La UE taglia i pesticidi, ma anche i Paesi poveri

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di Anna Bono*

ROMA, giovedì, 22 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Il 13 gennaio il Parlamento europeo ha approvato a stragrande maggioranza alcune nuove regole che limitano fortemente l’uso dei pesticidi in agricoltura. Si tratta di un voto che ha raccolto il plauso di tutte le organizzazioni che vorrebbero messa al bando la chimica tout court.

In effetti i provvedimenti passati a Bruxelles possono interessare fino all’85% dei prodotti in commercio e prevedono il bando di sostanze molto usate che costituiscono inoltre la base di quasi tutti i 12 insetticidi raccomandati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).

Più di 160 scienziati in tutto il mondo avevano firmato una petizione per indurre il Parlamento europeo a non approvare le nuove regole e Campaign for Fighting Desease, un cartello internazionale di associazioni impegnate nella lotta alle malattie più diffuse nei Paesi poveri, ha pubblicato un rapporto di 14 pagine (http://www.fightingdiseases.org/pdf/NastyBite.pdf) che spiega le ragioni del no al divieto proposto dall’Unione Europea.

Vale la pena di conoscere le loro ragioni.

I firmatari della petizione e Campaign for Fighting Desease non negano ovviamente che le sostanze in questione siano tossiche, ma affermano che possono continuare a essere usate in quantità limitate ma efficaci senza che costituiscano un pericolo per la salute umana e per l’integrità dell’ambiente naturale.

Ritengono pertanto che le nuove regole manchino di base scientifica e impongano standard di sicurezza inutilmente elevati senza tener conto dei danni certi e gravi che ne deriveranno.

La prima conseguenza negativa del provvedimento UE è la riduzione della varietà di pesticidi utilizzabili proprio quando il rapido svilupparsi di forme di resistenza agli insetticidi richiede invece una gamma di sostanze chimiche quanto più possibile ampia.

La seconda è un rallentamento della ricerca scientifica, disincentivata dall’esclusione di tanti elementi, che si ripercuoterà sulla messa a punto di nuovi prodotti: e non solo di quelli destinati all’agricoltura, ma anche di quelli destinati a difendere l’uomo da insetti nocivi come la zanzara anofele.

Inoltre le nuove regole, includendo la proibizione di importare merci contenenti residui delle sostanze bandite superiori a una quantità stabilita, avranno conseguenze di vasta portata sui Paesi poveri che potrebbero essere costretti a scegliere se continuare a usare – in agricoltura e per combattere le malattie trasmesse dagli insetti – dei preparati realizzati con sostanze proibite in Europa, con il rischio di perderne il mercato, oppure sostituirli con altri forse non altrettanto efficaci, come è successo nel caso dei prodotti alternativi al DDT.

Come si ricorderà, negli anni ’60 il DDT, che nel decennio precedente aveva contribuito a cancellare la malaria dall’Europa occidentale e dall’America settentrionale, fu ritenuto da alcuni ricercatori cancerogeno e troppo inquinante per consentirne ancora l’uso. Furono quasi subito smentiti da altri studiosi, ma era troppo tardi per fermare la campagna ambientalista nel frattempo lanciata negli Stati Uniti e in Europa, in seguito alla quale il DDT fu tolto dal commercio in numerosi stati a partire dal 1972.

Da allora in Africa, dove si verifica la maggior parte dei circa 500 milioni di casi annuali, muore di malaria un bambino ogni 30 secondi. Si stima che la malattia costi al continente 12 miliardi di dollari e la perdita di 100 miliardi di dollari di Prodotto Interno Lordo. Nel 2005 l’Unione Europea ha avvertito l’Uganda che se avesse usato il DDT contro la malaria, avrebbe adottato delle restrizioni all’importazione dei suoi prodotti.

Siccome il 30% dell’economia ugandese dipende dall’esportazione in Europa di generi agricoli quali il caffè e i fiori recisi, il governo accettò di sospenderne l’uso che fu ripreso solo nel 2007, dopo che l’anno prima l’Oms aveva finalmente “riabilitato” il DDT: questo in un paese che conta 12 milioni di casi di malaria all’anno su una popolazione di circa 30 milioni di abitanti e che si trova al 154esimo posto (su 177 stati considerati) nell’Indice dello Sviluppo Umano dell’UNDP, l’agenzia per lo sviluppo delle Nazioni Unite.

Situazioni del genere potrebbero ripetersi ora perché alcune delle sostanze sulle quali si è pronunciato il Parlamento Europeo – organofosfati, carbammati, piretroidi e etilebisditiocarbammati – vengono impiegate per combattere i vettori di malattie come la dengue, la tripanosomiasi, la febbre gialla e la malaria e per la disinfestazione da pidocchi, scarafaggi, acari, zecche e altri insetti.

Tra gli stati che rischiano di essere penalizzati vi è ad esempio il Kenya che potrebbe perdere esportazioni per un totale di 400 milioni di dollari: circa 250.000 piccole aziende, 4/5 delle quali con meno di un ettaro di terra coltivabile a disposizione, devono la loro sopravvivenza all’esportazione di fiori recisi e di raccolti ortofrutticoli, industrie già minacciate dalle campagne degli ambientalisti secondo i quali i lunghi viaggi aerei necessari per portare sui mercati europei le merci africane inquinano troppo e consumano eccessive quantità di energia provocando una ‘impronta ecologica’ insostenibile.

“L’Unione Europea è fiera di essere il maggiore fornitore di assistenza allo sviluppo – ha commentato il direttore di Campaign for Fighting Desease, Philip Stevens – ma si accinge ad adottare misure che possono rendere più difficile sradicare la malaria e ostacolare gli sforzi di milioni di coltivatori che cercano di superare la soglia della povertà”.

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* Docente in Storia e Istituzioni dell’Africa presso l’Università di Torino e Direttore del Dipartimento Sviluppo Umano del Cespas.

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ZENIT Staff

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