Le “confessioni” di un Vescovo dalla Nigeria

Monsignor Emmanuel Adetoyese Badejo racconta la sua vocazione

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OYO, mercoledì, 2 settembre 2009 (ZENIT.org).- Monsignor Emmanuel Adetoyese Badejo, Vescovo ausiliario di Oyo, in Nigeria, ordinato sacerdote nel 1986 e consacrato Vescovo nel 2007, ha voluto condividere con i lettori di ZENIT il racconto della sua vocazione sacerdotale. Il presule è autore di vari libri, documentari musicali e di video.

Nell’Anno sacerdotale, ZENIT offre le “confessioni” sulla vocazione di Cardinali, Vescovi e sacerdoti. La serie è stata inaugurata dal Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato di Benedetto XVI.

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Sono sicuro che molti sacerdoti che conosco ricorderanno facilmente l’esperienza o l’evento in occasione del quale Dio li ha chiamati al sacerdozio. Io non appartengo a questa élite. Lo dico con franchezza.

Diversamente da Mosé, Samuele e Paolo, la mia vocazione è stata un’esperienza multidimensionale ma semplice, che mi spinge a dover rivelare informazioni “classificate” sulla mia famiglia. D’altra parte credo che l’occasione dell’Anno sacerdotale e le attuali sfide della Chiesa di fronte al relativismo richiedano un po’ di declassificazione delle nostre esperienze religiose a beneficio degli altri.

Sono cresciuto in una famiglia di sette figli, quattro maschi e tre femmine. All’età di 4 anni ho capito che la mia famiglia era tridimensionale. Per i miei genitori e i miei due fratelli maggiori, la vita era la casa, il lavoro e la Chiesa. Semplicemente. Per il resto di noi era un po’ diverso: casa, scuola e Chiesa.

Questa esistenza tripede ha caratterizzato a tal punto la mia infanzia che per me erano importanti solo gli avvenimenti collegati a queste tre sfere della vita. Inoltre ho scoperto che, delle tre, la Chiesa era la presenza più rilevante, e che si estendeva anche agli altri due aspetti. La scuola e la famiglia erano solo delle chiese diverse.

Sono cresciuto con la sensazione che i missionari sacerdoti e le suore facessero parte della nostra famiglia, quando andavano e venivano, notte e giorno, a volontà. Sembravano essere gli unici, oltre a noi sette figli, per cui non esisteva alcun segreto familiare di nessun tipo. Hanno sempre aiutato la mia famiglia in tempi di necessità, che sono stati molti. La loro presenza mi parlava di una Chiesa compagna della vita. Quando i missionari ci hanno lasciato, i sacerdoti e le religiose indigeni hanno semplicemente occupato il loro posto.

La preghiera è stata un’altra delle guide per la scoperta della mia vocazione. I miei genitori facevano in modo che la preghiera del mattino, la preghiera prima dei pasti e prima di andare a dormire fossero imperative nella famiglia. Anche la lettura della Bibbia era una pratica regolare. Talvolta, specialmente nel pomeriggio, quando la noia poteva dare spazio a qualche incrinatura morale nella famiglia, mio padre ci coinvolgeva in una preghiera di lode nalla sua forma tradizionale. Noi tutti, salvio mio padre, facevamo parte del coro della chiesa. L’unica ragione per cui mio padre non partecipava al coro era per non dare l’impressione che il coro della Chiesa fosse incentrato sulla sua famiglia.

Ad ogni modo, nel pomeriggio, mio padre apriva il libro degli inni a noi familiare e ci faceva cantare. Al canto si univa il rumore dei banchi, delle sedie e degli altri oggetti che potevamo trovare nella nostra umile casa per marcare il ritmo e il passo. Questa attività attirava un po’ di pubblico, tra cui anche famiglie musulmane che vivevano nel vicinato e che si univano al canto o semplicemente si fermavano un momento ad ascoltare.

Mio padre approfittava al massimo del vantaggio di questo coro ben allenato. Non solo ci faceva cantare regolarmente nel coro della chiesa e a casa, ma ci portava anche a pregare e a cantare per i malati e i ricoverati nei letti dell’ospedale locale, specialmente a Natale e a Pasqua. Sebbene tutti i membri della famiglia erano buoni cantanti, mia sorella minore ed io quasi sempre cantavamo i principali assoli. Questo mi dava un senso speciale di missione e di vocazione.
<br>Nella scuola la vita non era molto diversa. La preghiera era una parte centrale della vita scolastica come se fossimo in chiesa. Nella scuola primaria fui scelto per i ruoli principali quando c’era da cantare o recitare. Posto che la maggior parte di queste attività trattavano temi religiosi o morali, semplicemente mi vedevo chiamato ad esercitare una speciale funzione religiosa.

Un’esperienza che ho custodito, dei miei giorni della scuola primaria, è stata la presentazione di un’opera in particolare di fronte alla parrocchia. In quell’opera recitavo la parte di un ereditiere di una famiglia pagana, che si era convertito al Cattolicesimo e che voleva diventare sacerdote.

Molti mesi dopo questa rappresentazione, la maggioranza della gente mi chiamava reverendo padre. Questo mi provocò una profonda impressione in quella tenera età. Il riconoscimento va ai miei professori che mi incoraggiarono a recitare quel ruolo e a godere dell’ammirazione bigotta che ne seguì. Nel seminario minore, la cosa è continuata. Sono passato dall’esere il leader più giovane dei complessi musicali della scuola, al ruolo di maestro del coro del seminario, cose che rafforzarono la mia convinzione di avere una missione speciale.

Mio padre ci parlava costantemente del desiderio di suo padre – che fu un re (mio nonno era il re della mia gente di Ijebu Ode, Nigeria, da cui provengo) – di avere un sacerdote nella sua famiglia e mia madre ci assicurava continuamente la presenza dei nostri forti angeli custodi. Sebbene non indirizzarono nessuno di noi verso la carriera sacerdotale, ci mandavano a Messa ogni giorno e ci lasciavano intendere che per loro sarebbe stata una gioia avere un sacerdote in famiglia. Nonostante fossimo poveri, dimostravano ampiamente la loro sincerità con atti di cortesia e generosità verso sacerdoti e religiose che venivano nel nostro paese e a casa nostra. Neanche a dire che questo mi portò a considerare come una cosa buona il fatto di diventare sacerdote.

I miei fratelli, da parte loro, si erano abituati alla presenza di sacerdoti e religiose in famiglia, cosa che facilitò molto la mia decisione di farmi prete. Come chierichetto, tornavo a casa e imitavo il sacerdote dicendo messa. Mi guardavano più con riverenza che con burla, dandomi l’impressione di star facendo qualcosa di valido.

Solo mio fratello più grande esprimeva una certa riserva sull’idea che io diventassi sacerdote. Lui già era, quando sono entrato nel seminario maggiore, un artista riconosciuto. Pensava che il sacerdozio andasse meglio al mio altro fratello, quello che era già entrato nel seminario maggiore, mentre io avrei potuto unirmi a lui nella sua attività. Ciò nonostante, lui ci appoggiò entrambi, una volta usciti dal seminario. Mio fratello seminarista in seguito lasciò il seminario e si sposò.

Questi aspetti della mia vita mi hanno fatto capire che Dio aveva una missione speciale per me. Crescendo non avevo dubbi che se mai un giorno avessi fatto qualcosa di importante nella vita sarebbe stato all’interno del contesto di questa Chiesa affabile e sempre presente.

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ZENIT Staff

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