Lo “splendore del suono” che eleva a Dio

di Aurelio Porfiri*

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ROMA, martedì, 31 maggio 2011 (ZENIT.org).- Lo “splendore del suono” che è in grado di elevare a Dio le anime dei fedeli. Questo concetto espresso nella Sacrosanctum Concilium (SC) mi sembra estremamente interessante e degno di essere considerato in tutta la sua ponderosità, chiarendoci per primo cosa intendiamo per “splendore” e cosa dovremmo intendere per “elevare”. Sembra chiaro ma bisogna un po’ rifletterci sopra. Un autore del recente passato, Fiorenzo Romita, commenta in questo modo il passo della SC in questione:

Ma in che cosa consiste allora cotesto ‘notevole splendore’ del suono dell’organo, di cui parla la Costituzione? Non si tratta evidentemente della semplice materialità del suono dell’organo con tutte le possibilità di grande potenza fonica e di ricca tavolozza timbrica, nel più perfetto equilibrio dinamico e ritmico. Piuttosto è il clima di grandiosità e di mistero che il suono dell’organo sa creare, ciò che conferisce obbiettivamente alle stesse cerimonie della Chiesa un notevole splendore (…) ‘Per visibilia ad invisibilia’: come tutti gli elementi della Liturgia, così anche, in maniera eminente, il suono dell’organo che si traduce nell’essenza stessa della Liturgia, ossia nella preghiera, giacchè quel suono ‘è in grado di elevare potentemente gli animi a Dio e alle cose celesti’. E qui entriamo in un fenomeno ascetico e mistico, che è difficile da descrivere compiutamente con le parole umane, ma che tuttavia già i Padri della Chiesa, gli Scrittori Ecclesiastici, i SS. Pontefici, i Concili, alcuni Santi e Mistici hanno chiaramente intuito; e che i moderni studiosi di estetica della musica potrebbero sviluppare soddisfacentemente, se tenessero conto anche della teologia, della S. Scrittura, dell’agiografia ecc.” (Fiorenzo Romita, “La Musica Sacra e la Costituzione Conciliare sulla Sacra Liturgia” Descleè e C. – Roma, pag. 117-118. Non è presente l’anno di edizione ma deve essere molto vicino a quello di promulgazione del documento conciliare, diciamo quindi intorno al 1963).

Naturalmente l’insigne studioso si esprime con linguaggio e concetti che risentono dell’estetica ancora viva nel suo periodo (ma anche oggi…). Ma alla fine è interessante quel richiamo che fa agli studiosi di varie discipline (e molte altre se ne sarebbero aggiunte negli anni, ma lui non poteva saperlo) allo studio del modo in cui l’organo aggiunge questo splendore, che per il momento lui risolveva con la categoria del “fenomeno ascetico e mistico” di non facile descrizione a parole umane e quindi “misterioso”.Lo splendore è una qualità che fa in modo che una data cosa sia ancora più visibile: se diciamo che è venuta una certa persona “in tutto il suo splendore”, intendiamo che essa era al meglio delle sue possibilità e che quindi (sottointendiamo) era al centro dell’attenzione. Lo splendore aggiunge qualcosa a qualcosa. L’organo, quindi, aggiunge qualcosa in più al rito, lo fa “risplendere”. Il problema è che spesso su questi termini si sono giocate diatribe infinite fra chi intende lo splendore in un modo e chi in un altro, come del resto per cento altre diatribe tra opposte fazioni. Un giorno mi piacerebbe dire la verità su idee e persone in cui mi sono imbattuto durante il mio impegno in questo campo, sapendo di non offendere nessuno. Ma chissà che non sia vero quanto diceva Leo Longanesi: “Quando potremo dire tutta la verità, non la ricorderemo più”.

Lo splendore, dunque. Esso è certo collegato ad un valore artistico (riferendoci all’organo in questione, ma non solo) ma è mezzo e non fine. Lo splendore non è raggiunto con la proposizione di un’opera musicale solo in quanto essa è degna e artisticamente ben fatta; ma questo splendore si ha quando quell’opera esalta la natura intrinseca di quel dato rito (lo fa “risplendere”). Quindi il valore non è prima di tutto nell’opera in sé ma nella sua funzione. Sembra appropriato ricordare quanto citato precedentemente dal Motu proprio di San Pio X del 1903, in cui si diceva che doveva risuonare in chiesa quella musica che “risente della maestà del luogo”. Potremmo dire oggi, che “risente della natura del rito”. Ci è difficile oggi quantificare visivamente termini come “maestà” o “splendore”, proprio perché si corre il pericolo di darne interpretazioni fuorvianti e non adeguate. Nei tempi in cui venivano formulate, queste parole avevano una risonanza di un certo tipo: maestà e splendore erano collegate magari al fasto delle corti reali, alla sontuosità di certi palazzi o chiese; oggi queste cose sono molto di meno prese in considerazione, a vantaggio di altre immagini che potrebbero portarci completamente al di fuori del discorso che ci proponiamo.

Partecipare alla natura del rito per renderlo più splendido significa essere consapevole della natura di “ponte” che il rito svolge tra l’umano e il soprannaturale:

Ciò che si svolge nel cosmo, nel suo corpo o nella storia, in una certa misura fuori di se stesso, l’uomo cerca di padroneggiarlo, di addomesticarlo, di sottometterlo al suo dominio. Può fare questo sia riflessivamente, sia tecnicamente, sia “ritualmente”. In quest’ultimo caso lo vediamo costruire – parallelamente all’ordine cosmico, biologico e sociale – un altro ordine, detto rituale, che dà luogo a due ordini di realtà. Ciò che è angosciante (per il fatto di essere esteriore) è così integrato nell’ordine umano e come addomesticato” (G. Sovernigo, op. cit. pag. 64-65).

Per fare

sì che questo “contatto” avvenga, il rito svolge una funzione multiforme che è di importanza fondamentale, perché canalizza le emozioni e le ordina o riordina ad un fine più alto. Il rito “controlla” il sacro. Mi piace moltissimo questa riflessione di Giorgio Bonaccorso, e vi invito ad ascoltarla e a meditarla con me:

Il sacro non ammette costrizioni, restrizioni o definizioni; non ammette regole precostituite né leggi necessarie. Esso è dalla parte del caos. Il profano, anche da questo punto di vista, è il suo opposto. Nell’esistenza quotidiana, retta dalla profanità, vi sono leggi e regole, senza le quali non si potrebbe vivere. Il profano è dalla parte del cosmo. Ma anche il rito è fatto di regole senza le quali non potrebbe esistere. Il rito è cosmo e, in questo senso, appartiene al profano. Si tratta, però, di un cosmo che, per il modo delle sue regole, ossia delle sue azioni e dei suoi simboli, rimanda alle origini precosmiche, caotiche, e, per questo, appartiene al sacro. Il rito è tra il cosmo e il caos, tra il profano e il sacro. Non è possibile all’uomo un rapporto immediato col sacro, né sarebbe, per lui, sopportabile la caduta nel caos. Il rito appare, così, come la mediazione indispensabile grazie alla quale l’uomo può aprirsi all’origine ultima del suo essere, al sacro, senza essere divorato dal vortice di quell’origine. La liturgia, rito cristiano, è la grazia concessa all’umanità di accedere a Dio senza morire per averlo visto” (Giorgio Bonaccorso, “Il rito e l’altro”, Libreria editrice Vaticana, pag. 38).

Ma parlando il rito un linguaggio simbolico, bisogna che esso sia in grado di essere decodificato dai fruitori dello stesso. Quindi per avere questo splendore, bisogna che si metta in atto una simbolizzazione che la gente possa riconoscere. Pensiamo in questo alla grande saggezza degli antichi, che intessevano spesso le loro composizioni organistiche su temi di inni o corali che la gente poteva riconoscere e che magari avrebbe cantato 5 minuti dopo. Sia nella tradizione cattolica che in quella protestante quanta musica è stata concepita in questo modo! E questo vale anche per la polifonia. Si usavano anche temi “profani” nelle messe (ma attenti a non andare qui a conclusioni affrettate…) così che la gente potesse “connettersi” facilmente con quanto stava avvenendo.

L’organo è ancora in grado di fare ques
to (e quindi di elevare a Dio potentemente gli animi”, per stare al linguaggio un po’ ampolloso della SC)? Io credo di sì. Basta prendere un esempio dal mondo della comunicazione, mondo in cui la gente è immersa fino al collo e che anche forma il retroterra simbolico di moltissimi di noi. Se la pubblicità vuole evocare un’atmosfera sensuale quale strumento usa? Quasi sempre il sax, forse per il suo legame con i night club e con quel mondo lì. Se, al contrario, si vuole evocare un’atmosfera “di chiesa”, quale atmosfera sonora si usa per attivare (in solo pochi secondi, non dimentichiamolo) in noi l’ambiente del religioso? O il canto gregoriano o l’organo, da qui non si scappa. Quindi anche il moderno mondo della comunicazione afferma questo legame psicologico che c’è ancora nella nostra cultura tra l’organo e la chiesa. E non dimentichiamo che il target della pubblicità non è solo quello delle persone adulte ma spesso (e qualche volta, soprattutto) quello delle persone giovani. Quindi, appurato che psicologicamente siamo ricettivi a riconoscere l’organo come strumento liturgico, vediamo come l’organo riconosce noi come soggetti liturgici. Per partecipare al fine stesso del rito (e quindi aggiungervi quel valore che chiamiamo “splendore”) l’organo deve partecipare alle caratteristiche del celebrare cristiano che un autore già citato in precedenza divide come segue: 1) Celebrare è un’azione comunitaria; 2) si vive qualcosa che ci tocca in profondità; 3) è azione espressa con gesti rituali; 4) trasforma l’esistenza (G. Sovernigo, op. cit. pag. 52). Non sono sforzi da poco…

Azione comunitaria significa che ciascuno è in comunione con gli altri e l’organista deve, con la sua arte e capacità, favorire quell’unione. Come? Sostenendo il canto unisono dell’assemblea con proprietà e forza, in modo che la gente si senta spinta a cantare con un cuore solo ed un’anima sola. Mi ha sempre enormemente colpito ascoltare, specie nelle chiese protestanti, quando l’organista attacca con il ripieno l’introduzione di qualche inno e tutta l’assemblea, come un fiume di voci (di ambrosiana memoria) si unisce alla voce dell’organo per lodare Dio. Trovo bella ed appropriata questa espressione del beato Giovanni XXIII, pronunciata il 26 settembre 1962 in occasione della benedizione del nuovo organo della Basilica di San Pietro in Vaticano:

Durante lo svolgimento dei sacri riti (l’organo) diventa l’interprete dei comuni sentimenti, dei più nobili e santi trasporti” (Discorsi Messaggi Colloqui del S.Padre Giovanni XXIII.” Poliglotta Vaticana 1963, vol. IV, pp. 548-551 in Fiorenzo Romita, op. cit. pag. 116).

L’organo si fa voce di tutti. Questo mi sembra ritualmente più splendente di cento preludi e fughe (che hanno comunque il loro posto). Favorire l’unione significa anche agire propriamente nel rito (come viene qui espressamente richiesto al terzo punto) per non disunirlo, essere pronti a coprire qualche buco rituale, magari con una piccola improvvisazione sul canto appena concluso che permetta al sacerdote di ritrovare la giusta pagina del Messale…Questa capacità è per me connaturata all’organista liturgico. Anche il nome di “organo” è in questo caso estremamente felice: dà l’idea di una parte stessa del nostro corpo, un prolungamento di noi stessi con cui agiamo ritualmente, respiriamo nella celebrazione, interagiamo in essa.

Per essere toccati in profondità bisogna che l’organista conosca il suo strumento e sappia quale linguaggio musicale è più utile parlare a quella data assemblea. Interessarsi di quale è la capacità ricettiva di una data e particolare assemblea, vuol dire poterla prendere e guidare anche verso un percorso artistico più affascinante. Ma non si può pretendere di bombardare la gente anche con musiche bellissime ma che la stessa non capisce. Ci vuole pazienza e gradualità. Bisogna darsi degli obiettivi immediatamente raggiungibili e poi darsene sempre più in alto, ma gradualmente. Un mio direttore spirituale usava un esempio calzante: se noi dovessimo vedere tutto insieme il cibo che abbiamo consumato fino ad oggi, diremmo “ma come è possibile, io non ho mai mangiato questa montagna enorme di roba!”. Eppure, giorno dopo giorno, l’abbiamo mangiata…

Per agire ritualmente bisogna essere nel rito. Essere non è inteso solo come presenza fisica, ma come respirare in uno con l’andamento del rito. Assecondarne la struttura (come detto sopra) aiuta chi suona e chi ascolta (e si partecipa anche ascoltando) ad inserirsi sempre più in pienezza e profondità nell’azione che si sta compiendo. Solo così saremo trasformati, saremo veramente quello “splendore vivente” che testimonia le meraviglie che Dio ha compiuto e sta compiendo in noi.

[Gli altri due articoli sull’organo sono stati pubblicati il 3 e il 17 maggio]

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*Aurelio Porfiri vive a Macao ed è sposato, con un figlio. E’ professore associato di musica liturgica e direzione di coro e coordinatore per l’intero programma musicale presso la University of Saint Joseph a Macao (Cina). Sempre a Macao collabora con il Polytechnic Institute, la Santa Rosa de Lima e il Fatima School; insegna inoltre allo Shanghai Conservatory of Music (Cina). Da anni scrive per varie riviste tra cui: L’Emanuele, la Nuova Alleanza, Liturgia, La Vita in Cristo e nella Chiesa. E’ socio del Centro Azione Liturgica (CAL) e dell’Associazione Professori di Liturgia (APL). Sta completando un Dottorato in Storia. Come compositore ha al suo attivo Oratori, Messe, Mottetti e canti liturgici in latino, italiano ed inglese. Ha pubblicato al momento quattro libri, l’ultimo edito dalle edizioni san Paolo intitolato “Abisso di Luce”.

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ZENIT Staff

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