La speranza cristiana è la soluzione della crisi

Il discorso di monsignor Fisichella al convegno della Comunità dell’Emmanuel

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di Salvatore Cernuzio

ROMA, martedì, 31 gennaio 2012 (ZENIT.org) – “Cristo, mia speranza, è risorto e vi precede in Galilea”.  Ha esordito così, ricordando la potenza dell’annuncio pasquale, monsignor Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione, nel convegno In un periodo di crisi, quale speranza?, organizzato dalla Comunità dell’Emmanuel, svoltosi a Roma venerdì 27 gennaio.

Partendo proprio dal kerigma apostolico, fa notare il vescovo “noi, da duemila anni, percorriamo le strade del mondo ripetendo in modo immutato questo annuncio, antico perché risale alle nostre origini e nuovo perché impegna la fede di oggi e risolve l’originalità della fede cristiana”.

“Cristo è veramente risorto”, ha proseguito il prelato, insistendo sul fatto che se non crediamo questo “Gesù di Nazareth è solo un grande evento della storia con un forte messaggio sapienziale e la Chiesa una grande società che non potrebbe più qualificarsi come ‘sacramento e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano’ ”.

Spostando l’attenzione al momento presente, in cui “non si distingue più tra realtà e fantasia, bene e male, ciò che è frutto della fede e ciò che è solo prodotto ideologico”, mons. Fisichella esorta a chiedersi il perché “l’occidente mostri con sempre più accentuazione i segni di una follia generalizzata”.

“C’è in molti una situazione patologica di angoscia – osserva – che nasce dal dubbio e sfocia nella disperazione, portando a una forma di depressione che si estende a macchia d’olio soprattutto tra i più giovani. Ciò che spesso viene vissuto è una tragedia che impedisce di vedere una soluzione positiva”.

Per capire lo stato di questa crisi è necessaria una breve memoria storica, rammenta il vescovo: “La grande delusione prende forma all’inizio del secolo scorso. Come inizio di ogni secolo, anche il nostro si presentava foriero di buoni auspici e il progresso appariva come la vera conquista per un salto di qualità della vita”.

Lo scoppio delle due guerre mondiali, però, insieme ai totalitarismi, alla mentalità marxista e alla volontà di predominare gli uni sugli altri hanno dimostrato come “la società, pur avanzata, non riesce a trovare forme di convivenza internazionale che sappiano rispettare le peculiarità di ognuno”.

Ai problemi nazionali, poi, “sono subentrati oggi quelli mondiali e planetari” che hanno portato alcuni analisti a parlare di “terza guerra mondiale, combattuta non più sui campi di battaglia, ma in alcune selezionate sedi delle borse mondiali”.

“I fallimenti delle organizzazioni delle Nazioni Unite mostrano l’incapacità di risolvere i problemi: da quelli economici e finanziari a quelli armamentari e della sicurezza – rileva infatti mons. Fisichella – oltre a una generalizzata debolezza politica che ha permesso il predominio del potere economico che, senza principi etici, ha creato una situazione di crisi generalizzata”.

In questo orizzonte, non si può dimenticare l’evoluzione della scienza e lo spazio aperto dalla ricerca biogenetica che, pur nel positivo della ricerca per patologie ereditarie, ha introdotto forme di eugenetica “che stridono con la conquista scientifica e il progresso raggiunto dalla società”, creando “conflitti sempre più profondi a livello delle determinazioni etiche del vivere sociale” .

Un esempio è “la sfiducia nella continuazione della vita in uno stato di sofferenza o la mancanza di dignità che sembra sopraggiungere per chi avanza negli anni”, che portano a considerare sempre più spesso “l’autodeterminazione anche della morte, come un peso da cui liberarsi all’apparire dei primi sintomi di vecchiaia”.

Ci troviamo, di conseguenza, di fronte ad “un allargamento dei diritti individuali che porta a relegare ogni decisione etica nella sfera privata” e che pone in evidenza la natura della crisi che stiamo vivendo: culturale e antropologica.

“L’uomo, da quando, ha creduto di essere pienamente padrone di sé e indipendente da ogni autorità, non è stato più in grado di ritrovare se stesso – soggiunge il prelato – e a quest’uomo sempre più al centro di tutto, incapace di raggiungere la verità perché privo di ogni fondamento, mancava solo l’ultimo tassello per renderlo pienamente autonomo: l’allontanamento da Dio”.

Il prodotto di tutto questo “è un uomo confuso, incerto, incapace di trovare una vera via d’uscita dal tunnel della crisi, perché il suo desiderio di speranza si scontra con troppe forme che la negano e contraddicono”.

“Il mondo ha bisogno di una viva speranza” esclama dunque mons. Fisichella, ricordando le parole conclusive della Gaudium et spes. Ma “quale speranza?”, come appunto suggerisce il titolo del convegno; la “speranza cristiana”, risponde mons. Fisichella, ovvero “la presenza di Cristo nella vita di ogni credente, mistero pieno e totale che Dio ha voluto rivelare”.

“Nella prospettiva cristiana – spiega – la speranza non è un frutto della coscienza dell’uomo, ma un atto pieno, totale e gratuito dell’amore di Dio, che consiste nella chiamata alla salvezza mediante la partecipazione alla sua stessa vita”.

Questa speranza, però, non sorge nel momento della sofferenza o dello sconforto, “altrimenti non si distinguerebbe dal generico sentimento di aggrapparsi a qualcosa come soluzione estrema al male”. Al contrario, la speranza cristiana ha due “sorelle maggiori -come scriveva Peguy – che non l’abbandonano mai: la fede e la carità”.

In un periodo, quindi, “in cui nel nostro vocabolario sono entrate parole come: precarietà, degrado, crisi – prosegue ancora Fisichella –  entra in gioco la missione dei credenti di essere testimoni di questa speranza”, ovvero della “capacità di superare le difficoltà del presente scoprendo di essere già in possesso di un dono”.

C’è bisogno quindi di “nuovi profeti” che, a nome della Chiesa,  assolvano all’imperativo pietrino di essere “sempre pronti a rendere ragione della speranza presente in voi a chiunque ve lo domandi”.

La speranza cristiana, dunque, se vissuta nella sua dimensione comunitaria, è la vera forma per una Nuova Evangelizzazione: “Essa non è un fatto privato – conclude il vescovo – ma azione di tutta la comunità credente che in questo modo si pone come segno per l’umanità intera e permette di comprendere perché il credente debba sperare per tutti e per la salvezza di tutti”.

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ZENIT Staff

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