‘non uccidere’ pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire “no a un’economia dell’esclusione e della inequità”. Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa. Questo è esclusione. Non si può più tollerare il fatto che si getti il cibo, quando c’è gente che soffre la fame. Questo è inequità. Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Come conseguenza di questa situazione, grandi masse di popolazione si vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita. Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono “sfruttati” ma rifiuti, “avanzi”.
L’osservazione sollevata da Papa Francesco è inquietante, perchè ci sono persone che sono state utilizzati e poi spinte ai margini della società.
Si tratta di persone escluse dalla crescita e dallo sviluppo.
Ma se la maggioranza dei popoli sono esclusi dalla crescita, dobbiamo chiederci che tipo di crescita è quella che esclude la maggior parte della famiglia umana?
Non pretendo di offrire soluzioni a problemi quali quelli che vengono indicati come emergenza profughi.
Se guardiamo con un approccio più ampio al problema, evitando le distinzioni tra un rifugiato e un migrante, potremmo benissimo includere nella situazione di emergenza le persone sfollate dalle loro terre d’origine, non solo per i conflitti e le attività terroristiche, ma anche per la povertà e le calamità naturali .
Purtroppo le condizioni di sottosviluppo, insicurezza, terorsimo, guerra e instabilità stanno spingendo a migrazioni forzate intere popolazioni.
Questa situazione sta generando fenomeni quali la tratta degli esseri umani e nuove forme di schiavitù, in altre parole, un commercio di essere umani che vale miliardi di dollari o euro.
È un grave peccato che il commercio prosperi sulla miseria di altre persone. Ma dobbiamo chiederci: “Qual è la risposta dei figli della luce?”. Cerchiamo di tracciare alcuni percorsi verso una risposta. C’è bisogno di un ritorno ad una visione della vita come grazie e dono, con il primato della gratuità che purtroppo viene ignorata dalla visione utilitaristica, consumista e pragmatic della vita.
Una visione esclusivamente funzionale della vita ci convince erroneamente che siamo noi la fonte e gli autori di noi stessi, della vita umana, e di tutti gli aspetti della società. Tutto gira intorno al ‘mio successo’. Non c’è nulla di donato o ricevuto, solo raggiunto e meglio se raggiunto da solo. Una tale visione del mondo cancella la gratitudine, la fiducia e la genuine condivisione genuina.
Nel Vangelo (Mt 6, 32) Gesù dice: “Non siate dunque in ansia, dicendo: “Che mangeremo? Che berremo? Di che ci vestiremo?” Perché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; ma il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose. Cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno date in più”. Anche nella vita di famiglia, dobbiamo chiederci se i coniugi considerano l’un l’altro come regali o come problemi, o i loro figli come un peso.
La gratuità e la fraternità si fondono insieme. Papa Benedetto osserva che le norme economiche attuali sottolineano il valore della giustizia commutativa ed è giusto così. Ma ci avverte che il dare e il ricevere è ridotto a una transazione sulla base di stretta equivalenza e potrebbe portare ad una dimenticanza della giustizia distributiva e sociale radicata nella solidarietà.
I contratti che regolano lo scambio tra beni di valore equivalente sono necessari, ma doverosi anche le leggi giuste e le forme di distribuzione dei “doni” come condivisione genuine tra fratelli e sorelle. Dobbiamo anche dire che non tutti gli atti esteriori del donare sono altruisti. Il dono viene utilizzato a volte per tenere in osatggio le persone, si tratta di atti manipolative e violano i diritti dei destinatari.
Una delle mie esperienze più strazianti come vescovo è stato quando ho presieduto una liturgia funebre di due bambini, di età compresa tra sei e cinque anni. Erano fratelli. Sono morti dopo aver mangiato cibo raccolto dal padre da un bidone della spazzatura nei pressi di un ristorante.
Come faceva ogni giorno, quando non riusciva a guadagnare abbastanza per comprare cibo per la sua famiglia, il papa dei due bambini è andato a scovare tra la spazzatura il cibo scartato dai clienti dei ristorante. Poi bolla questo cibo, lo condiva di nuovo e lo serviva alla sua famiglia. Quella sera fatidica, i suoi due figli sono rimasti avvelenati da quel cibo.
Non sapevo che dire. Come si fa a proclamare la Buona Novella? Nella mia mente c’era una domanda assillante: “Perché il cibo deve diventare spazzatura prima di essere somministrato ai bambini? Perché non poteva essere dato come un dono quando era fresco e invece è arrivato come spazzatura?
C’è bisogno di un ritorno alla fede nel Creatore e una presa di coscienza di essere solo amministratori. Un bravo amministratore rispetta la volontà del vero proprietario. Un amministratore non pretende di essere il proprietario. Un amministratore non fa un uso improprio e non abusa del dono della creazione.
Nella encciclica Laudato Si’, Papa Francesco invita l’umanità ad una conversione all’ecologia integrale che collega l’ecologia ambientale con l’ecologia umana. Egli ci invita anche a esercitare la giustizia ecologica come giustizia intergenerazionale.
Che tipo di mondo dovremmo lasciare alle generazioni future? Dovremo agire come amministratori buoni e fedeli della creazione, perché il Creato è un dono di Dio per tutti, solo così saremmo responsabili del nostro modo di utilizzare e sviluppare la terra. C’è bisogno di una ricerca del bene comune. L’attività economica come motore per la generazione di ricchezza deve marciare insieme con la giustizia distributiva al fine di raggiungere il bene comune.
Da questo punto di vista, il bene comune è l’ambiente sociale in cui le singole persone e le famiglie possono crescere e svilupparsi le loro piene potenzialità. Così l’ambiente sociale è ricchezza comune, tesoro comune e bene comune. Così come noi abbiamo bisogno di un ambiente sociale sano per crescere, tutti abbiamo bisogno di contribuire al suo sviluppo. Correlata al perseguimento del bene comune è la visione della destinazione universale dei beni terrestre.
Nella Genesi (Gen 1, 29) è scritto “E Dio disse: Ecco io vi do ogni erba che fa seme sulla superficie di tutta la terra e ogni albero che abbia frutti portatori di seme; questo vi servirà di nutrimento” Quando Dio vede la fame, la disuguaglianza e lo spreco delle risorse nel nostro mondo, potrà continuare ad affermare: “Tutto è buono?”.
Giustamente la Caritas in veritate, ci ricorda che se il profitto è il fine ultimo dell’attività economica e non il bene comune, stiamo distruggendo la ricchezza che vorremmo produrre e stiamo invece diffondendo la povertà. La ricerca della crescita inclusiva, se presa sul serio, deve essere realizzata in modi specifici e concreti. Chi sono gli esclusi, gli emarginati, i poveri?. Per noi il “povero” non è solo un termine sociologico, economico o politico, ma anche teologico.
Nel Deuteronomio 15: 9 ci viene detto: “Bada bene che non ti entri in cuore questo pensiero iniquo: È vicino il settimo anno, l’anno della remissione; e il tuo occhio sia cattivo verso il tuo fratello bisognoso e tu non gli dia nulla; egli griderebbe al Signore contro di te e un peccato sarebbe su di te”
A questo proposito propongo a tutti di impegnarci in un esame di coscienza, come individui e come organismi e gruppi. Qui ci sono alcune domande per il nostro esame di coscienza: I poveri sono inclusi nelle nostre dichiarazioni, nella nostra vision, nella nostra missione? Se si suppone una buona visione per condurre una istituzione, allora deve includere i poveri altrimenti si sta favorendo una economia di esclusione. I poveri sono inclusi nella pianificazione dei nostri obiettivi? Come vengono presentati? Come materie prime, come consumatori o come partner? I piani di sviluppo e il superamento della povertà sono fattori determinanti per la produzione e i servizi da offrire? I poveri vengono consultati per decidere il tipo di sviluppo che essi desiderano?
Mi ricordo un gruppo di imprese che intendeva acquistare vaste aree di terreni agricoli per farci un resort con un campo da golf. Il rappresentante del gruppo imprenditoriale ha chiesto il mio aiuto per convincere gli agricoltori. L’idea è che sarebbe stato vantaggioso per loro e per le loro famiglie perché il resort avrebbe impiegato camerieri, cuochi ecc. Ma nessuno ha chiesto agli agricoltori se preferivano fare I camerieri o i contadini.
La responsabilità sociale delle imprese è un’appendice della vita aziendale oppure deve essere di per sé un atto di responsabilità sociale? Le aziende contribuiscono agli sforzi di soccorso umanitario, ma non contribuiscono anche ai disastri ecologici ed economici che necessitano di un’azione umanitaria? Negli uffici e tra gli stabilimenti, il personale e le persone dell’amministrazione sono addestrati per trattare con i poveri? Sono le pratiche di lavoro eque per i poveri, cioè i lavoratori di basso livello? E questi ultimi godono di un adeguata sicurezza e stabilità?
Papa Francesco ha detto che la realtà è più grande delle idee. Nella Laudato Si’ al n.49 si dice: “Vorrei osservare che spesso non si ha chiara consapevolezza dei problemi che colpiscono particolarmente gli esclusi. Essi sono la maggior parte del pianeta, miliardi di persone. Oggi sono menzionati nei dibattiti politici ed economici internazionali, ma per lo più sembra che i loro problemi si pongano come un’appendice, come una questione che si aggiunga quasi per obbligo o in maniera periferica, se non li si considera un mero danno collaterale. Di fatto, al momento dell’attuazione concreta, rimangono frequentemente all’ultimo posto. Questo si deve in parte al fatto che tanti professionisti, opinionisti, mezzi di comunicazione e centri di potere sono ubicati lontani da loro, in aree urbane isolate, senza contatto diretto con i loro problemi. Vivono e riflettono a partire dalla comodità di uno sviluppo e di una qualità di vita che non sono alla portata della maggior parte della popolazione mondiale. Questa mancanza di contatto fisico e di incontro, a volte favorita dalla frammentazione delle nostre città, aiuta a cauterizzare la coscienza e a ignorare parte della realtà in analisi parziali. Ciò a volte convive con un discorso “verde”. Ma oggi non possiamo fare a meno di riconoscere che un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri.
Gli esclusi non sono categorie o numeri, ma persone, come noi, con i sentimenti, i sogni, le sofferenze. A volte si guarda ai poveri non in modo condiscendente, ma da una posizione di superiorità, invece bisogna relazionarci a loro con solidarietà, con un atteggiamento di umile apprendimento dalla loro saggezza.
Qualche settimana fa ho aderito una commemorazione del primo anniversario del terremoto in Nepal. Abbiamo visitato i villaggi che hanno visto l’orrore di frane, distruzione di proprietà e perdita di vite umane. Le celebrazioni si sono svolte con incredibile grazia e bellezza. Ho notato che erano già le tre del pomeriggio, e il pranzo non era stato ancora servito. Poi mi sono reso conto che la comunità aveva ben poco cibo e scarsa disponibilità di acqua potabile.
È stato liberatorio per me sperimentare un po’ di fame. Una esperienza  che queste persone fanno ogni giorno con dignità. Non hanno potuto fare una festa distribuendo il cibo per noi, ma ci hanno nutriti con poesie e canzoni originali composte per l’occasione. Il tutto ricordando l’incubo del terremoto e l’amore che i cristiani e la Caritas hanno profuso su di loro. I poveri ci hanno trasformato.
Nell’ottobre 2015 ho visitato il campo profughi di Idomeni in Grecia lungo il confine con l’ex Repubblica iugoslava di Macedonia. Durante una pausa nella distribuzione dei beni di soccorso, ho parlato con la signora vice-sindaco della città che ha anche supervisionato le operazioni. Ho imparato che la sorveglianza del campo non faceva parte del suo compito come vice-sindaco, ma era parte di un lavoro volontario da parte sua. Sorpreso che una signora così occupata svolgesse questo lavoro in più, gli  ho chiesto il motivo della sua decisione. Lei mi ha risposto: “I miei antenati erano rifugiati. Ho il Dna di rifugiato nel mio corpo. Sono i miei fratelli e sorelle. Io non li abbandonerò”.
Concludo la mia condivisione con una bella citazione del Beato Papa Paolo VI. Nella Populorum Progressio al n.80 è scritto: “In questo cammino siamo tutti solidali. A tutti perciò abbiamo voluto ricordare la vastità del dramma e l’urgenza dell’opera da compiere. L’ora dell’azione è già suonata: la sopravvivenza di tanti bambini innocenti, l’accesso a una condizione umana di tante famiglie sventurate, la pace del mondo, l’avvenire della civiltà sono in gioco. A tutti gli uomini e a tutti i popoli di assumersi le loro responsabilità”
Siamo tutti uniti in questo progresso verso Dio. Abbiamo voluto ricordare a tutti, quanto sia cruciale il momento presente, quanto sia urgente il lavoro da fare. La posta in gioco è la sopravvivenza di tanti bambini innocent. Per tante famiglie significa uscire dalla miseria, avere accesso a condizioni adatte per gli esseri umani; in gioco ci sono la pace del mondo e il futuro della civiltà. E’ tempo per tutti i popoli di far fronte alle loro responsabilità.
La parole scritte da Laono sesto nel 1967 mantengono la loro freschezza e il loro profondo significato nel 2016!

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ZENIT Staff

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