La sfida del pluralismo religioso

di Chiara Santomiero

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ROMA, sabato, 23 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Un contesto che pone numerose sfide, tra le quali quella “delle condizioni politiche e della sicurezza nei nostri paesi e dal pluralismo religioso”: è quanto sottolinea il Messaggio finale al popolo di Dio approvato il 22 ottobre dai padri sinodali a conclusione dell’Assemblea speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei vescovi.

“La preoccupazione del Sinodo – ha sottolineato mons. Béchara Raï, vescovo di Jbeil dei maroniti in un incontro con la stampa successivo all’approvazione del messaggio – riguarda la presenza cristiana in Medio Oriente e come la Chiesa cattolica può sostenere e incoraggiare questa porzione della Chiesa universale. Anche la lettura degli avvenimenti politici è fatta in una prospettiva teologica: come riconoscere la Parola di Dio per noi in questa situazione?”.

Una premessa essenziale, secondo Raï, per intendere il contesto in cui vive la Chiesa cristiana mediorientale è capire “che il pensiero orientale e quello occidentale sono, per alcuni aspetti, profondamente diversi”.

Sono diversi i concetti di “Stato, politica, religione: se si rispetta la libertà religiosa, non viene intesa la libertà di coscienza, quindi la possibilità di cambiare credo religioso; Stato e religione sono concetti di fatto coincidenti, tanto che in Libano non esiste il matrimonio civile”. Così come in Israele. “D’altra parte – ha sottolineato Raï – l’idea di Stato teocratico non vale solo per l’islam ma anche per Israele: basti pensare al giuramento di fedeltà all’ebraismo richiesto per i nuovi cittadini israeliani che fomenta il malcontento dei musulmani ed è una nuova minaccia per la pace”.

La religione è condizionata dalla politica e a sua volta la condiziona: “le divisioni tra i cristiani in Libano – ha affermato Raï rispondendo alla domanda di un giornalista – non nascono da divergenze religiose”. Infatti “non abbiamo nessun tipo di contrasto tra le chiese cattoliche delle diverse tradizioni e nemmeno con quelle ortodosse con le quali collaboriamo attivamente sulle problematiche pastorali”. “I nostri paesi – ha spiegato Raï – sono piccoli e stiamo sempre insieme, a scuola, nelle feste, sono numerosi i matrimoni misti, c’è molta ospitalità reciproca perché questo è tipico del costume del Medio Oriente”.

“Il problema, allora, non è ecclesiale, ma politico – ha sottolineato –. Siamo un anello della catena formata dai Paesi dell’area mediorientale e tutti risentiamo del conflitto esistente tra musulmani sunniti e sciiti. Le divisioni nascono dalla ‘scommessa’ su quale sia la parte migliore con la quale allearsi per garantire al Libano un governo democratico, non teocratico così che la presenza dei cristiani abbia un senso e non sia solo una forma di sopravvivenza”.

“Il Libano – ha aggiunto Raï –, si dice sia nato da due ‘no’, no alla teocrazia del mondo orientale e no alla laicità occidentale: è stato questo il patto nazionale stabilito nel 1943 tra musulmani e cristiani per affermare una forma democratica nel paese”. Restano, tuttavia “due forze che tirano ognuna per la propria parte e ognuna ha paura che l’altra le si rivolti contro”.

La mancanza di distinzione tra Stato e religione coinvolge anche il modo di guardare agli altri Paesi: “per i musulmani la Francia, l’Italia, gli Stati Uniti sono espressione di una cristianità minacciosa e quasi si aspettano dal Sinodo l’avvio di una nuova crociata per cui valuteranno i documenti prodotti in modo approfondito”. La stessa mentalità coinvolge anche i cristiani: “se l’Iran offre 35 milioni di dollari al mese a Hezbollah – ragionano -, perché il Vaticano non fa lo stesso per noi? Invece siamo noi a fare la colletta per l’obolo di S. Pietro!”.

Uno dei contributi più importanti del Sinodo, secondo Raï, è proprio aver cercato di aiutare “la comprensione delle diverse posizioni. Se non si capisce la differenza di pensiero tra Oriente e Occidente anche l’Europa avrà difficoltà con l’islam nel futuro”.

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ZENIT Staff

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