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La vita umana non ha prezzo

La recente sentenza della Corte di Strasburgo getta luce sulle nuove schiavitù alla base della pratica della maternità surrogata

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«Venne infine un tempo in cui tutto divenne di merce». Ci voleva il capitalismo con le sue degenerazioni per dar ragione a Karl Marx. Le parole del filosofo tedesco sembrano scritte, in effetti, con lo sguardo puntato ai giorni nostri. E non è forse un caso che proprio un marxista contemporaneo, Diego Fusaro, le abbia ripescate per descrivere quel che accade sul controverso terreno della maternità surrogata: l’aberrante pratica dell’utero in affitto – legale in diversi Paesi tra cui Stati Uniti, India, Ucraina e Russia – consente di stipulare contratti che impegnano le donne a portare in grembo, per conto terzi, uno o più figli. Naturalmente in cambio di denaro.
Il tema è tornato alla ribalta nei giorni scorsi, quando la Corte europea dei diritti umani ha stabilito la legittimità della decisione delle autorità italiane di allontanare un bimbo dalla coppia che l’aveva sostanzialmente acquistato in Russia, affittando un utero dietro compenso di 50.000 euro.
La pronuncia riaccende i riflettori sulla società di cui siamo parte, sul mondo in cui viviamo. Un po’ ovunque, è innegabile, prevale una concezione improntata all’esaltazione dell’individuo, ai diritti del singolo. A farne le spese è il principio della solidarietà, travolto da quella cultura dello scarto più volte denunciata da Papa Francesco, con moniti ed azioni che hanno trovato eco nella sentenza della Corte di giustizia europea.
A chi legifera ed a chi giudica, in effetti, la Corte di Strasburgo ricorda che non si mercanteggia sulla vita umana, perché ciò significa mettere in gioco il concetto stesso di comunità e di persona. Un basilare punto fermo, che ammonisce che non tutto ciò che è fattibile può essere definito etico e giuridico. L’applicazione immediata del principio affermato è evidente: vanno ascoltate le esigenze di una coppia che desidera un figlio, ma non fino al punto di arrivare a calpestare la dignità umana, il rapporto di filiazione, il diritto di conoscere le proprie origini. Non tutto, insomma, è o può essere famiglia. Il frutto di grembi materni in cambio di un mucchio di dollari in Paesi assediati dalla miseria è un altro modo di ridurre in schiavitù. Legittimarlo significherebbe ammettere, in punto di fatto e di diritto, l’esistenza di un povero pezzo di umanità al servizio del ricco di turno. Con i figli trasformati in beni di consumo e le donne ridotte a fattrici, da scegliere su appositi cataloghi in base ai connotati fisici e genetici ed all’impegno a non cedere a rimorsi e rimpianti al momento di separarsi dal neonato.
A questo schema i giudici comunitari hanno detto no. C’è da augurarsi che il loro pronunciamento venga tenuto nella dovuta considerazione e non venga invece lasciato cadere nel vuoto. Quello presente è il tempo in cui la storia chiama tutti ad un’importante assunzione di responsabilità: rinunciare all’etica, mercificare addirittura il corpo umano, altro non significa che consegnarsi a chi ritiene che la vita sia un incrocio tra domanda ed offerta. Una semplice questione di libero (e selvaggio) mercato, e niente più.

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Vincenzo Bertolone

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