La madre di James Foley: "Prego perché mio figlio non sia morto invano"

Parla Diane Foley, madre del reporter americano ucciso dall’ISIS lo scorso 19 agosto

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Parla con voce ferma e gentile, anche se talvolta si emoziona soprattutto quando ricorda Jim bambino, la signora Diane Foley. È la mamma di quel James Foley che gli estremisti islamici dell’Isis hanno decapitato senza pietà il 19 agosto davanti a una telecamera. Mai la voce di Diane si lascia però rompere dal pianto.

Le lacrime sono già state archiviate, almeno in pubblico, per lasciare spazio a una madre che trova la forza nella fede. «Così come aveva fatto mio figlio», confida, e nella missione cui si sente chiamata: portare avanti il lavoro di James, giornalista impegnato nel dare voce agli ultimi in nome della verità.

Diane e il marito John in qualsiasi intervista si sono fatti vedere insieme, spesso mano nella mano in una stretta che sembra ancorare entrambi a un punto solido, lontano da quel baratro di disperazione che li potrebbe inghiottire da un momento all’altro. Anche in questo caso, Diane ci chiede di condividere con John la conversazione.

Signora Foley, in una lettera alla Marquette University, college gesuita e sua ex università, James descriveva con passione il potere della preghiera. Quanta fede c’era in ogni decisione e azione presa da suo figlio?

«Jim era stato cresciuto nella fede e come cattolico. Di sicuro ciò è stata per lui una base solida, anche se da bambino alla fine faceva soltanto ciò che gli dicevamo io e suo padre. Siamo una famiglia cattolica molto tradizionale e lui ha sempre creduto fortemente in Dio. Ma è stato da adulto, quando è andato alla Marquette University di Milwaukee, che la sua fede si è davvero rafforzata. Lì è stato esposto al lavoro con i poveri e penso che ciò abbia accresciuto il suo credo e gli abbia fatto sentire di essere stato investito da una forte missione, che era quella di dare voce a queste persone».

E già durante il primo rapimento, nel 2011 in Libia, quella fede lo aveva aiutato a superare un momento così difficile…

«Non solo. Aveva anche capito quanto le preghiere delle persone in tutto il mondo lo avessero aiutato. Quando era tornato a casa dopo 44 giorni di prigionia in Libia, era rimasto incredibilmente colpito da questa partecipazione. Per questo, anche se in Siria non era possibile alcuno scambio di informazione, sono certa che Jim sapesse di non essere solo. Gli ostaggi che erano con lui e che sono stati liberati mi hanno confermato come lui trovasse forza in questa consapevolezza, oltre che nella preghiera».

In Libia era ricorso anche al Rosario. Era solito utilizzarlo anche a casa?</strong>

«Non così tanto. Forse in seguito, quando non viveva più con noi ed era cresciuto in lui quel senso di compassione che lo caratterizzava. So che più sofferenza vedeva attraverso il suo lavoro, più la sua fede e il suo senso di missione aumentavano al punto che insegnare ai bambini non gli bastava più. Voleva scrivere le storie e riportare le condizioni di tutti gli esseri umani durante un conflitto, ovunque nel mondo».

Quando decise di dare una svolta alla sua carriera professionale, passando dall’insegnamento al giornalismo?

«Jim era sempre stato un avido lettore, amava i libri, e aveva sempre avuto uno spiccato interesse per il mondo. Quindi, nel giornalismo trovò il modo migliore per esprimere sia questo suo interesse per le storie della gente che quello per la bellezza di diversi Paesi».

Spesso però il giornalismo si concentra su storie che fanno rumore piuttosto che sulla vita di personaggi cosiddetti “comuni”. James ha mai espresso frustrazione per questa dicotomia?

«No. Aveva d eciso di essere un freelance proprio per coprire le storie che sentiva. Ciò gli rendeva la vita più difficile, ovviamente, perché non guadagnava tanti soldi e non aveva protezione, ma aveva la libertà di ricercare la verità come voleva».

Mai avuto il desiderio di far partedi una redazione?

«Forse sì, ma più avanti o forse, credo, gli sarebbe piaciuto diventare un attivista. Aveva già fatto dei lavori per Human Right Watch, di cui eravamo molto fieri. Dopo tutto era ancora giovane in questa professione. Si trattava per lui di una seconda carriera, iniziata da meno di dieci anni».

Avete mai cercato di fermarlo, soprattutto dopo l’esperienza in Libia?

«Oddio, molte volte. Aveva così tanti doni e noi lo incoraggiavamo a trovare altri modi per esprimere questa sua passione. Ma lui non ne voleva sentir parlare, voleva tornare da quella gente. Aveva iniziato ad andare in Siria già nei primi mesi del 2012 e nel momento in cui era stato rapito, a novembre di quell’anno, aveva già parecchi amici siriani e si preoccupava per loro e per il loro desiderio di libertà. Era impossibile dissuaderlo a quel punto».

In dicembre avete avutodegli scambi di e-mail con i suoi rapitori. Avete mai avuto l’impressione che fosse possibile in qualche modo arrivare ai loro cuori?

«Abbiamo pregato così tanto per quello, ma a un certo punto hanno interrotto la comunicazione, così non sappiamo davvero se ciò sarebbe stato possibile. Mi consola però sapere, come mi hanno detto gli ostaggi rilasciati, che Jim ha sempre cercato di accendere una luce di speranza nel suo cuore e in quello degli altri. Per questo siamo così grati a Dio per questo figlio».

Non avete mai perso la fede?

«La mia forza deriva dalla mia fede. Dio ha dato a Jim una forza che lui non aveva prima. Per questo siamo grati per Jim e per tutte le persone che hanno pregato per noi. E noi, come famiglia, speriamo di portare avanti l’eredità che Jim ha lasciato in questo mondo».

Ha trovato conforto anche nella telefonata che le ha fatto il Santo Padre?

«Siamo rimasti molto colpiti dalla sua chiamata, soprattutto perché anche lui in quel momento stava vivendo dei lutti in famiglia».

Ci può dire qualcosa della fondazione che volete creare in nome di James?

«Speriamo che possa proteggere altri giornalisti impegnati su fronti di guerra e che possa aprire un dialogo a livello internazionale su come debbano essere affrontati i negoziati per gli ostaggi».

Suo figlio Michael ha criticato il governo americano dicendo che avrebbe dovuto fare di più. Concorda?

«Ovviamente, avremmo voluto che fosse liberato, ma sappiamo che la situazione era difficile. Con questa fondazione speriamo di aiutare altre famiglie e il governo Usa ad affrontare meglio questo tipo di crisi in futuro. Speriamo che Jim sia stato una specie di sveglia per il mondo anche su questo fronte».

Alcune persone chiedono che James sia riconosciuto come martire. Lei che cosa ne pensa?

«La sua morte e le torture che ha subìto sono state in qualche modo simili a quelle di nostro Signore e penso che Dio gli abbia dato quella forza così come è sempre stato con lui. Per questo, sì, lo posso vedere in un certo senso come martire moderno. Ma ciò per cui prego è che lui non sia morto invano. Spero che la gente nel mondo abbia provato abbastanza orrore per la sua morte da provare più compassione, come lui voleva. Prego perché mio figlio non sia morto invano».

***

Fonte: Credere, n° 37, domenica 14 settembre 2014

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Chiara Basso

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