La vita e i suoi limiti: riflessioni bioetiche (parte I)

di don Giuseppe Zeppegno*

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ROMA, domenica, 18 settembre 2011 (ZENIT.org).- Desidero prima di tutto soffermare la mia attenzione sull’autonomia personale. Il significato di questo termine è stato indicato primariamente da Aristotele come la possibilità data all’uomo di organizzare la vita scegliendo tra il bene e il male in virtù delle leggi presenti nella sua natura. Il concetto di autonomia proposto oggi dalla bioetica laica è completamente sganciato da ogni riferimento valoriale universalmente evidente. In Principles of Biomedical Ethics, T. L. Beauchamp e J. Childress affermano che le persone devono poter agire secondo i loro personali valori senza che terzi possano interferire, neppure nel caso che scelgano di mettere a repentaglio la loro vita. L’idea di fondo è che ciascuno ha la sua idea di bene e di male e tali idee non possono essere discusse per sviluppare un confronto su ciò che veramente è bene e male. Il Professor Paolo Merlo, che insegna in questa Facoltà, ha affermato nel suo libro «Fondamenti & temi di bioetica» (2009) che in questo modo «la moralità dell’agire non rinvia più alla libera scelta del bene conosciuto, ma al semplice darsi di un agire autonomo, esente da costrizioni esterne».

Chiediamoci: la dignità personale ha veramente come unico referente il principio di autodeterminazione, inteso come assenza di limite alla condotta personale e sociale? Una seconda questione può essere formulata con la seguente domanda: chi è la persona? Nella lingua greca il termine πρόσωπον (prosōpon), persona, indicava: il volto dell’uomo, la maschera portata dagli attori durante le rappresentazioni. Di fatto, lungo la storia del pensiero umano questo termine acquisì un significato ontologico indicando l’individuo umano concreto, il singolo soggetto di diritti. Con Cartesio (1596-1650) ci fu una grande svolta. Egli definì la persona non più in rapporto all’essere ma all’autocoscienza: “Cogito ergo sum”. Oggigiorno è questo il modo diffuso, da parte di certa bioetica, di interpretare la persona. La formulazione cartesiana aprì a concezioni deboli della persona. Con conseguenze molteplici. Cito a conferma due autori contemporanei. M. Tooley nel 1992 ha scritto: «Un organismo possiede un serio diritto alla vita se possiede il concetto di sé come soggetto continuo nel tempo di esperienze e altri stati mentali, e crede di essere una tale entità nel tempo». Il secondo autore è H. T. Engelhardt. Nel 1996 scrisse: «Non tutti gli umani sono persone. Non tutti gli umani sono autocoscienti, razionali e capaci di concepire la possibilità del biasimo e della lode. Feti, infanti, ritardati mentali gravi e malati o feriti in coma irreversibile sono umani, ma non sono persone […]. Essi non possiedono un’autonomia suscettibile di essere lesa dagli altri».

Quali le conseguenze di questo tipo di informazioni sulla vita? Interpretando questa logica M. Reichlin M. in un articolo del 2001, notò che è plausibile porre termine «alla vita nei casi in cui la condizione patologica è tale da non consentire più alcun esercizio della personalità morale, ossia quando la corporeità personale è privata in maniera pressoché definitiva e non più reversibile delle capacita di trascendenza e di relazione all’altro che ne contraddistinguono la condizione “normale”». Engelhardt arrivò a dire nel suo manuale che è lodevole la disponibilità ad aiutare a morire chi desidera concludere la sua esistenza, ma è incapace di procurarsi da sé la morte purché abbia manifestato l’esplicito “consenso”. Allo stesso modo si esprime il Nuovo Manifesto di Bioetica laica del 2007. Nel testo si legge: «Rivendichiamo la possibilità di scegliere, per mezzo del testamento biologico, i modi nei quali morire, esercitando il diritto di accettare, di rifiutare o di interrompere le terapie anche se iniziate, il diritto di respingere tutti gli interventi medici non voluti, fossero anche il prolungamento della respirazione, idratazione e alimentazione artificiali, anche qualora non fossero futili».

Arriviamo dunque allo stato vegetativo (SV). P. Singer in un articolo comparso nel 2000 sulla rivista Bioetica, Rivista interdisciplinare, e in altri testi, ha presentato un’idea di SV sovente ripresa da altri Autori. Egli evitò di indicare come morti quanti hanno irreversibilmente smarrito l‟attività cosciente perché «considerare morti esseri umani che respirano e il cui cuore batte senza alcuna assistenza esterna», sarebbe «paradossale». Tuttavia, osservò che la coscienza è normalmente indicata come la facoltà rivelatrice della persona umana. Consigliò allora di spostare l’attenzione dalla «morte dell’organismo» alla «morte della persona», continuando a definire gli esseri umani incapaci di coscienza, vivi come organismi, ma «non occupati», cioè morti come persone. In definitiva, è persona l‟essere umano cosciente. Quando viene a mancare la coscienza possiamo dire di essere ancora di fronte ad un essere umano, ma non più ad una persona. Sarebbe allora legittimo poter interrompere l’esistenza di queste «non più persone» che definisce «organismi non occupati», cioè morti come persone.

Su questa scia si pose anche Santosuosso, giurista che molta parte ha avuto nella vicenda di Eluana Englaro. Nel medesimo fascicolo della rivista ha sostenuto che i soggetti in SV, pur essendo ritenuti individui viventi da tutti gli ordinamenti giuridici del mondo, «non hanno alcuna possibilità di recupero della vita cognitiva e quindi di un ritorno, anche solo parziale, a una qualche forma di vita di relazione». Dopo aver seguito la Lettura Magistrale della prof.ssa Mazzucchi, possiamo affermare che è un giudizio a dir poco tranchant … La loro irrecuperabilità, prosegue Santuosso, dovrebbe essere sufficiente a riconoscere la «morte personale» (– analogo criterio di Singer –) di questi individui e dovrebbe indurre a «trovare criteri accettabili e ragionevoli per le decisioni che il progresso tecnico medico rende necessarie in un numero sempre crescente di situazioni».

In altri suoi scritti ha precisato che la medicina ha delle capacità tecniche rilevanti, riesce, ad esempio, a individuare nuove terapie per curare malati che un tempo non sarebbero sopravvissuti. È però necessario evitare il prolungamento di vite che non sembrano più personali. In questa linea, il diritto di morire stabilito dalla «Sentenza Englaro» (9 luglio 2008) ha inaugurato in Italia un pericoloso pendio scivoloso dove nascita, vita e morte non hanno valore in sé, ma sono affidati all’apparente potere dell’uomo di essere arbitro indiscusso della vita. Infatti, dallo stato vegetativo si potrebbe passare ad altre situazioni di disabilità. Una persona malata di Alzeheimer, ad esempio, potrebbe secondo questo tipo di indicazione, essere ritenuta non più occupata, quindi non più persona.

È mio compito presentare una diversa prospettiva. Cito una importante Conferenza svoltasi dal 4 al 7 luglio 2010 a Salerno: «3rd International Conference on Coma and Consciousness». Essa ha offerto una nuova definizione allo SV: sindrome della veglia relazionale o non responsiva. Basandosi unicamente sui dati scientifici, i partecipanti sono stati concordi nell’affermare che con le tecniche avanzate di neuroimaging oggi in uso è possibile dimostrare che nei pazienti con questi gravi disordini di coscienza la situazione non è statica ma dinamica. Per questi pazienti nel 2005 il Gruppo di lavoro del Ministero della Salute «Stato vegetativo o di minima coscienza» presieduto dall’On. Di Virgilio, aveva indicato quattro possibili strategie di intervento: fase acuta: che si deve realizzare in area d‟emergenza; fase subacuta: in reparto intermedio in prossimità della rianimazione; fase riabilitativa: in unità caratterizzate da una importante governance clinica; fase degli esiti: richiede una diversificazione degli interventi secondo il grado di recupero raggiunto dal paziente (riabilitazione domiciliare, ricovero in unità di accoglienza permanente).

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uesto Gruppo di lavoro si rifiutò di definire quest’ultima fase come cronica perché «il termine “cronicità” molto spesso non evoca la necessita di accompagnamento, condivisione, presa in carico». É altresì scorretto indicare le strutture di lungodegenza attrezzate per questi pazienti come “parcheggi”, “attese di fine vita”. Allo stesso modo, deve essere corretta la terminologia spesso coniata dai media per descrivere chi è in SV (“non mondo”, “non vita”). É più appropriato indicarle come “persone con gravissima disabilità”. Nella fase degli esiti, l’inserimento a domicilio è possibile se non sono avvenute importanti evoluzioni cliniche e s’ipotizza la persistenza dello SV perché in condizione di bassa responsività i malati non necessitano di trattamenti complessi. É indispensabile però che i caregiver non siano abbandonati, ma si attivi una rete di interventi che preveda la fornitura dei necessari ausili, di un mezzo di trasporto adeguato da far intervenire all’occorrenza, la possibilità di ricoveri temporanei di sollievo, il coinvolgimento diretto del medico di medicina generale, delle strutture socio-sanitarie territoriali, di gruppi e associazioni di volontariato. Infatti, molto spesso uno dei più gravi problemi dei familiari è quello di non sentirsi sufficientemente supportati dalle strutture pubbliche e dalle reti di volontariato. Inoltre, non tutti possono tenere il loro malato in casa. In Italia sono ancora poco presenti strutture dedicate alla fase post-acuta e non hanno ancora standard d’intervento condivisi. Spesso, come nel caso della Casa dei Risvegli “Luca De Nigris”, tali strutture sono state promosse grazie alla lodevole iniziativa di privati toccati dalla vicenda di congiunti caduti in SV. Altre volte, sono sorte grazie alla felice intuizione di esperti come il prof. Giuliano Dolce e la prof.ssa Anna Mazzucchi che hanno saputo affiancare alla cura d’eccellenza progetti di ricerca all’avanguardia. Il loro operato è contraddistinto da una duplice capacità: curare i singoli casi e condurre una ricerca altamente qualificata nel settore.

In alcuni casi si vengono a creare delle situazioni limite di interesse bioetico. Può capitare che lo SV si prolunghi e diminuiscono le possibilità di ripresa. In questo caso devono essere garantiti gli interventi ordinari e palliativi. Attenta ponderazione va posta nella valutazione della proporzionalità della cura all’insorgenza di patologie di natura spontanea. Interventi rianimatori, chirurgici, chemioterapici, possono risultare sproporzionati per un paziente che ne ottiene l’unico beneficio di continuare la sua vita vegetativa. In sostanza, ha senso rianimare uno SV che va in arresto cardiaco? Ha senso porre in essere importanti interventi chirurgici in una persona in SV? Durante la vicenda Englaro, ad esempio, si registrò una grave emorragia. Quasi tutti erano concordi nel dire «non interveniamo con le trasfusioni». Perché questo tipo di sottolineatura? Perché sembra che l’unico beneficio che il paziente ne potrebbe ricavare sarebbe quello di essere messo in condizione di prolungare il suo SV.

[Per saperne di più consigliamo la lettura del volume che raccoglie gli atti del convegno “La vita ed i suoi limiti” svoltosi a Torino il 26 giugno del 2011, ed edito dal Centro Cattolico di Bioetica dell’arcidiocesi di Torino. La seconda parte della riflessione di don Zeppegno verrà pubblicata domenica 25 settembre]

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*Giuseppe Zeppegno, sacerdote della diocesi di Torino, è direttore scientifico del Master Universitario in Bioetica nella Sezione di Torino della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale e docente all’Istituto Superiore di Scienze Religiose. Ha ricoperto e ricopre incarichi di docenza anche presso il Ciclo istituzionale, il Ciclo di specializzazione in Teologia Morale e il Centro di formazione al Diaconato Permanente. Autore prolifico di libri ed articoli scientifici, è anche assistente ecclesiastico regionale dell’A.C.O.S. (Associazione Cattolica Operatori Sanitari) e assistente ecclesiastico dell’A.M.C.I. (Associazione, Medici Cattolici Italiani).

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ZENIT Staff

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