Le antropologie relativiste

Da Nietzsche all’anti-essenzialismo post-moderna

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La verità non esiste [e] la scepsi non consiste nel non sostenere nessuna tesi, bensì nel sostenere volta a volta molte tesi”[1].

Quest’affermazione di Marquard, un maître à penser della filosofia post-moderna, è condivisa, nella sua sostanza, da gran parte della filosofia attuale, secondo la quale l’essenziale è dialogare perché, come afferma Vattimo, il padre del “pensiero debole”, “il valore universale di un’affermazione si costruisce costruendo il consenso nel dialogo, non pretendendo di avere il diritto al consenso perché abbiamo la verità assoluta”[2].

La verità assoluta non esiste semplicemente perché non esiste la realtà, ma si danno soltanto “interpretazioni” della realtà. Vattimo ripete spesso nelle sue opere questo enunciato di Nietzsche: “non ci sono fatti, solo interpretazioni” e aggiunge che questo “non è un enunciato metafisico oggettivo. Anche questo è ‘solo’ un’interpretazione”[3].

Il filosofo rileva che l’essere umano è impossibilitato a conoscere oggettivamente e veramente la realtà, perché ognuno interpreta le cose dal proprio punto di vista soggettivo, condizionato dal contesto storico-culturale  in cui vive.

Il vero e il falso, il giusto e l’ingiusto, il bene e il male non dipende dalla realtà che non esiste, ma dal consenso che gli uomini raggiungono tra di loro. Infatti Vattimo, ispirandosi a Heidegger, dice: “La realtà […] ha ancora un significato in Heidegger, ma è solo il risultato del dialogo storico tra le persone; non siamo d’accordo perché abbiamo trovato l’essenza  della realtà, ma diciamo che abbiamo trovato l’essenza della realtà quando siamo d’accordo”[4]

Vattimo, sviluppando  coerentemente la filosofia di Heidegger, di cui è un profondo conoscitore[5],  afferma che il pensiero è “debole”, cioè non può conoscere la verità assoluta. E’ quindi impossibile conoscere la natura dell’uomo, semplicemente perché non esiste la natura,  perché tutto è storico perché l’essere “è evento, qualcosa che accade”[6], e ogni ente, quindi anche l’essere umano, può essere interpretato in molteplici modi sempre relativi al punto di vista dell’interprete.

Secondo questo modo di pensare “debole” si danno nella storia svariati paradigmi antropologici di carattere spiritualistico, materialistico, idealistico ecc. tutti ugualmente “veri” in quanto relativi a specifiche visioni del mondo (spiritualistiche, materialistiche, idealistiche, ecc.).

Vattimo, sulla scia di Heidegger, rifiuta la concezione sostanzialistica dell’uomo tramandata dalla metafisica classica, mentre il post-strutturalismo francese, come rileva nei suoi studi Canonico[7], sostiene la dissoluzione e la morte dell’uomo.

In particolare, secondo Lacan l’uomo è determinato dal linguaggio, poiché esso è la causa del costituirsi dell’uomo come soggetto. Secondo questo Autore l’uomo è chiuso nel linguaggio e ha perduto ogni rapporto con la realtà[8].

Foucault afferma esplicitamente l “morte dell’uomo” e ritiene che l’”uomo è un’invenzione recente”, perché l’idea di uomo nasce due secoli fa all’interno della storia del sapere[9].

Deleuze e Guattari nell’Anti-Edipo contrappongono alla psicoanalisi la “schizoanalisi”.

Essi negano che l’inconscio sia il centro unificatore di tutti gli atti umani, come sosteneva Freud, e affermano la dispersione dell’essere umano in una molteplicità irrelata di vissuti.

Il “rizoma”, una pianta senza radici e senza fusto, rappresenta una Weltanschauung “in cui scompare un centro unificatore, ogni ordine, ogni norma”[10] e ogni valore risulta insignificante[11].

La filosofia post-moderna, rappresentata da Marquard e Lyotard e il neo-pragmatismo di Rorty negano che l’essere umano sia una sostanza, la cui essenza permane quindi la stessa nel tempo e nello spazio.

In particolare, Rorty evidenzia che “i movimenti più importanti della filosofia del Novecento sono stati antiessenzialisti”[12].

E’ questo anti-essenzialismo che è all’origine dello smarrimento antropologico che viviamo oggi, per cui alla domanda “chi è veramente l’uomo” pochi sanno dare una risposta filosoficamente fondata.

*

NOTE

[1] O. Marquard, Apologia del caso, Il Mulino, Bologna 1991, p. 84.

[2] G. Vattimo, Dopo la cristianità, Garzanti, Milano 2002, p. 8.

[3] Idem, L’età dell’interpretazione, in “Eidos”, 1 (2003), p. 17.

[4] Idem, Quale futuro aspetta la religione dopo la metafisica?, in R. Rorty, G. Vattimo, Il futuro della religione. Solidarietà, carità, ironia, a cura di S. Zabala, Garzanti, Milano 2005, p. 63.

[5] La sua Introduzione a Heidegger, edito da Laterza  nel 1971  è ancora oggi un punto di riferimento fondamentale per chi voglia cimentarsi con la lettura delle opere di Heidegger.

[6] G. Vattimo, L’età dell’interpretazione, in  R. Rorty, G. Vattimo, Il futuro della religione. Solidarietà, carità, ironia, cit. , p. 66.

[7] M. F. Canonico, Antropologie filosofiche del nostro tempo a confronto, Prefazione di P. Viotto, LAS, Roma 2001.

[8] Cfr. ibidem, pp. 45-46.

[9] Cfr. ibidem, p. 46.

[10] Ibidem, p. 49.

[11] Cfr. ibidem, pp. 47-50.

[12] R. Rorty, Anticlericalismo e teismo, R. Rorty, G. Vattimo, Il futuro della religione. Solidarietà, carità, ironia, cit., p. 33.

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Maurizio Moscone

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