La misericordia come scelta

Il Superiore provinciale del Fatebenefratelli racconta l’esperienza di San Giovanni di Dio e spiega che la Misericordia non allontana il dolore per sempre ma dà senso alla vita

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Un altro otto marzo con i poveri, un altro otto marzo con i malati, un altro otto marzo in mezzo alla sofferenza e alla miseria… Vero. Il Giubileo straordinario non cancella la fatica del mondo, né la gioia prorompe da una liberazione che allontana il dolore per sempre: al contrario, essa germoglia dalla scoperta del senso di questa vita e dalla scelta della misericordia come stile esistenziale.
La fede cristiana, ricordiamocelo sempre, contempla la fatica di vivere e passa attraverso l’accettazione della condizione umana: per questo, alla ricompensa eterna si accede abbracciando il prossimo, che sperimenta una fatica di vivere più dura della nostra.
La misericordia non si vive da soli. Nell’augurio che ci rivolge quest’anno, il Priore Generale, fra Jesus Etayo, illustra come la misericordia sia entrata nel nostro ordine rievocando il sermone di San Giovanni d’Avila, pronunciato a Granada, durante la festa dei Santi Sebastiano e Fabiano, che provocò uno sconvolgimento fatale in Juan Ciudad: “Se il Signore non fosse sceso dalla montagna sino alla pianura, cosa ne sarebbe di noi? Saremmo rimasti nella stessa condizione del passato.
Se il Signore non avesse nascosto la sua grandezza, e non si fosse rivestito della nostra umanità, per lavare gli uomini dal peccato, saremmo rimasti nelle nostre miserie e nelle nostre lordure…”
Quelle parole fecero impazzire Giovanni di Dio, lo sappiamo, ma il punto nodale della sua vicenda spirituale è che il nostro fondatore provò il dolore e la malattia psichiatrica prima di tutto sulla propria pelle, prima cioè di dedicarsi ai malati, prima di consegnarci il carisma dell’Ospitalità e prima di venire riconosciuto universalmente come il fondatore dell’ospedale moderno.
La gioia della fede è dunque una Grazia, il dono più grande della misericordia divina, ma non è un regalo che si può ricevere spensieratamente: allorché Giovanni di Dio fu reso pazzo d’amore dalla Parola di Dio, come ricorda fra Etayo, «la misericordia produsse la conversione e il cambiamento in colui che desiderava già da tempo servire il Signore, ma che ancora non aveva trovato la strada giusta per farlo».
La storia di San Giovanni, del quale celebriamo oggi la solennità, insegna, ai religiosi come ai laici impegnati nelle Opere dei Fatebenefratelli, che l’incontro con la misericordia divina trasforma e salva, certo, ma avviene quando noi «già desideriamo» servire il Signore.
Il Giubileo non deve coglierci impreparati, cioè chiusi in noi stessi. Non dico nulla di nuovo, né per un cristiano né per un seguace di san Giovanni di Dio. La figura evangelica del Buon Samaritano, cui viene associato tanto spesso il fondatore del nostro ordine, non è quella di un predestinato, ma è certamente quella di un uomo buono e disponibile a praticare l’Ospitalità, un uomo che «già desiderava» servire Dio e che incrociò su quella strada il volto sofferente del Signore.
Fu la sua scelta di misericordia a cambiargli la vita, come scelte diverse non cambiarono quella di coloro che lo precedettero sulla strada tra Gerusalemme e Gerico. Scelte. Newsletter PLV-FBF (1/2016) Pagina 2 Scegliere la misericordia è allora il passo più impegnativo cui ciascuno di noi è chiamato in quest’anno giubilare. Farlo, significa ripercorrere le orme di San Giovanni di Dio con la sua stessa “follia” interiore.
Oggi, ben lo sappiamo, la “pazzia” è negletta e stigmatizzata: dirsi pazzi d’amore è forse romantico ma sicuramente desueto. Figurarsi dirsi pazzi d’amore per il Signore! Subiamo il fascino negativo di una cultura efficientista che non premia alcuna “follia” e che, a ben vedere, non contempla neanche la misericordia, perché non riesce a inserirla nella contabilità dello scambio cui si tende a conformarsi ogni comportamento. Eppure, come scriveva San Giovanni alla Duchessa di Sessa «Se considerassimo quanto è grande la misericordia di Dio, non cesseremmo mai di fare il bene mentre possiamo farlo, poiché, mentre noi diamo per suo amore ai poveri quello che Lui stesso ci dà, Egli ci promette il cento per uno nella beatitudine del cielo.
O felice guadagno e usura! Chi non darà quello che possiede a questo mercante benedetto, dal momento che Lui fa con noi un affare così buono e ci prega con le braccia aperte di convertirci, di piangere i nostri peccati e di avere la carità prima verso le nostre anime, poi verso il prossimo? Perché, come l’acqua spegne il fuoco, così la carità cancella il peccato” .
La difficoltà principale che incontriamo nel vivere quest’anno giubilare, allora, non dipende dall’avere sempre di fronte a noi la prova che il male esiste malgrado la nostra misericordia, ma la sottile consapevolezza che neanche il “guadagno” descritto da San Giovanni riesce a indurci a questa scelta – ovverossia neppure l’offerta della vita eterna in cambio di una sincera adesione ad uno stile di vita misericordioso – e credo che questo sia il vero ostacolo da rimuovere per vivere appieno l’anno giubilare. Parlo di un ostacolo apparentemente culturale ma, in fondo in fondo, autenticamente spirituale.
Lo dimostra il fatto che questo deficit di misericordia che caratterizza le nostre vite – e che il Priore Generale ci chiede di colmare «con l’impegno di essere misericordiosi con i nostri fratelli e sorelle più vulnerabili, praticando l’ospitalità con quanti bussano alla porta della nostra casa e del nostro cuore» – era il medesimo che attanagliava i contemporanei di San Giovanni di Dio, il quale lo inquadra perfettamente nella corrispondenza con la duchessa di Sessa.
“Il diavolo ci attira tendendoci sempre dei lacci e delle reti – si legge infatti nella seconda lettera – per farci inciampare e cadere e così impedirci di fare il bene e la carità, impegnandoci solo nella cura dei beni temporali, affinché non ci ricordiamo di Dio e della cura che dovremmo avere della nostra anima, mantenendola pura e rivestendola di buone opere; liberatici da un affanno, siamo presi da un altro, appena terminata una faccenda diciamo: voglio cambiare la mia vita; così, dicendo adesso e un’altra volta adesso, mai riusciamo a liberarci dagli inganni del demonio, fino a che viene l’ora della morte e allora risulta tutto falso ciò che il mondo e il diavolo promettono…” Quanto sono attuali queste parole, scritte nel Cinquecento… Con i sentimenti che ispirano queste riflessioni torniamo ora al nostro otto marzo: come dicevamo, un altro otto marzo, un’altra festa di San Giovanni di Dio, che ci presenta ancora tutti i suoi figli e i suoi collaboratori impegnati sul fronte della carità e dell’Ospitalità, professionalmente preparati a far fronte ai bisogni dell’umanità sofferente di oggi. Insieme, dunque, in questo giorno di festa rinnoviamo il nostro sì all’Ospitalità, perché San Giovanni di Dio continui a vivere nel tempo dandoci occhi e cuore misericordiosi, per chiedere a Dio “di poter avere io un ospedale dove curare i malati come io desidero…” (Castro)

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Massimo Villa

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