La prospettiva della fede nella riflessione frankliana

L’esistenza umana come la risposta a un “appello” nel pensiero di Viktor E. Frankl

Print Friendly, PDF & Email
Share this Entry

di Eugenio Fizzotti

ROMA, domenica, 25 dicembre 2011 (ZENIT.org).- Com’è noto Viktor E. Frankl, fondatore della Logoterapia e Analisi esistenziale, nota come la Terza Scuola Viennese di Psicoterapia, ha armeggiato sempre con il concetto di «senso della vita» e ha operato, a livello clinico ma con una forte accentuazione educativa, consapevole che ogni persona si trova di continuo confrontata con situazioni di emergenza e con domande esigenti, alle quali dare una risposta non artefatta né confezionata, ma originale e irripetibile, come originale e irripetibile è la vicenda umana di ciascuno.

E, nel contesto della riflessione frankliana, che nel 1980 è stata ben condivisa dal card. Joseph Ratzinger nel corso di un’intervista pubblicata nel volume Es liegt an uns. Gespräche auf der Suche nach Sinn (Editrice Herder, pp. 122-126), trova un posto centrale la prospettiva della fede. Come sanno bene i lettori dei suoi libri, Frankl fa spesso riferimento ad Albert Einstein, secondo il quale «chiedersi quale significato abbia la vita vuol dire essere religioso», e a Paul Tillich, allorché afferma che «essere religioso vuol dire porre appassionatamente la domanda sul senso della nostra esistenza».

E ciò in contrapposizione all’affermazione di Freud, secondo cui «nel momento in cui ci si interroga sul senso e sul valore della vita si è malati…», mentre «ci si potrebbe arrischiare a considerare la nevrosi ossessiva come un equivalente patologico della formazione religiosa, e a descrivere la nevrosi come una religione individuale e la religione come una nevrosi ossessiva universale». Eppure, «se Freud ha affermato che l’uomo spesso è non solo più immorale di quanto creda, ma anche più morale di quanto pensi, allora si potrebbe aggiungere: talvolta egli può anche essere più religioso di quanto sia disposto ad ammettere».

Non sorprende, allora, se Frankl parla del «Dio inconscio», nel senso che «esiste una spiritualità inconscia, una moralità inconscia e una fede inconscia». E la religiosità inconscia «non appartiene […] alla sfera dell’inconscio impulsivo, ma a quella dell’inconscio spirituale. Io non sono spinto verso Dio, ma occorre che ogni volta mi decida pro o contro di lui. Non vi è istinto religioso, almeno nel senso in cui si potrebbe parlare “come di un istinto di aggressione”, e non vi è neanche – nell’interno della sfera della spiritualità inconscia – un istinto morale, nel senso in cui vi è un istinto sessuale, per non parlare della fede inconscia. Io non sono spinto dalla mia coscienza: succede piuttosto che davanti alla mia coscienza io mi debba ogni volta decidere».

E all’orizzonte della vita umana si delinea la realtà di un significato molteplice che stimola l’uomo ad agire, ad avventurarsi. «Dietro il Super Io dell’uomo non c’è l’Io di un Super Uomo, ma il Tu di Dio. Mai e poi mai la coscienza potrebbe essere una parola di forza nell’immanenza, se non fosse la parola-Tu della trascendenza».

Qui si chiarisce, per Frankl, la differenza tra l’uomo religioso e l’uomo non-religioso: il primo si pone a livello di trascendenza, vede la sua esistenza come un appello e un dono, e sente la responsabilità di rispondere a un’istanza che non è se stesso. Invece, «l’uomo irreligioso è colui […] che prende la coscienza nella sua fatticità psicologica: di fronte a un tale fenomeno puramente immanente egli quasi si ferma, sosta prima del tempo. Potremmo dire che considera la coscienza come l’ultima istanza di fronte a cui essere responsabile. […] Egli è giunto per così dire a una cima immediatamente inferiore alla vera vetta. Perché non procede oltre? Semplicemente perché non vuol perdere il “terreno sicuro sotto i piedi”. L’ultima cima, la più alta, si sottrae al suo sguardo, avvolta nella nebbia, ed in questa nebbia, in tale incertezza, egli non osa avventurarsi. Solo l’uomo religioso è capace di correre un simile rischio». Rischio che costituisce un atto di fiducia radicale nel significato e nel sovra-significato, al di là delle piccinerie confessionali e delle miopie religiose che vorrebbero vedere in Dio un adescatore e un accaparratore di anime.

Una corrispondente della rivista americana Time chiese un giorno a Frankl se la tendenza attuale non portasse lontano dalla religione. Egli rispose dicendo che, a suo parere, «la tendenza di oggi non allontana dalla religione, bensì da quelle confessioni che sembrano non aver altro da fare che contrastarsi di continuo, sottraendosi reciprocamente i credenti».

La giornalista incalzò, chiedendo se, a suo parere, ciò volesse preludere all’avvento, prima o poi, di una religione universale. Egli rispose negativamente: «piuttosto che verso una religione universale, ci stiamo incamminando verso una religione personale – verso una religiosità profondamente personalizzata, partendo dalla quale ognuno scoprirà le parole più intime, più personali, più originali per rivolgersi a Dio. Ciò non vuol affatto dire che debbano scomparire rituali e simboli comuni. Del resto, c’è un’infinità di idiomi, e tutti hanno quale base comune il medesimo alfabeto. In un modo o nell’altro, le specifiche religioni, nella loro diversità, richiamano appunto i diversi idiomi; nessuno oserà proclamare che la propria lingua sia superiore alle altre. In ogni lingua l’uomo può giungere alla verità – all’unica verità -, così come in ogni lingua l’uomo può sbagliare, anzi anche mentire. Allo stesso modo, attraverso l’intermediario di ogni religione, l’uomo può giungere fino a Dio, fino all’unico Dio». E in tal modo Dio si pone come la sorgente in cui l’uomo si costituisce nella sua esistenza personale. E il significato e i valori vengono vissuti e assunti nella propria esistenza in riferimento a Dio, inteso come la radice originaria e assoluta dell’autenticità di ogni essere personale.

L’esistenza umana si prospetta, allora, come la risposta a un «appello» che la vita rivolge di continuo e la realtà si configura come un insieme di indicazioni da riscoprire, come un complesso di valori che esigono di diventare «vocazione». E la vita si rivela, nel suo significato più profondo, come disponibilità ad accogliere e a realizzare i compiti che emergono in ogni singola situazione.

Print Friendly, PDF & Email
Share this Entry

ZENIT Staff

Sostieni ZENIT

Se questo articolo ti è piaciuto puoi aiutare ZENIT a crescere con una donazione