"La vera sfida è rendere attraenti per l'odierna umanità i valori della famiglia"

Intervista al cardinale Peter Erdö, relatore generale del Sinodo straordinario sulla famiglia del 5-19 ottobre

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Al sessantaduenne ungherese Peter Erdö la Chiesa ha affidato compiti importanti: arcivescovo di Esztergom-Budapest e primate d’Ungheria dal dicembre 2002 (ingresso in diocesi a gennaio 2013), cardinale dal 2003, presidente del Consiglio delle conferenze episcopali europee dal 2006, relatore generale del Sinodo straordinario sulla famiglia, che incomincerà il 5 ottobre. E’ proprio in quest’ultima – delicatissima – veste che l’abbiamo intervistato a via Giulia, presso il Pontificio Istituto ecclesiastico ungherese, al secondo piano di palazzo Falconieri, gioiello barocco in parte opera del Borromini.

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Eminenza, Lei è stato designato come relatore generale del Sinodo del 5-18 ottobre e avrà dunque un ruolo di moderatore e collettore delle istanze che emergeranno nel dibattito. Il suo non sarà certo un compito facile, poiché, a leggere quanto è emerso nei media, la discussione si prospetta agitata. Da quel che si è potuto capire – ci perdoni la metafora calcistica – assisteremo a una sorta di derby assai aspro tra un fronte cosiddetto conservatore e uno progressista, animato da un fantasista come il cardinale tedesco Kasper e ispirato – questo il sospetto dei ‘conservatori’ – da un suggeritore argentino di grande peso. Sarà proprio così?

In realtà non credo che si prefiguri uno scontro tra una dottrina un po’ astratta e una prassi staccata dalla fede, ma più realisticamente un dibattito attorno ai valori. E i valori sono quelli della e per la vita. Come scrisse Paolo VI nella sua grande esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, bisogna operare in modo che il Vangelo penetri la nostra propria vita, facendo tesoro però della tradizione e della fede della Chiesa. Bisogna dunque dialogare con gli uomini e le donne di oggi perché i valori evangelici siano non solo accettati, ma appaiano attraenti, in grado di rendere felice la nostra vita. La grande sfida è questa. Tale è l’argomento centrale del Sinodo, che non casualmente è chiamato già nel titolo a discutere delle “sfide pastorali sulla famiglia nel contesto della nuova evangelizzazione”. Quel “contesto della nuova evangelizzazione” spesso viene però dimenticato nella presentazione massmediatica.

Nel fronte cosiddetto conservatore serpeggia il timore seguente: cambiando la prassi, l’approccio concreto e quotidiano, in materia di famiglia e nel senso della misericordia, non si indebolirà nel mondo cattolico la percezione della dottrina dell’indissolubilità del matrimonio, pur formalmente non toccandola?

In tale contesto, conoscendo le esperienze nelle società di varie parti del mondo, è possibile una differenza di accenti a seconda del luogo in cui si vive. La mia esperienza mi suggerisce che la preoccupazione per la tenuta della famiglia è molto diffusa: in tanti si attendono una parola concreta, che possa essere messa in pratica nella vita quotidiana. Non si tratta di fare grandi discorsi teologici o pastorali, ma di riuscire a incidere positivamente sulla vita di tante famiglie. Dobbiamo essere fedeli al metodo usato durante il Concilio ecumenico vaticano II con grandi e profonde argomentazioni teologiche i cui risultati sono stati offerti alla vita della Chiesa..

Allora Lei non teme che nel popolo cattolico si riduca, a causa di decisioni sinodali, la percezione dell’indissolubilità del matrimonio sacramentale…

Fondandoci sui contenuti dell’Instrumentum laboris, frutto anche delle risposte date al Questionario elaborato dalla Segreteria del Sinodo (che è il documento-base per la nostra assemblea), possiamo già ritenere che la maggioranza dei cattolici del mondo sa che il matrimonio sacramentale non può essere sciolto per volontà delle parti contraenti. Non è un rapporto a tempo, non è solubile. Su questo c’è una vasta condivisione, magari non per motivi teologici astratti, ma biblici e di Catechismo della Chiesa.

Condivisione però non significa automaticamente concretizzazione nella vita di ogni giorno…

Sì, io distinguerei tra coscienza e accettazione del valore del matrimonio e comportamento pratico. La sociologia conosce ampiamente la differenza che ci può essere tra condivisione di un valore e la sua applicazione nella quotidianità. E’ il caso anche del matrimonio cristiano. Se consideriamo il numero dei divorzi, almeno in Europa, vediamo che è altissimo. In Ungheria ad esempio più della metà dei matrimoni finisce in questo modo. D’altra parte chi si sposa in chiesa si impegna pienamente e pubblicamente al mantenimento del legame, alla cura del coniuge in ogni circostanza, lieta e triste. Nella nostra liturgia ungherese c’è una formula di origine medievale molto bella, utilizzata anche dai protestanti, che è un giuramento solenne che impegna fino alla morte.

Si è parlato e si continua a parlare della proposta – cresciuta nell’ambito di un potenziamento di un atteggiamento di misericordia nell’ambito dei rapporti tra Chiesa e famiglia – di riammettere alla comunione i divorziati risposati civilmente…

Il fatto fondamentale è che, considerando le risposte pervenute tramite il Questionario alla domanda su che cosa chiedono i divorziati risposati alla Chiesa, si evince che nella maggior parte dei Paesi tali divorziati non chiedono niente. In tanti Paesi è rarissimo che i divorziati risposati vogliano tornare alla comunione. Molti divorziati hanno sì celebrato il loro matrimonio in chiesa, ma poi non si sono mai curati di frequentarla. E dunque per loro la questione della riammissione ai sacramenti non è importante, non costituisce un problema. In alcune regioni i divorziati risposati non sanno neppure che non possono accostarsi  a certi sacramenti.

Sì, ma allora come mai si parla tanto dell’argomento?

Perché in alcuni Paesi la questione è particolarmente sentita. Il tema emerge altrove piuttosto da una situazione diversa. E mi spiego. Persone di quarant’anni e più incominciano, magari attraverso degli amici, a conoscere veramente la fede. Sono persone battezzate, che hanno celebrato il loro primo matrimonio in chiesa e poi si sono fermate lì nella loro vita dal punto di vista cattolico. Mai sono state veramente praticanti. Divorziate e risposate, dopo un percorso di avvicinamento alla fede, incominciano a comprendere che la loro situazione matrimoniale non è compatibile con la riscoperta della stessa fede. Dal punto di vista pastorale questa è un’occasione per spiegare il vero valore del matrimonio, riflettere sul passato, sui motivi della sconfitta matrimoniale. Può darsi che, approfondendo la loro storia, si scoprano motivi riconosciuti dalla Chiesa come elementi di potenziale nullità del primo matrimonio. Se così è, la successiva sentenza ecclesiastica di nullità del primo matrimonio non sarà solo un atto ufficiale, formale per poter considerare valida la seconda unione, ma una vera e propria liberazione psicologica e pastorale.

Da quanto si è detto, si può dedurre che il tema della riammissione alla comunione dei divorziati risposati non sarà al centro dell’attenzione del Sinodo…

Non so, non posso prevedere quale argomento sarà al centro del dibattito sinodale. Certo tematicamente non deve essere il tema centrale. Noi parleremo del matrimonio nel contesto dell’evangelizzazione, un tema importantissimo, comprovato dalla realtà dei fatti. In molti continenti le famiglie diventano il nucleo operativo parrocchiale, fanno il lavoro caritativo e l’annuncio fra i non credenti.

Anche nell’Europa centro-orientale, afflitta spesso psicologicamente dai guasti del comunismo che considerava con sospetto ogni assembramento non autorizzato dal partito?

In Ungheria e nei Paesi comunisti in genere, il radunarsi in gruppo con regolarità suscitava la diffidenza delle autorità di polizia ed era considerato negativamente. De facto chi
lo faceva veniva indicato come nemico del regime e sorvegliato, a volte anche perseguitato. Nelle parrocchie non esistevano allora comunità di famiglie che leggevano la Bibbia, pregavano insieme, facevano catechismo, si aiutavano a vicenda. La mia esperienza odierna mi mostra invece che oggi più del 70 per cento delle parrocchie della diocesi di Esztergom-Budapest vede in piena attività comunità di famiglie praticanti, soprattutto giovani. Queste comunità invitano amici, altri non credenti e offrono loro la possibilità di avvicinarsi alla fede, come ho constatato avviene per molte madri giovani. Le comunità di famiglie poi non solo partecipano alla preparazione al matrimonio, ma accompagnano gli sposi nel loro cammino, sostenendoli nei momenti di difficoltà. Questa è la realtà delle famiglie evangelizzatrici.

Nella realtà del mondo occidentale sono in continua, forte crescita le convivenze…

Sono convinto che bisogna occuparci di questo problema, che è globale e anche statisticamente più rilevante di ogni altra questione. La gente non si sposa più. In Ungheria più del 50% di tutte le coppie, di tutte le età, convive più o meno stabilmente, senza alcuna forma istituzionale, né religiosa nè civile.

Allora in questo non c’è una grande differenza tra l’Ungheria e tanti Paesi dell’Europa occidentale…

Si deve dire che all’interno dell’area dell’Europa centro-orientale siamo confrontati in alcuni Paesi con una mentalità sociale che chiamerei post-sovietica. Anche l’Ungheria si avvicina a tale modello. In questi Paesi domina una profonda indifferenza e anche il matrimonio, come forma istituzionale della convivenza, perde molto del suo valore. In altri Paesi dell’Europa centro-orientale come la Polonia, la Slovacchia, la Croazia permane invece una tradizione cristiana più vivace: lì numericamente i matrimoni religiosi sono ancora la maggioranza e tuttavia la tendenza è al ribasso.

Eminenza, perché ci si sposa sempre meno?

Si fugge sempre di più dalle istituzioni. Abbiamo trovato ad esempio una correlazione tra la percentuale di chi convive senza alcun matrimonio e la percentuale di chi non chiede i funerali per i parenti… portano le ceneri a casa in un sacchetto di plastica, lo tengono nell’armadio oppure spargono le ceneri al vento…

Una vera e propria privatizzazione sia del matrimonio che del funerale…

Sì, c’è una privatizzazione che non è in sintonia con quello che ad esempio è il matrimonio, è la famiglia. Matrimonio e famiglia non sono realtà solo spirituali, ma hanno un’incidenza nella società: dunque, volenti o nolenti, assumono un importante ruolo istituzionale. Così è per la morte: anche il nostro corpo ha una funzione fondamentale di comunicazione tra di noi e con Dio. Pure dopo la morte. Per la società è importante che i defunti vengano onorati nei cimiteri, ne venga coltivata la memoria. Se invece le ceneri vengono sparse, se ne potrebbe trarre l’impressione che la vita del singolo in fondo non valga niente né per la comunità né per il suo futuro.

Ci sono anche aspetti economici che contribuiscono a far decrescere i matrimoni…

A tutto quanto detto occorre aggiungere anche l’aspetto economico: i matrimoni costano, i funerali anche e la gente di soldi ne ha pochi. Ancora: nella nostra società la gente si sente oppressa, soffocata dalla burocrazia, dalle istituzioni. Perciò, laddove esiste la possibilità di evadere dall’obbligatorietà stretta di un comportamento, tale possibilità viene utilizzata. Come vede, il Sinodo dovrà approfondire tanti aspetti rilevanti dell’odierna vita familiare nelle diverse parti del mondo: aspetti spesso molto complessi e che vanno ben al di là di questioni particolari.

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L’intervista è tratta dal sito Rosso Porpora. Apparirà, in versione cartacea e in forma lievemente ridotta, sul ‘Giornale del Popolo’ (quotidiano cattolico della Svizzera italiana) di giovedì 2 ottobre 2014. 


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Giuseppe Rusconi

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