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La penitenza è vita, che si contrappone alla morte

Lettura patristica per la III Domenica di Quaresima — Anno C — 28 febbraio 2016

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Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi, offre oggi la seguente lettura patristica per la III Domenica di Quaresima — Anno C — 28 febbraio 2016.
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Tertulliano (155 circa – 230 c)

De paenitentia, II, 4-7; IV, 1-8

La penitenza nel disegno di Dio

[Dio] richiamò a sé il popolo e lo rinfrancò con i molti favori della sua bontà, pur avendolo riscontrato ingratissimo; e dopo averlo esortato in continuazione alla penitenza, gli inviò gli oracoli di tutti i profeti per predicarla. Appena promessa la grazia che negli ultimi tempi avrebbe illuminato l’universo intero per mezzo del suo Spirito, comandò che la precedesse la promulgazione della penitenza, affinché coloro che per grazia chiamava alla promessa del seme di Abramo, per l’adesione alla penitenza fossero destinati ad essere in anticipo raccolti.
Jn non tace, dicendo: “Fate penitenza” (Mt 3,2): già infatti si avvicinava la salvezza alle nazioni, ossia il Signore che arrecava la seconda promessa di Dio. A chi destinava la preordinata penitenza, prefissata a purgare gli spiriti perché, qualsiasi antico errore lo inquinasse, qualsivoglia ignoranza del cuore umano lo contaminasse, purificando, sradicando e traendo fuori, preparasse allo Spirito Santo venturo una casa interiore pulita, in cui egli potesse entrare per godervi i beni celesti.
Unico è il titolo di questi beni, la salvezza dell’uomo, premessa l’abolizione dei crimini antichi; questa la ragione della penitenza, questa l’opera, che assicura la mediazione della divina misericordia, a pro dell’uomo e a servizio di Dio…
Quindi, per tutti i delitti, commessi nella carne o nello spirito, in azioni o nella volontà, che egli con proprio giudizio ha destinato alla pena, agli stessi, per la penitenza, ha promesso il perdono, dicendo al popolo: Fa’ penitenza e vedrai la mia salvezza (Ez 18,21). E poi: “Come è vero che io vivo – oracolo del Signore Dio – preferisco la penitenza alla morte” (Ez 33,11). Quindi la penitenza è vita, che si contrappone alla morte. Tu peccatore, mio simile – o anche a me inferiore: io, infatti, riconosco la mia responsabilità nei delitti -, così pervaditi di essa, abbraccia la fede come un naufrago si aggrappa ad un qualsiasi pezzo di tavola. Questa preleverà te, liberato dai frutti dei peccatori e ti trasferirà nel porto della divina clemenza.
Afferra l’occasione d’impensata felicità, sì che proprio tu, un tempo nient’altro davanti al Signore se non recipiente arido, polvere del suolo e vasetto da nulla, divenga da ora in poi fico rigoglioso, albero che quasi sgorga acque, dalla chioma perenne e che porta frutti a suo tempo, in modo da non conoscere né fuoco né scure.
Conosciuta la Verità, pentiti degli errori; pentiti di aver amato ciò che Dio non ama. Noi stessi, del resto, non permettiamo ai nostri servi di conoscere quelle cose da cui ci riteniamo offesi: infatti, la ragione dell’ossequio risiede nella somiglianza degli animi.
Invero, occorre parlare diffusamente e con grande impegno del bene della penitenza, e io ne ho fatto materia del mio discorso: noi in effetti per le nostre angustie una cosa sola inculchiamo, che è cosa buona, anzi ottima, quella che Dio comanda. Reputo infatti cosa audace discutere i divini precetti; e non tanto perché si tratta di un bene, e quindi dobbiamo ascoltarli, quanto piuttosto perché è Dio che dispone: prima viene infatti la maestà della divina potestà nella disposizione all’ossequio; prima si pone l’autorità di chi comanda, e non l’utilità di chi serve.
È dunque un bene o no fare penitenza? Cosa rispondi? Dio dispone! Peraltro, egli non tanto dispone, quanto piuttosto esorta; invita con il premio, con la salvezza; e lo giura persino, dicendo: “Come è vero che io vivo“, e brama che gli si creda.
Beati noi dei quali Dio giura la causa; miserrimi se non crediamo neppure a Dio che giura!
Ciò che Dio raccomanda reiteratamente e insistentemente, ciò che anche nel costume umano viene attestato con giuramento, dobbiamo come somma gravità accettare e custodire, affinché nell’adesione alla divina grazia, permaniamo nel suo frutto e possiamo perseverare fino ad averne il premio.

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ZENIT Staff

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