La musica, quel gemito ineffabile che grida nel silenzio


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di Aurelio Porfiri*

MACAO, martedì, 15 marzo 2011 (ZENIT.org).- “Perché contemplando te, tutto viene meno…”. Tempo fa, mi sono impegnato in un commento del bellissimo inno eucaristico medioevale “Adoro Te devote”. Proprio alla fine della prima strofa c’è questo bel verso che abbiamo appena citato. Da musicista e da credente peccatore, mi sono sentito estremamente sollecitato da questo verso, in quanto per me racchiude una verità profonda che va oltre probabilmente l’intenzione dell’autore dell’inno (tradizionalmente attribuito a san Tommaso d’Aquino).

Qui s’incontrano Dio, la musica, le nostre menti, il silenzio…Innanzitutto mettiamo le carte in tavola: chi mi legge non è certo a digiuno di tematiche che trattano il silenzio. In effetti se ne parla sempre molto e lo si nomina a proposito e, spesso, a sproposito. Ma, anche se so di parlare a degli “intenditori”, permettetemi lo stesso di dire due parole su come questo musicista vive il silenzio prima di addentrarmi per quanto possibile nel tema centrale dell’articolo.

Io sono un “cercatore del silenzio”. Come ho scritto da altre parti, ho sempre vissuto con angoscia i silenzi imposti nei ritiri parrocchiali, quando un prete di buona volontà ci intimava improvvisamente: “e ora ognuno per conto suo per due ore a meditare in silenzio!”. Due ore in silenzio!? E che faccio in questo tempo? Perché ho scoperto solo molto più tardi che questo atteggiamento nascondeva un errore di fondo ancora oggi molto vivo nel mondo cattolico e specificamente in quello liturgico. Il silenzio è visto e concepito come assenza di suono: stiamo zitti. E io per molti anni ho creduto che fosse proprio così. Poi la mia formazione musicale mi ha messo in contatto con quel repertorio venerabile della tradizione cattolica che viene chiamato con nome improprio, ma oramai convenzionale, “canto gregoriano”. Qui c’è stata una prima svolta verso una concezione del silenzio più matura. Grazie soprattutto allo “Jubilus”. Cosa è? Negli Alleluia del repertorio classico gregoriano (quello più autentico), sull’ultima sillaba di solito c’è un melisma a volte molto esteso, in cui sembra che la parola perda l’efficacia significante e il testo si perda nel regno dell’afasia. Ecco lo jubilus! È il dire non dicendo. Agostino dedicherà pagine memorabili proprio allo jubilus. Specialmente questa:

Cantate a Lui un cantico nuovo. Spogliatevi di quanto è in voi vecchio: avete conosciuto il cantico nuovo. Nuovo uomo, Nuovo Testamento, nuovo cantico. Il cantico nuovo non compete a uomini vecchi: lo apprendono solo gli uomini nuovi, rinnovati dalla vecchiaia per mezzo della grazia, che già appartengono al Nuovo Testamento, che è il Regno dei cieli. Ad esso sospira tutto il nostro amore, e canta il nuovo cantico. Lo canti però non con le labbra, ma con la vita. Cantategli un cantico nuovo: bene cantate a Lui. Ognuno chiede in qual modo cantare a Dio. Canta a Lui, ma canta bene. Egli non vuole che le sue orecchie siano offese. Canta bene, fratello.(…) Quando puoi offrirgli una così elegante bravura nel canto da non essere in nulla sgradito ad orecchie così perfette? Ecco che Egli quasi intona per te il canto: non cercare le parole, quasi che tu potessi dare forma a un canto per cui Dio si diletti. Canta nel giubilo. Che significa giubilare? Intendere senza poter spiegare a parole ciò che con il cuore si canta. Infatti coloro che cantano, sia mentre mietono, sia mentre vendemmiano, sia quando sono occupati con ardore in qualche altra attività, incominciano per le parole dei canti ad esultare di gioia, ma poi,quasi pervasi da tanta letizia da non poterla più esprimere a parole, lascian cadere le sillabe delle parole, e si abbandonano al suono del giubilo. Il giubilo è un certo suono che significa che il cuore vuol dare alla luce ciò che non può essere detto. E a chi conviene questo giubilo se non al Dio ineffabile? Ineffabile è ciò che non può essere detto: e se non puoi dirlo, e neppure puoi tacerlo, che ti resta se non giubilare, in modo che il cuore si apra a una gioia senza parole, e la gioia si dilati immensamente ben al di là dei limiti delle sillabe? Bene cantate a Lui nel giubilo”. (Esposizione II sul Salmo 32, Discorso 1, 8).

Non c’è dubbio che si tratti di un testo straordinario da leggere e meditare con attenzione. Ma vorrei soprattutto concentrarmi su una delle ultime frasi, in modo così da collegarmi all’oggetto principale dell’articolo. Sant’Agostino dice che la gioia si dilata immensamente fino ad andare ben al di là del limite delle sillabe. Ma quanto godiamo nel canto possiamo goderlo nella contemplazione orante di Dio. In effetti, il canto è contemplazione orante già di per sé. Si arriva ad un certo limite in cui quello che si può dire, fare, toccare, articolare, viene meno. Ma qual è l’oggetto di questa dilatazione contemplativa? Non so che chiamarlo “silenzio”. Ma allora il silenzio non è più assenza di suono, ma pienezza di senso. Dunque non si “fa silenzio” in modo meccanico, ma il vero silenzio è una scuola di alta mistica che merita ben altra applicazione. Quando le parole perdono efficacia, quando le sillabe vengono dilatate fino alla loro massima capacità fino a disintegrarsi, quando la voce cede il passo all’afasia, ecco che una dimensione altra si impone.. Ecco quel contemplare che crea il “deficit”, la mancanza, il “vuoto pieno”. Anche le parole, seppure ispirate, ad un certo punto falliscono. Bruno Forte:

Noi accoglieremo la Parola, ed essa sarà per noi la porta e la via, se, ascoltandola, la trascenderemo verso il Silenzio della sua origine. Obbedisce veramente alla Parola chi “tradisce” la Parola, chi non si ferma alla lettera, ma ruminando la Parola, scava in essa per entrare nei sentieri del Silenzio. Perciò è doveroso non pronunciare mai la Parola, senza prima aver lungamente camminato nei sentieri del Silenzio. Questo ci dice la rivelazione cristiana: Dio è Parola, Dio è silenzio. La Parola è e resta l’unico accesso al Silenzio della divinità, l’indispensabile luogo a cui resteremo sospesi, come inchiodati alla Croce” (Confessio Theologi, Cronopio Editore, Napoli 2002, pag. 27-28).

Il fine di ogni musica e, vorrei dire, di ogni vita, è quello di ritrovarsi in questo silenzio originario e originante, questo silenzio che è mistero ma non nel senso di arcano, magico, lontano. È mistero che si svela velandosi, è itinerario della mente a Dio (per citare san Bonaventura), è perdersi per ritrovarsi. Ecco! Lo smarrimento! Perché non invocare lo smarrimento, quello smarrimento che non è vagare nel nulla ma nuotare nella pienezza, nell’oceano di Dio di cui non sappiamo distinguere le rive ma sappiamo appena intravedere l’azzurro che ci sovrasta e circonda. Non è questo smarrimento il dono d’amore della sposa nel Cantico dei Cantici? Dove è il mio amato? Dove lo avete portato? Ne spia i rumori, “è il mio diletto che bussa…”. Questo dialogo d’amore si svolge avvolgendo i protagonisti: più ci sembra di perderci, più ci ritroviamo. Non è il perdersi in se stessi, nei propri vizi, nelle proprie paure, nei propri problemi. È il perdersi nell’altro, quello smarrirsi che fa sembrare inutile dirsi “ti amo”. Già tendiamo sempre a verbalizzare tutto, pensiamo che il debole intelletto possa supplire all’immenso che ci sovrasta. Invece è proprio la musica che ci mette dentro quel gemito ineffabile che grida senza posa dalle profondità più recondite del nostro essere. La musica è memoria di eterno, è ritorno del già perso, è ritrovare per ritrovarsi. Invece di perdersi in beghe parrocchiali, i musicisti di chiesa dovrebbero sempre meditare su questo punto e sulla responsabilità di cui sono investiti. Invece ci si battaglia sulle note e si perde di vista la musica. Certo le note sono importanti, se non ci si ferma lì.

“Totum deficit…” come ci fa paura questa “mancanza”. Il silenzio ha una s
ua grammatica, un suo stile, un suo modo di parlare, senza di essa abbiamo solo un’assenza di suono. Ritroviamoci alla scuola del silenzio, affinché ogni nota, ogni parola, ogni suono lasci spazio al gemito ineffabile che implora da ciascuno di noi.

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*Aurelio Porfiri vive a Macao ed è sposato, con un figlio. E’ professore associato di musica liturgica e direzione di coro e coordinatore per l’intero programma musicale presso la University of Saint Joseph a Macao (Cina). Sempre a Macao collabora con il Polytechnic Institute, la Santa Rosa de Lima e il Fatima School; insegna inoltre allo Shanghai Conservatory of Music (Cina). Da anni scrive per varie riviste tra cui: L’Emanuele, la Nuova Alleanza, Liturgia, La Vita in Cristo e nella Chiesa. E’ socio del Centro Azione Liturgica (CAL) e dell’Associazione Professori di Liturgia (APL). Sta completando un Dottorato in Storia. Come compositore ha al suo attivo Oratori, Messe, Mottetti e canti liturgici in latino, italiano ed inglese. Ha pubblicato al momento quattro libri, l’ultimo edito dalle edizioni san Paolo intitolato “Abisso di Luce”.

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ZENIT Staff

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