La luminosità della fede (Prima parte)

Riflessione sull’enciclica “Lumen Fidei” di Papa Francesco

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Pubblichiamo oggi la prima parte di una riflessione sulla enciclica “Lumen fidei” di papa Franceso, firmata da mons. Vincenzo Bertolone, arcivescovo di Catanzaro-Squillace.

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La metafora prescelta fin dal titolo è quella della luce: Lumen fidei. Luce da luce, firmarono nel 325 i trecento vescovi circa, che erano per lo più orientali, riuniti nel concilio di Nicea, intendendo professare la fede ecumenica nei rapporti tra Figlio e Padre nell’unico Dio. Allora, in una stagione che gli storici denominano di cristianizzazione dell’impero romano, quei Pastori trovarono ispirazione nel contesto culturale prevalentemente neoplatonico, e perciò molto attento alla luce, e per il quale il molteplice procedeva dall’unità proprio come luce da luce. Oggi, in un clima se non proprio di secolarismo, quantomeno di scristianizzazione di una quantità crescente, purtroppo, di battezzati (fenomeno più sensibile nel Nord del mondo), la nuova enciclica – firmata semplicemente Franciscus, dal 29 giugno scorso ricorda – non senza assonanze con lo stile di J.H. Newman – la persistenza e il superamento in ottica cristiana di un culto luminoso e solare tipico del mondo antico, quello del sol invictus. L’apologeta cristiano Giustino citava, appunto, e superava, quel culto solare, riflettendo sul giorno del sole (la domenica), come già lo chiamavano i cristiani dal secondo secolo: perché ormai era stato dedicato a Cristo, luce vera che illumina ogni uomo (Gv 1,9). Ora il vescovo di Roma rilancia questa metafora della luminosità proveniente dalla fede in Cristo, nonostante le tante critiche già venute dalle varie componenti dell’Illuminismo moderno e del post-illuminismo contemporaneo. In secondo luogo, superando le contrapposizioni tra conoscere e amare, sollecita a riscoprire, in modo gioioso e positivo, l’amore come fonte di conoscenza: la stessa fede è, infatti, una peculiare forma di conoscenza che riguarda Dio, e che ha per oggetto la verità e come metodo l’amore (nn. 26-27). Si tratta, in ogni caso, di recuperare il carattere di luce della fede cristiana, che una certa modernità razionalistica aveva invece ridotto ad una zona di buio e di oscurità, rispetto alla certezza ed alla chiarezza attribuite in esclusiva alle scienze ed alle tecnologie. Quel pur bel motto del sàpere aude (abbi il coraggio di sapere), mentre riconosceva audacia e forza alla luce della ragione indagante (soprattutto in direzione scientifica e tecnologica), ovvero della ragione di un uomo diventato finalmente adulto e orgoglioso della sua ratio avida di conoscenza del futuro, perveniva ad affermare che la fede é «come una luce illusoria, che impedisce all’uomo di coltivare l’audacia del sapere» (n. 2). Di qui la contrapposizione, tutt’ora invalsa, che la luce della ragione indaga e trova, mentre la luce della fede – meglio, «l’illusione di luce» (ivi) – tutt’al più soddisferebbe l’ansia di pace e di felicità dell’anima, finendo così per essere spesso «associata al buio» (n. 3). Di qui anche la progressiva trasformazione della fede. Essa da antica alleata della ragione – come si vede nella stessa formula trinitaria di Nicea (che aveva chiesto lumi – è il caso di dirlo – al pensiero filosofico oltre che alla Bibbia, per confessare la generazione eterna del Figlio) -, o anche da antica ala per volare insieme con la fede verso il vero, come scriveva la Fides et ratio di Giovanni Paolo II (1998), viene oggi sempre più ridotta ad un ambito in cui quasi si compirebbe come un vero e proprio salto nel buio. Così intesa, la fede, appare, tutt’al più, soltanto laddove la ragione indagante non abbia più carte da giocare e quindi anche un’alea potrebbe avere le credenziali di una via d’uscita. Ma una simile fede riguarda soltanto il privato, l’intimo, il personale e non ha ricadute nel sociale, nel familiare, nella costruzione della città umana e del bene comune, come oggi particolarmente si desidera.

L’incipit dell’enciclica perciò, è la dottrina fondamentale della fede nei suoi rapporti con la ragione umana (tema peraltro ripreso ai nn. 32-34). Ma essa presenta sia la dottrina tradizionale senza supponenza e con esempi concreti (si guardi, tra gli altri, al bel n. 36, dedicato alla teologia scientifica intesa come movimento stesso della fede), sia i legami e le conseguenze concrete della fede sul piano familiare, sociale, ambientale, cittadino; conseguenze operative e pratiche, specialmente quando bisogna misurarsi con le tante, troppe sofferenze umane. Soprattutto nel IV capitolo, il più “operativo” dell’enciclica, si legge che nell’ambito della gestione delle sofferenze e povertà, la fede non vuol essere «un ragionamento che spieghi tutto, ma offre la sua risposta nella forma di una presenza che accompagna, di una storia di bene che si unisce ad ogni storia di sofferenza per aprire in essa un varco di luce» (n. 57). La dottrina della fede, insomma, non è uno dei tanti –ismi che hanno caratterizzato il pensiero degli ultimi due secoli, fino alle degenerazioni dei relativismi e degli egotismi autoreferenziali (n. 46). Anzi, la scelta di tratteggiare la fede soprattutto come luce, risulta funzionale al concetto che soltanto una luce grande e piena può riuscire ad illuminare tutta l’esistenza umana nell’avvicendarsi delle sue stagioni; anche da quando, ingravescente aetate, un successore di Pietro ha dovuto rinunciare al suo servizio, fino al giorno in cui un altro immediato successore, augurando Buona sera ad una piazza san Pietro che accoglie il nuovo Papa, fa capire con una novità di linguaggio di preferire, di essere considerato “vescovo di Roma”. Nel fluire del tempo, evento dopo evento, che aprono a percorsi pressoché infiniti, non si tratta tanto di delimitare il servizio universale del Papa alla sola diocesi di Roma, quanto di rendere evidente che l’esercizio del ministero del successore di Pietro va svolto nella linea della communio ecclesiarum, formulata con chiarezza già dalla Lumen gentium (Ench. Vat: 1/320), una grande Costituzione di quel «concilio sulla fede» (n. 6), che fu il Vaticano II. In questo modo, la fine riflessione già ratzingeriana tra prospettiva cristiana e modernità, viene esplicitamente assunta come “prezioso lavoro” da Francesco con l’aggiunta di «alcuni ulteriori contributi» (n. 7), particolarmente evidenti nella curvatura, per così dire, esistenziale di questo modo d’interpretare il munus petrino, più volte richiamato nell’enciclica, che consiste particolarmente nel voler confermare i fratelli nella fede.

(La seconda parte segue domani, martedì 30 luglio)

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ZENIT Staff

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