La sconfitta del "primogenito della morte"

Vangelo della VI Domenica del Tempo Ordinario

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di padre Angelo del Favero*

ROMA, giovedì, 9 febbraio 2012 (ZENIT.org).- Lv 13,1-2.45-46

Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne e disse: “Se qualcuno ha sulla pelle del corpo un tumore o una pustola o macchia bianca che faccia sospettare una piaga di lebbra, quel tale sarà condotto dal sacerdote Aronne o da qualcuno dei sacerdoti, suoi figli. Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”.

Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento.”.

Mc 1,40-45

In quel tempo venne da Gesù un lebbroso che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, puoi purificarmi!”. Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, sii purificato!”. E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato. E ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: “Guarda di non dire niente a nessuno; va invece a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto come testimonianza per loro”. Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte”.

Un malanno divorerà la sua pelle, il primogenito della morte roderà le sue membra” (Gb 18,13): con questa impressionante espressione il libro di Giobbe definisce la lebbra ‘prima creatura’ della morte.

Questa devastante (allora incurabile) malattia era considerata figlia primogenita della morte per il doppio motivo che, mentre divorava fisicamente le membra umane, costringeva la persona a vivere senza relazioni, come un cadavere: “tant’è vero che la tradizione giudaica equiparava il lebbroso al bambino nato morto e la sua eventuale guarigione era considerata una vera e propria risurrezione” (G. Ravasi).

La parola “primogenito”,riferita allamorte, indica un suo ‘figlio’ mortifero, un pungiglione mortale che sta al primo posto per importanza, più micidiale di tutti e veramente ‘capitale’, cioè capace di generare e ‘comandare’ molti altri mali tra gli uomini.

Tale perversa generazione, fa così pensare all’opera occulta del Maligno, il nemico numero uno della vita dell’uomo e primo responsabile della sua morte peggiore, quella dell’anima, dovuta al peccato.

Il lebbroso dei tempi di Gesù viveva come una non-persona, totalmente escluso dalla vita della comunità, essendo stato dichiarato “impuro” dal sacerdote. Questa diagnosi infausta privava anzitutto il malato della possibilità di accedere al Tempio ed alla preghiera, estraniandolo così dalla comunione filiale con Dio e separandolo dalla relazione con i fratelli. Creato a immagine del Dio della vita, quest’uomo (o questa donna) era costretto a vivere a immagine della morte, che rappresenta in sé la fine irreversibile di ogni relazione umana.

Veniamo ora al nostro tempo

La compassione di Gesù per il lebbroso, con la sua affermazione assoluta di volerlo guarire (“Lo voglio, sii purificato!” – Mc ,41), rivela una medesima, perenne volontà di Dio nei confronti di ogni uomo: la volontà di fargli conoscere la verità di se stesso come persona creata a immagine dell’Amore Trinitario, per la gioia di una vita di relazione basata sull’esperienza dell’amore reciproco e della divina Provvidenza.

Sino dal primo istante del concepimento, infatti, l’essere umano è un soggetto unico nel suo genere: “Ricorrendo ad immagini, potremmo dire che la persona, in quanto soggetto, si distingue dagli animali, anche dai più completi per la propria interiorità, e per la vita concentrata in essa, una vita che le è propria, la sua vita interiore. La vita interiore è la vita spirituale. Essa si concentra attorno al vero e al bene. La persona comunica così non soltanto con il mondo visibile, ma anche con il mondo invisibile e soprattutto con Dio” (K. Wojtyla, Amore e responsabilità, Introduzione).

Tornando al lebbroso guarito, forse stiamo pensando che l’antico mondo biblico è troppo lontano da noi, che siamo alle prese con il ‘generale inverno’, la crisi economica e i problemi concreti del lavoro e della famiglia.

Ma se questo è vero per la lebbra del corpo (ma molte sono le malattie e le ingiustizie che anche oggi emarginano l’uomo dall’uomo), certamente non lo è per quella lebbra della coscienza che è il peccato personale, e in particolare il peccato di aborto.

Possiamo ben dire, infatti, che l’aborto volontario nella nostra epoca, nel nostro mondo, nella nostra società è il “primogenito della morte”.

Lo è a tutti i livelli: quello dei diritti umani, quello della pace, quello della giustizia, quello della educazione, quello della famiglia, quello della stessa attuale crisi economica.

Lo è da ogni punto di vista umano: morale, psicologico, spirituale.

L’aborto è il “primogenito della morte” nel cuore della mamma del bambino ucciso. Distruggendo infatti la relazione con il figlio, l’aborto volontario strappa dalle sue viscere la gioia di vivere, compromettendo di conseguenza tutte le sue relazioni personali a partire da quella fondamentale con se stessa e con Dio.

L’aborto è il “primogenito della morte” in ogni nazione che lo ha legalizzato, introducendo così nelle proprie istituzioni il principio distruttore della pace e della vera civiltà, basata sulla giustizia e sull’accoglienza dei più deboli.

L’aborto è il “primogenito della morte” nell’anima di chi lo decide e di chi lo pratica, anche se sotto le mentite spoglie della così detta “contraccezione d’emergenza” o della fecondazione artificiale, poiché è peccato grave che interrompe la relazione vitale con Dio, fino a quando il perdono sacramentale la rigenera purificando l’anima nell’acqua viva della sua Misericordia.

Solo il Primogenito dai morti può sconfiggere nel cuore e nel mondo intero il “primogenito della morte”.

Al riguardo ricordo queste significative parole di Benedetto XVI: “La preghiera non è un accessorio, un optional, ma è questione di vita o di morte. Solo chi prega, infatti, cioè chi si affida a Dio con amore filiale, può entrare nella vita eterna che è Dio stesso”.

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* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.

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ZENIT Staff

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