La vite simbolo della nostra fecondità spirituale

Lettura patristica per la V Domenica di Pasqua (Anno B), 3 maggio 2015

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Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi, offre oggi la seguente lettura patristica sulle letture liturgiche della V Domenica di Pasqua (Anno B), 3 maggio 2015.

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Sant’Ambrogio, Vescovo di Milano,

Exameron III, V, 12, 49-52

La vite simbolo della nostra fecondità spirituale

Saprai certamente che, come hai in comune con i fiori una sorte caduca, così hai in comune la letizia con le viti da cui si ricava il vino che rallegra il cuore dell’uomo (Ps 103,15). E magari tu imitassi, o uomo, un simile esempio, in modo da procurarti letizia e giocondità. In te si trova la dolcezza della tua amabilità, da te sgorga, in te rimane, è insita in te; in te stesso devi cercare la gioia della tua coscienza. Perciò la Scrittura dice: “Bevi l’acqua dai tuoi vasi e dalla fonte dei tuoi pozzi” (Pr 5,15). Anzitutto nulla è più gradito del profumo della vite in fiore, se è vero che il succo spremuto dal fiore della vite produce una bevanda che nello stesso tempo riesce gradevole e giova alla salute. Inoltre, chi non proverebbe meraviglia al vedere che dal vinacciolo di un acino la vite prorompe fino alla sommità dell’albero che protegge come con un amplesso e avvince tra le sue braccia e circonda in una stretta rigorosa, riveste di pampini e cinge di una corona di grappoli? Essa, ad imitazione della nostra vita, prima affonda la sua radice viva nel terreno; poi, siccome per natura è flessibile e non sta ritta, stringe tutto ciò che riesce ad afferrare con i suoi viticci quasi fossero braccia e, reggendosi per mezzo di questi, sale in alto.

Del tutto simile è il popolo fedele che viene piantato, per così dire, mediante la radice della fede e frenato dalla propaggine dell’umiltà. Di essa dice bene il profeta: “Hai trasportato la vite dall’Egitto e ne hai piantato le radici e la terra ne è stata riempita. La sua ombra ha ricoperto i monti e i suoi viticci i cedri del Signore. Stese i suoi rami fino al mare e fino al fiume le sue propaggini” (Ps 79,9-12). E il Signore stesso parlò per bocca d’Is dicendo: “Il mio diletto acquistò una vigna su un colle, in un luogo fertile, e la circondai d’un muro e vangai tutt’attorno la vigna di Sorec e nel mezzo vi innalzai una torre” (Is 5,1-2). La circondò infatti come con la palizzata dei comandamenti celesti e con la scolta degli angeli. Infatti “l’angelo del Signore si accamperà attorno a quanti lo temono” (Ps 33,8). Pose nella Chiesa come la torre degli apostoli, dei profeti, dei dottori, che sogliono vigilare per la pace della Chiesa. La vangò tutt’intorno, quando la liberò dal peso delle cure terrene; nulla infatti grava la mente più delle preoccupazioni di questo mondo e dell’avidità di denaro o di potere. Ciò ti viene mostrato nel Vangelo quando leggi che quella donna, che uno spirito teneva inferma, era così curva da non poter guardare in alto. Era curva la sua anima che, rivolta ai guadagni, non vedeva la grazia celeste. Gesù la guardò, la chiamò, e subito la donna depose i pesi terreni. Egli mostra che da simili brame erano gravati coloro ai quali dice: “Venite a me tutti voi che siete affaticati ed oppressi, e io vi ristorerò” (Mt 11,28). L’anima di quella donna, come se le avessero scavato intorno la terra, poté respirare e si raddrizzò.

Ma anche la vite, quando intorno le è stato zappato il terreno, viene legata e tenuta diritta affinché non si pieghi verso terra. Alcuni tralci si tagliano, altri si fanno ramificare: si tagliano quelli che ostentano un’inutile esuberanza, si fanno ramificare quelli che l’esperto agricoltore giudica produttivi. Perché dovrei descrivere l’ordinata disposizione dei pali di sostegno e la bellezza dei pergolati, che insegnano con verità e chiarezza come nella Chiesa debba essere conservata l’uguaglianza, sicché nessuno, se ricco, e ragguardevole, si senta superiore e nessuno, se povero, e di oscuri natali, si abbatta o si disperi? Nella Chiesa ci sia per tutti un’unica e uguale libertà, con tutti si usi pari giustizia e identica cortesia. Perciò nel mezzo si innalza una torre, per mostrare tutt’intorno l’esempio di quei contadini, di quei pescatori che meritano di occupare la rocca della virtù. Sul loro esempio i nostri sentimenti si elevino, non giacciano a terra spregevoli ed abietti; ma ciascuno innalzi l’animo a ciò che sta sopra di noi e abbia il coraggio di dire: “Ma la nostra cittadinanza è nei cieli” (Ph 3,20). Quindi, per non essere piegato dalle burrasche del secolo e travolto dalla tempesta, ognuno, come fa la vite con i suoi viticci e le sue volute, si stringe a tutti quelli che gli sono vicini quasi in un abbraccio di carità e unito ad essi si sente tranquillo. È la carità che ci unisce a ciò che sta sopra di noi e ci introduce in cielo. “Se uno rimane nella carità, Dio rimane in lui” (1Jn 4,16). Perciò anche il Signore dice: “Rimanete in me ed io in voi. Come il tralcio non può produrre frutto da solo, se non resta unito alla vite, così anche voi, se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci” (Jn 15,4-5).

Manifestamente il Signore ha indicato che l’esempio della vite deve essere richiamato quale regola per la nostra vita. Sappiamo che quella, riscaldata dal tepore primaverile, dapprima comincia a gemmare, poi manda fuori il frutto dagli stessi nodi dei tralci, dai quali nascendo l’uva prende forma e, a poco a poco sviluppandosi, conserva l’asprezza del prodotto immaturo e non può diventare dolce se non raggiunge la maturazione sotto l’azione del sole. Quale spettacolo è più gradevole, quale frutto più dolce che vedere i festoni pendenti come monili di cui si adorna la campagna in tutto il suo splendore, cogliere i grappoli rilucenti d’un colore dorato o simili alla porpora? Crederesti di veder scintillare le ametiste e le altre gemme, balenare le pietre indiane, risplendere l’attraente eleganza delle perle, e non ti accorgi che tutto ciò ti ammonisce a stare in guardia perché il giorno supremo non trovi immaturi i tuoi frutti, il tempo dell’età nella sua pienezza non produca opere di scarso valore. Il frutto acerbo suole essere senz’altro amaro e non può essere dolce se non ciò che è cresciuto sino alla perfetta maturità. A quest’uomo perfetto solitamente non nuoce né il freddo della morte con il suo brivido né il sole dell’iniquità, perché lo protegge con la sua ombra la grazia divina e spegne ogni incendio di cupidigie mondane e di lussuria carnale e ne tiene lontani gli ardori. Ti lodino tutti coloro che ti vedono e ammirino le schiere dei cristiani come ghirlande di tralci, contempli ciascuno i magnifici ornamenti delle anime fedeli, tragga diletto dalla maturità della loro prudenza, dallo splendore della loro fede, dalla dignità della loro testimonianza, dalla bellezza della loro santa vita, dall’abbondanza della loro misericordia, così che ti possano dire: “La tua sposa è come vite ricca di grappoli nell’interno della tua casa” (Ps 127,3), perché con l’esercizio di una generosa liberalità riproduci l’opulenza d’una vite carica di grappoli.

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Archbishop Francesco Follo

Monsignor Francesco Follo è osservatore permanente della Santa Sede presso l'UNESCO a Parigi.

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