Le paure del nostro tempo e la speranza cristiana (II)

ROMA, giovedì, 26 marzo 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo la seconda parte della conferenza tenuta il 5 marzo scorso, a Piacenza, nell’ambito di una riflessione sulle Settimane sociali, da mons. Giampaolo Crepaldi, Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace e Presidente dell’Osservatorio Internazionale “Cardinale Van Thuân”.

La prima parte è stata pubblicata il 19 marzo scorso.

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a mancanza di speranza indebolisce poi la volontà, in quanto non le permette di guardare oltre se stessa. E’ così che si pretende che i desideri diventino diritti. La parola “desiderio” può avere due significati. Nel primo esso è “attesa”, e in questo senso il desiderio è aperto alla speranza, anzi si fonda sulla speranza, è speranza[1]. Nel secondo esso è “pulsione”, una spinta che nasce da noi e che pretende esaudimento e in questo senso esso si oppone alla speranza, che è disponibilità a quanto irrompe e non dipende da noi. La volontà si trasforma in desiderio, inteso in questa seconda accezione quando manca la speranza.

Infine la  mancanza di speranza indebolisce la ragione, perché questa non è più in grado di guardare al di là di se stessa. Niente le sta davanti e niente la chiama, niente la spinge, niente le apre nuove porte da varcare.

La volontà ha bisogno della ragione che le indichi la strada, ma la ragione ha bisogno della speranza che le permetta di vedere oltre se stessa[2]. C’è un termine per esprime questi legami: «purificazione»[3].

Queste osservazioni ci permettono di mettere a punto alcuni atteggiamenti cristiani nei confronti della crisi attuale e delle paure che stanno diffondendosi tra la gente.

Il giorno del primo giovedì di Quaresima, in una risposta ad un sacerdote romano, che gli chiedeva un orientamento pastorale davanti alla crisi economia e sociale di oggi, Benedetto XI ha detto che la Chiesa deve denunciare «questa idolatria che sta contro il vero Dio e la falsificazione dell´immagine di Dio con un altro Dio, “mammona”». Ha però anche aggiunto che «dobbiamo farlo con coraggio ma anche con concretezza. Perché i grandi moralismi non aiutano se non sono sostanziati con conoscenze delle realtà, che aiutano anche a capire che cosa si può in concreto fare per cambiare man mano la situazione. E, naturalmente, per poterlo fare è necessaria la conoscenza di questa verità e la buona volontà di tutti». Abbiamo in questo passo tutti i concetti su cui ci siamo finora intrattenuti. La Chiesa non denuncia mai come prima cosa. Come prima cosa essa annuncia. Così la denuncia è sempre finalizzata al positivo e si radica nella speranza. La speranza dell’annuncio, però, va fatta con coraggio ma anche con concretezza, dando il debito spazio alle ragioni della realtà e alle logiche dell’economia o della finanza, tanto per rimanere nel campo di cui parlava il papa. Non si può fare il bene “contro” la  razionalità economica [4]. Qui entra in gioco la ragione che tiene conto in tutti i campi della realtà, che è il vero criterio della verità. Annunciare senza preoccuparsi della concreta realtà significa fare del moralismo. Viceversa, occuparsi della concreta realtà senza tener conto dell’annuncio significa legarsi al pragmatismo. L’amore vuole essere ragionevole. Poi, però, per poter fare quanto si vede giusto fare, ci vuole  la volontà, bisogna volerlo fare. E’ questo, in fondo, che genera la paura di oggi. Prima  di tutto la carenza di speranza e il non saper più vedere nella persona, nel lavoro, nell’altro un “annuncio”, ossia una vocazione. Subito dopo viene la carenza  di razionalità, la sfiducia nella ragione e quindi nell’uomo, sicché la speranza, se anche ci fosse, non troverebbe radicamento, non potrebbe essere accolta concretamente perché passerebbe al di sopra della nostra concreta realtà. Non ci sono forse anche oggi forme spurie di annuncio che quasi plaudono alla crisi perché permetterebbe di prendere coscienza della crescita come male radicale e di transitare quindi verso forme di “decrescita”  o di “dopo sviluppo”?[5] La speranza va strutturata, come ebbe a dire molti anni fa Giovanni Paolo II durante una visita pastorale a Napoli, e per strutturarla serve la ragione, le discipline, le competenze, la politica. Poi, però ci vuole la volontà, la libera decisione delle persone perché non ci sarà mai giustizia senza uomini giusti.

Ho adoperato spesso in queste righe la parola vocazione[6]. L’ho fatto perché mi sembra che possa far capire come la speranza possa illuminare la concretezza della vita. Il restringimento della nostra ragione alle sole verità empiriche ha comportato l’atrofia della vocazione sicché fatichiamo a vedere nelle cose, nella vita, negli altri e nel nostro lavoro una “chiamata”. Esse si appaiono solo come dei dati,  muti e privi di prospettiva, più che come progetti che ci sono affidati e che interpellano la nostra responsabilità. Sta qui il fondamento di uno dei principi fondamentali della dottrina sociale della Chiesa, quello di sussidiarietà, che rimane inspiegabile senza la speranza e senza la vocazione[7]. La richiesta della libertà ha senso solo finalizzata all’assunzione di responsabilità: la sussidiarietà implica un sistema di libertà responsabile. Ma la responsabilità è impossibile se non come risposta ad una vocazione. Solo dopo aver letto nella realtà un disegno e un progetto è lecito rivendicare spazi di libertà per  contribuire alla realizzazione di quel disegno, che non è frutto del desiderio perché non lo abbiamo creato noi.

Ora, se osserviamo bene, alla  radice di molte crisi attuali che si impauriscono c’è la mancanza della sussidiarietà, ossia il diniego di mettersi al servizio di una vocazione e di assolvere ad un compito. La finanza dovrebbe essere sussidiaria all’economia reale, cioè alle famiglie e alle persone, ma non lo è stato. La medicina e la politica dovrebbero essere sussidiare ella vita, ma nel caso di Eluana Englaro non lo sono state. Le singole culture sono sussidiarie alla comune umanità, ma nel multiculturalismo non lo sono state. Alla radice c’è un difetto ad accogliere, che è frutto di una antropologia del desiderio contrapposta ad una antropologia della vocazione.

«Dio è il fondamento della speranza, non un qualsiasi Dio, ma quel Dio che possiede un “volto umano” e che ci ha amati fino alla fine»[8]. La speranza dal volto umano è la speranza ragionevole, reale, non ingannevole. La speranza dal volto umano è quindi amore, che non inganna e vuole il vero bene di chi ama. 

 

 

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 [1] «L’uomo ha bisogno di Dio» dice la Spe Salvi (n. 23). Ecco il senso di bisogno come “attesa”. Interessanti considerazioni sul bisogno come “attesa”, pur dall’interno di una biografia molto particolare come fu quella di Simone Weil, si trovano in S. Weil, Attesa di Dio, Adelphi, Milano 2008. Si veda anche J. Prades  Lopez, Nostalgia di Resurrezione, Cantagalli, Siena 2007.

[2] Benedetto XVI, Enciclica Spe Salvi, n. 23.

[3] Benedetto XVI, Deus caritas est, n. 28.

[4] Cf S. Fontana, L’immateriale nell’economia. Crisi finanziaria e ripensamento di alcune categorie economiche, “Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa” V (2009) 1, pp. 8-10.

[5] S. Latouche, Come sopravvivere allo sviluppo, Bollati Boringhieri, Torino 2005.

[6] G.  Crepaldi, Dio o gli dèi cit,, pp. 11-18: «La persona umana tra vocazione e alienazione. La visione dell’uomo nella Dottrina sociale della Chiesa».

[7] G.  Crepaldi, Ivi,, pp. 195-106: «libertà e responsabilità della società civile. La regola della sussidiarietà».

[8] Benedetto XVI, Enciclica Spe Salvi, n. 31.

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ZENIT Staff

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