La malattia non è un problema sociale, ma una questione antropologica

Saluto di mons. Lorenzo Leuzzi in occasione della XXI Giornata Mondiale del Malato

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Riprendiamo di seguito il saluto pronunciato da monsignor Lorenzo Leuzzi, ieri pomeriggio, nella basilica di San Giovanni in Laterano, in occasione dell’incontro di preghiera, che si è svolto nella ricorrenza della XXI Giornata mondiale del malato. 

*** 

“Chi avrebbe mai creduto al nostro annuncio” (Is. 53, 1) 

Cari amici,

in questa solenne celebrazione eucaristica è risuonata la domanda del profeta Isaia, pronunciata prima di descrivere il quarto canto del Servo di Javhè. Il profeta è preoccupato di annunciare un mistero inaudito per il popolo di Israele. Dalla potenza che aveva liberato il popolo dalla schiavitù d’Egitto, che aveva fatto grandi prodigi nel deserto, che aveva donato, come unico privilegio, la Legge, ora Dio si presenta come Servo.

Anche noi siamo chiamati a preparare il nostro cuore ad ascoltare un annuncio che non riusciamo a comprendere bene: il Messia sarà il servo di Javhè!

Vediamo queste caratteristiche:

“non ha apparenza, non ha bellezza”
“non ha splendore da poterci piacere”
“disprezzato e reietto dagli uomini”

E’ l’immagine dell’uomo sofferente. Chi di noi non ha sperimentato nel momento della malattia questa profonda esperienza: la perdita della bellezza, dell’attenzione dell’altro, la separazione dagli altri.

Quante volte ci siamo chiesti: chi verrà a salvarci da questa esperienza? Può un messia descritto come servo ribaltare la nostra situazione?

In questa giornata del malato la Chiesa fa propria la domanda inquietante del profeta Isaia, perché anche noi siamo scettici nel presentare il servo di Javhè.

Cari amici, noi siamo qui innanzitutto per liberarci da questo scetticismo. Annunciare il servo di Javhè è certamente una provocazione per ciascuno di noi ma è la forza dell’uomo sofferente.

“Lui si è caricato delle nostre sofferenze”
“Lui si è addossato i nostro dolori”

Alziamo il nostro sguardo verso la croce: perché il servo di Javhè è il Crocifisso. Umiliato e schiacciato per le nostre colpe, Lui è Colui che ci attira a sé e ridona la dignità e la grandezza della nostra esistenza. L’uomo sofferente è in Lui e nulla potrà separarlo dalla Sua personale esperienza. La malattia è finalmente liberata dalla maledizione, perché Dio l’ha sperimentata nella sua carne.

Alla domanda piena di scetticismo del profeta Isaia vogliamo rispondere noi: noi qui riuniti ci crediamo! Solo il Crocifisso può riportare la malattia nella nostra biografia, non è un incidente, ma una tappa della nostra storia personale. Non ci sono momenti importanti e altri insignificanti: tutta la nostra esistenza è grande e degna di presentarsi agli occhi dei fratelli.

Cari fratelli ammalati,

non siete mai disprezzati e reietti, mai privi di bellezza e di splendore, perché in voi è presente il Crocifisso che vi dona la sua stessa vita. Con Lui e in Lui la vostra dignità non è mai svanita e la vostra esistenza è davvero libera da ogni desiderio di essere riconosciuti dagli uomini: è Dio che vi riconosce, perché soffre con voi e in voi.

Cari amici,

le parole del profeta Isaia sono di monito per tutta la Chiesa e per tutta l’umanità: guai a noi se emarginiamo il fratello che soffre nella malattia. A nessuno compete il diritto di ridimensionare il significato antropologico della malattia: essa, quando si manifesta nell’esistenza umana, non è altro dall’uomo, ma è l’uomo stesso nella sua verità più profonda, quella cioè di non essere “autosufficiente” e “padrone” della propria vita.

La malattia è la sentinella della nostra quotidiana esperienza: ci insegna la pazienza, la prudenza, la sobrietà, la responsabilità, la disponibilità.

Voi cari fratelli ammalati, siete la luce della Chiesa e della società, perché ci rivelate il Crocifisso e la verità più profonda di noi stessi.

Una civiltà si misura dall’attenzione riservata ai fratelli ammalati: non ci sarà sviluppo umano integrale se la malattia viene considerata un incidente o un semplice fenomeno sociale. I fratelli ammalati non sono una questione sociale, ma l’immagine dell’uomo che si vuole costruire: quella dell’apparenza o del primato dell’uomo accolto per quello che è e non per quello che fa.

Cari amici,

non possiamo porre sullo stesso livello la cura della malattia e le risposte alle nuove esigenze di salute che la società promuove ed esige. Prima l’uomo malato, poi le nuove esigenze sanitarie. E’ quanto mai urgente liberare l’uomo malato dalla gabbia dell’assistenzialismo per promuoverlo nella sua integralità. Il centro pulsante di una comunità è lì dove c’è un fratello che soffre, perché da quel luogo deve partire la vera dinamica costruttiva della società. Affermare e servire tale primato è la grande sfida del Cristianesimo e di tutti gli uomini di buona volontà.

Cari operatori sanitari e volontari,

la vostra opera non è un semplice gesto di solidarietà. Voi servite e alimentate la vera sorgente dell’umanità, quella che molti vorrebbero nascondere o prosciugare. Ma ciò non avverrà mai: la sorgente della vita che sgorga dal cuore degli ammalati è continuamente alimentata dal servo di Javhè che continua a prendere su di sé la sofferenza dell’uomo.

In questa avventura umana e apostolica non siamo soli: c’è Maria, la madre del Servo di Javhè.

Da Lei questa sera impariamo a correre veloci verso i fratelli. Lei ha conosciuto da vicino il servo di Javhè e non l’ha mai abbandonato. Le ricorda che le parole del profeta Isaia non erano vane invocazioni: ma annuncio di una promessa. E in Lei questa promessa si è realizzata. Lei ha creduto, non ha lasciato solo il servo di Javhè quando veniva inchiodato sulla Croce. Ha pianto, ha sofferto ma in cuor suo sperava che non sarebbe stata delusa.

Noi questa sera vogliamo stringerci attorno alla Madre del servo di Javhè, chiedendoLe di non lasciarci mai soli quando la sofferenza si fa più difficile, quando dobbiamo affidarci completamento al suo Figlio. Sono certo che ciò avverrà per ciascuno di noi.

Cari operatori sanitari e volontari,

voi siete coinvolti nella più alta esperienza umana: quella della malattia. Respingete tutte le tentazioni che possano portarvi a servire il fratello che soffre per qualsiasi motivo, anche religioso o umanitario. Nel fratello che soffre si nasconde il mistero della vita umana e dell’amore incondizionato di Dio. Dio e l’uomo si incontrano fino a compenetrarsi. Dio soffre con l’uomo e per l’uomo e la malattia entra nell’esistenza umana non come sventura o maledizione ma come richiesta di amore. I fratelli che soffrono sono coloro che ci amano più di ogni altro fratello, perché sono l’immagine della grandezza della vita.

Maria vi accompagni sempre nel vostro delicato e atteso servizio. Siate sempre ii difensori della grandezza dell’uomo. 

+ Lorenzo Leuzzi
Delegato per la Pastorale Sanitaria

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ZENIT Staff

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